Lo sponsalitio pien d'inganni (F)


LO SPONSALIZIO
PIEN D'INGANNI
Novella undecima

Argomento

L'alfiere Campuzano con alcune gioie false dà a credere a donna Esteffania di Cayzedo d'esser un gran ricco; ed ella medesimamente con una casa e mobile d'un'altra fa credere a lui d'essere una gran signora. Affine d'ingannarsi l'un l'altro, si maritano insieme; poi d'indi a poco tempo mentre pensa l'alfiere d'abbandonare la moglie, essa fugge con le gioie false ed egli resta carico di mal francese.

Veniva dall'ospitale della Resurrezione in Vagliadolid, fuori della porta del Campo, un soldato che, per servirli la spada di bastone, per la fiacchezza delle sue gambe e giallezza del suo volto, mostrava chiaramente, benché non fosse la stagione molto calda, di aver sudato in venti giorni tutto quell'umore che forsi in un'ora avea acquistato. Andava con la punta de' piedi, attraversandoseli le gambe come convalescente; et entrando nella porta della città vidde verso lui venire un amico suo, che più di sei mesi non avea veduto, il quale, signandosi come che vedesse qualche mala visione, li si appressò e li disse:

—Che è questo, signor alfiere Campuzano? È possibile che voi adesso siate in questa terra? Come quello che in Fiandra la faceva terciando le picche ed ora qui va strascinando la spada? Che colore, che fiacchezza è questa?

Al qual rispose il soldato:

—Circa ch'io sia in questa terra o no, signor Peralta, il vedermi vi dà risposta; del resto poi non ho che dirmi, solo che esco da quell'ospitale doppo di aver sudato quattordeci cariche di mal francese che mi attaccò una donna, la quale avevo scelto per mia contro ogni dovere.

—Così presto si disposò v. s.? —replicò Peralta.

—Sì signore —rispose Campuzano.

—Sarà stato per amore —soggiunse Peralta— che tali sponsalizi sempre portano seco l'essecuzione del pentimento.

—Non saprei affermare se fu per amore —rispose l'alfiere— benché io sappia dire che fu per dolore, poiché da questo mio accasarmi o straccarmi tanti n'ebbe il corpo, e tanti l'anima, che li corporali mi costano quaranta sudori e quelli dell'anima non ritrovo rimedio per alleggerirli, benché io voglia. Però, non essendo io atto a sostenere lunga diceria in istrada, vostra signoria mi perdoni che un altro giorno e con più commodità le racconterò tutti li miei successi che sono li più nuovi e peregrini che forsi avrà sentiti in tutto il tempo di sua vita.

—Non ha da essere di questa maniera —rispose Peralta— ma che veniate meco alla mia stanza, perché facciamo penitenza insieme, essendo che la pignatta è molto da infermo e, benché ella sia per due, un pasticcio supplirà con il mio servo. Et se la infirmità lo comporta due coscie di porco salato ci faranno la credenza e sopra tutto la buona volontà con che l'offerisco, non per questa volta ma per sempre.

Li rese grazie Campuzano ed accettò l'invito. Andarono a San Lorenzo, sentirono messa e poi andarono a casa, dove mangiarono con molto gusto e contento. Finito il desinare, disse Peralta che li raccontasse li promessi successi; né molto si fece pregare Campuzano, incominciando di questa maniera:

—Ben si deve arricordare il signor Peralta come in questa città io faceva camerata con il capitan Pietro di Herrera che adesso è in Fiandra.

—Me ne ricordo —disse Peralta.

—Ora un giorno —seguì Campuzano—, appena finivamo di mangiare in quella stanza della Solana dove albergavamo, entrarono due donne di gentil presenza con due serve; l'una si pose a parlare con il capitano, in piedi appoggiati ad una finestra; e l'altra si assentò in una sedia vicina a me, con il manto tanto basso sul volto che altro non se le poteva vedere di quello che concedeva la rarità del zendado. Et benché molte volte la pregassi farmi mercede di discoprirsi non fu mai possibile ch'ella farlo volesse, cosa che maggiormente m'accendeva il desio di vederla. Et per maggiormente accrescere questo desio, o fosse di sua industria o caso, cavò fuori la signora una bianchissima mano con molti anelli. Era io allora bizarrissimo, con quella gran collana che v. s. mi deve più volte aver veduto, il capello con un centiglio d'oro, ripieno di molte piume, il vestito di colore apunto da soldato e tanto gagliardo agl'occhi miei, anzi a quelli della mia pazzia, che mi dava ad intender gran cose; et così di nuovo la pregai che si scoprisse, rispondendomi ella ch'io non fossi più importuno, e ch'avea casa, che dovessi farla seguire da un paggio, né che per altro questo faceva che per vedere se la mia discrezione corrispondeva alla mia bravura, essendo cosa indecente alla condizione sua onorata l'insegnarmi la casa e lasciarsi vedere. Le baciai la mano in segno della molta mercede che mi faceva e le promisi li monti d'oro. Finì il capitano il ragionamento ch'aveva con quell'altra; elle si andarono ed io le feci seguire da un mio servo. Dissemi il capitano che quello che la dama da lui voleva era che li inviassi una lettera in Fiandra ad un altro capitano che ella diceva esser suo cugino, ma che lui ben sapeva esserle amante. Io rimasi acceso della mano di neve che veduta avea e morto per il viso che bramava vedere. Così il giorno seguente, guidandomi il servo, mi fu data entrata libera. Ritrovai una casa molto bene all'ordine ed una donna di forsi trent'anni, la quale riconobbi per la mano. Non era bella in estremo, però di maniera che poteva innamorare, avendo un suono nel parlare tanto dolce che entrava per le orecchie nell'anima. Passai con essa lunghi ed amorosi discorsi. Raccontai l'imprese de' miei maggiori, la nobiltà della nostra casata; mi avantai al terzo cielo, offersi, promissi ed insomma feci tutte quelle dimostrazioni che mi parvero necessarie a farmi voler bene; però ella, come che solita a sentire simili o maggiori offerte, più tosto mostrava di sentire le mie parole che di darle credenza. Finalmente questa prattica passò infin quattro giorni che continovai in visitarla, senza che mai arrivassi a corre il frutto che tanto desiava. In tutto questo tempo che io frequentai la sua casa, sempre la viddi sgombrata e vuota da parenti finti e da amici veri. Servivala una fanciulla alquanto più scaltrita che semplice. Infine, trattando li miei amori come soldato che sta in transito di mutar voglia, feci che la signora donna Esteffania di Cayzedo, che tale è il nome di quella che di questa maniera m'ha infranciosato, in questa guisa mi rispondesse: "Signor alfiere Campuzano, simplicità sarebbe se io volessi vendermi a voi per santa. Peccatrice sono stata ed anco adesso lo sono ma non però di maniera che li vicini mi mormorino né li lontani mi notino; né di mio padre né d'altro parente mai fui erede di ricchezza alcuna; con tutto questo però vale il mobile della mia casa da duemillacinquecento ducati e questo in cose che, poste all'incanto, quanto si tarderà in mettervele, tanto si tarderà in convertirle(1) in oro. Con questa ricchezza cerco un marito al quale io debbia sottopormi, esser obediente ed al quale con l'emenda della mia vita abbia da esser sollicita in servirlo in quello che mi commanderà, regalandolo di guisa che di me s'abbia a contentare. Perché non ha prencipe alcuno tanto perfetto cuoco che meglio di me sappia cucinar le vivande, quando mostrando di esser nata per quell'ufficio mi vi voglio porre. So essere maggiordomo in camera, fantesca in cucina, signora in sala: in effetto so commandare e so farmi obedire. Non mando a male cosa alcuna ed accresco molto; il soldo non mi vale tre quattrini ma quattro e mezzo, quando si spende d'ordine mio. La biancheria che tengo, la quale è molta, non si è comprata a tenda o a bottega ma questi dita(2) e quelli delle mie serve la filarono e, se si fosse potuta tessere in casa, si sarebbe tessuta. Dico queste mie lodi perché non apportano vituperio, quando vi è la necessità di dirle. Finalmente voglio inferire che io cerco marito che mi guardi, che mi commandi, che mi onori e non galano che mi serva e mi vitupera. Se a vostra signoria piace di accettarmi in moglie, io sono qui di buona voglia soggetta a tutto quello che da voi sarà ordinato, senza passare in vendita per mezzo de sensali, che non ve n'ha nissuno più perfetto per concertare un simile negozio che le parti stesse". Io, che allora avea il giudizio non in capo ma sì bene nelle calcagna, facendomisi in quel punto maggiore il diletto di quello che mi pingeva l'imaginazione ed offerendomisi alla vista la gran ricchezza, che di già contemplava il tutto in dinari, senza far più discorso di quello che concedevami di fare il gusto che mi poneva grilli nel cervello, le dissi ch'io era il venturoso, il fortunato in avermi dato il cielo, quasi per miracolo, tal compagna per farla signora della mia volontà e di tutto il mio che non era così poco che non valesse, con quella catena ch'io avea al collo, altre gioie che avevo in casa e col spogliarmi di galanterie da soldato, più di duemila ducati, che con li suoi duemilacinquecento era sufficiente quantità per ritirarsi a vivere in una terra donde io ero nato e dove ancora aveva non so che poderi che, sostentati con li dinari, vendendo li frutti a suo tempo erano per darci una vita allegra e riposata. In conclusione si chiuse il matrimonio e ne' tre giorni di pascha che per mia disaventura s'abbatté esser la prima festa si fecero le amonestazioni ed il quarto giorno si desposamo, ritrovandosi presente al dar l'anello due miei amici ed un giovane ch'ella diceva esser suo cugino, al quale io mi offersi per parente con parole molto lontane da quello che io pensava di fare, che per adesso voglio tacere. Il servo mio portò il mio baiulo alla casa della nuova sposa, riserrando in quello alla presenza sua la magnifica mia collana; li ne mostrai tre o quattro altre, se non tanto grandi, almeno di più bella fattura, con altritanti centigli da capello di diverse sorti; mostraili tutti li miei vestiti, le piume e le diedi per la spesa di casa da quattrocento reali incirca che io avea.

Sei giorni gustai del pane delle nozze, spacciandomi in casa come il genero furfante in quella del suocero ricco.

Calpestai ricchi tapeti, dormii in lenzuola d'olanda; facevamisi lume con candelieri d'argento;

facevo collazione in letto; levavami a mezzogiorno; d'indi a poco mangiava; dormiva buona pezza.

Donna Esteffania e la serva mi gettavano l'acqua davanti per rinfrescarmi;

il mio paggio, che fino allora era stato infingardo e poltrone, divenne un daino.

Tutte le volte che donna Esteffania mancava dal mio lato, ritrovavasi in cucina tutta sollicita in ordinar delicatezze che mi destassero il gusto e mi ravvivassero l'appetito;

le mie camicie, collari e fazzoletti erano un giardino di fiori tanto odoravano, bagnati in acqua d'angeli ed acqua nanfa.

Passarono questi giorni volando, in quella guisa che passano gl'anni che sono sottoposti alla giurisdizione del tempo, nel qual tempo, per vedermi così ben trattato, andavo a poco a poco mutando in buona la mala volontà con che avea principiato quel negozio. Ora una mattina, mentre ancora era in letto con la mia donna Esteffania, sentii battere alla porta in istrada. Si fece la serva alla finestra ed in un subito vi si levò dicendo: "O sia la benvenuta; come è venuta prima di quello che scrisse l'altro giorno?" "E chi è venuto?", chiesi io allora alla serva. "Chi? —rispose lei— Viene la signora mia donna Clemente Bueso, accompagnata dal signor don Lope Melendez d'Almendare, con altri due servi ed Ortigosa, la governatrice di casa che menò seco". "Corri —disse allora donna Esteffania— corri ed apri; et voi, signor mio, per quello amor che mi portate, non vi turbate punto né rispondete per me a nissuna cosa che contro sentirete dirmi". "E chi ha da dir cosa che vi offenda, massime essendov'io? —risposi allora— Ditemi che gente è questa, poiché parmi che molto vi abbia turbata la sua venuta". "Non ho tempo di rispondervi —disse donna Esteffania—, solo sappiate che quanto qui vedrete tutto è finto ed indrizzato ad un certo fine ed effetto che poi vi dirò"; et benché io volessi a questo replicare non mi diede luogo di farlo la signora donna Clemente che entrò nella sala tutta vestita di raso verde, con molti passamani d'oro, un capotto dello stesso, con la stessa guarnizione, un capello con piume verdi, bianche ed incarnate, con un ricco centiglio d'oro e con un delicatissimo velo coperto la metà del viso. Entrò con essa il signor don Lope non men bizarro che riccamente vestito da camino. Ortigosa la governatrice fu la prima che parlò dicendo: "Che è questo? Occupato il letto di donna Clemente mia signora, e quello che più importa da uomo? Miracoli veggio in questa casa. Affé, che la signora Esteffania si ha proveduto, fidata nell'amistà della mia signora". "Et questo procede —rispose donna Clemente— dal non aver io mai fatto scelta d'amica ma sì bene provedutami solo di gente che risguarda al suo utile". A queste cose rispose donna Esteffania dicendo: "Non riceva v. s. pensiero di sorte alcuna, perché non senza misterio questo si è fatto, che quando lo saprà io rimarrò discolpata e v. s. senza occasione di lamentarsi". Io in questo mentre mi ero posto in calze ed in giubbone e prendendomi donna Esteffania per la mano mi condusse in un'altra camera e mi disse che quella sua amica voleva fare una solenne burla a quel signor don Lope, pretendendo di esserle consorte, et che la burla era di questa maniera: pretendeva donna Clemente darle ad intendere che quella casa fosse sua, con quanto dentro vi era, e che pensava farline carta di dote, ma che poi fatto il matrimonio poco le importava che si scoprisse l'inganno, fidata nel molto amore che don Lope le portava "e che subito mi avrebbe restituito il mio"; né detto don Lope se l'averebbe a male, perché ella di questa maniera avesse procurato un marito così nobile, anzi li ne avrebbe avuto grado, stimandola di accorta e prudente. Io le risposi che era un grand'estremo d'amistà quello che pensava di fare e che prima pensasse bene a' fatti suoi, acciò che poi per ricuperare il suo non facesse bisogno della giustizia; ma mi rispose lei con tante ragioni, significandomi di aver tante obligazioni verso detta sig. donna Clemente che la obligavano a servirla anco in cose di maggior importanza, tutte cose che, mal mio grado e con rimordimento del mio giudicio, mi fecero condescendere alle voglie di donna Esteffania, assicurandomi che solo otto giorni dovea durare quell'inganno, nel qual tempo saressimo stati in casa di una sua parente o amica. Finimmo di vestirsi ambidue ed andando lei a prender congedo dalla signora donna Clemente e dal signor don Lope feci che il mio servo, preso il baiulo in ispalla, seguisse mia moglie, così feci anch'io senza spedirmi da persona alcuna. Venne donna Esteffania in casa d'un'amica sua e prima che entrassimo dentro stassimo buona pezza fuori in istrada, parlando lei con quella che mi avea fatto credere parente. Infine uscì una serva a dirci che entrassimo io ed il servitore. Ci condusse in una camera molto stretta, la quale avea due letti tanto congiunti che parevano un solo, a causa che non aveano spazio che li dividesse e le lenzuola si baciavano per la vicinità. Quivi stessimo sei giorni né passava ora o momento che sempre fra noi non fosse questione, dicendole io qual cagione tanto potente e necessaria l'avea indotta a lasciar la propria casa, benché fosse stata la sua madre stessa. Usciva io di casa spesso e subito ritornava, tanto che una volta vi venni e ritrovai che mia moglie si era partita per vedere in qual termine si fosse il suo negozio, come mi avea detto, e così la padrona della casa mi richiese per qual cagione tutto il giorno rissavamo insieme e che cosa avea ella fatto che in iscusa rispondeva averlo fatto più per necessità notoria che per amistà perfetta. Il tutto le raccontai et quando venni al punto che le dissi esser mia moglie, la dote che portata mi avea e la simplicità che avea dimostrata in lasciare la propria casa e beni a donna Clemente Bueso, benché con buona intenzione, quanto era la sua, di prendere così nobile marito qual era don Lope, cominciò a signarsi, dicendo: "Ohimè, ohimè, che mala femina", cosa che molto mi conturbò; et alla fine mi disse:

"Signor alfiere, non so se fo cosa con scrupolo della conscienza in raccontarvi quello che me ne sento; ma so ancora che maggiormente la incaricarei s'io mi tacessi. Sia come si voglia; viva la verità e muoia la bugia; la verità adunque è questa, che donna Clemente Bueso è la vera padrona della casa, del mobile e d'ogni cosa che a voi fu portato in dote da donna Esteffania; la bugia è questa, che quanto donna Esteffania vi ha detto tutto è falso, poiché ella non ha casa, mobile né panni da vestirsi, fuor che quelli che le vedete indosso. L'aver avuto commodità e luogo di farvi questo inganno fu che donna Clemente andò a visitare certi suoi parenti nella città di Piacenza e d'indi andò alla divozione di nostra signora di Guadalupe, lasciando in questo mentre donna Esteffania in sua casa, che ne avesse la cura, essendo in effetto grandissime amiche. Benché considerando bene il tutto non devesi incolpare la povera signora, poiché ha saputo guadagnarsi una tal persona come è quella del signor alfiere per marito". Qui diede fine la donna al suo discorso ed io diedi principio a disperarmi e l'avrei fatto se non che l'angelo di mia custodia mi raccordò ch'io ero cristiano e che il maggior peccato dell'uomo è quello della disperazione, per esser peccato del demonio. Questo mi confortò, overo mi raffrenò alquanto, ma non però di modo che io non prendessi la spada ed il ferraiuolo e non andassi in busca di donna Esteffania, con proposito di fare in lei un essemplar castigo; però la sorte, che non so se le mie cose migliorava o faceva peggiori, non volle mai che in quanti luoghi la ricercai potessi ritrovarla. Andai a San Lorenzo tutto ripieno di pensieri, mi raccomandai al santo ed a nostra signora, poi assentatomi sopra uno scanno mi prese un così profondo sonno che, se non mi destavano, non so qual fosse stato di me. Uscii della chiesa e me n'andai alla casa della sig. Clemente, dove come padrona della casa la viddi stare riposatamente senza pensieri; non le dissi nulla per esserle alla presenza il sig. don Lope e me ne ritornai con la coda fra le gambe alla casa dell'albergatrice, dalla qual intesi esser donna Esteffania ritornata ed averli detto com'io sapea tutta l'istoria de' suoi inganni e che ella chiesto le avea che sembiante avea io dimostrato a queste parole, ed intendendo che tristo e che m'ero uscito con mala intenzione e peggior determinazione avea fatto portar via quanto era nel baiulo, senza pur lasciarmi un solo vestito da camino. Corsi a vedere la verità di questo e trovai d'avantaggio ancora, essendo egli rimasto aperto come sepoltura ch'aspetta il defonto, il quale dovevo esser quell'io se avessi avuto cervello per sentire tanto gran disgrazia e disaventura. Intesi poi che quello che alle nostre nozze era passato per cugino s'era partito con lei e ch'era un antico suo innamorato. Non volli cercarla per non trovar il male che mi mancava. Cangiai l'alloggiamento e fra pochi giorni anco cangiai il pelo, perché cominciarono a pelarmisi le ciglia e le palpebre, lasciandomi a poco a poco li capegli, e divenni calvo innanzi il tempo, dando nella pelarella; et veramente mi viddi esser un perfetto pelato, perché non avea barba da impegnare né dinari da spendere. Fu la infirmità di tal maniera che, accompagnata dalla necessità, per non spendere quei vestiti che poi doveano farmi onore in sanità, venuto il tempo che nell'ospitale danno il decotto, vi sono entrato, dove ho fatto la quarantena. Dicono che se io mi guardo resterò sano, ho la spada meco; del restante Iddio mi agiuti.

Se li offerse di nuovo Peralta tutto maravigliato di quello aveva sentito, quando Campuzano, di ciò accortosi, li disse:

—Oh v. s. si maraviglia di poca cosa, non avendo finora raccontato altri successi molto più maravigliosi che imaginazione umana non li può capire, essendo essi fuori dell'ordine di natura. E v. s. per vita sua non brami però di sapere più oltre, bastandole solamente il dirle che tanto sono maravigliosi e fuori di natura che ogni mia disgrazia tengo per più che bene impiegata, essendomi stata mezzo perché io fossi posto nell'ospitale, dove viddi quello che v. s. già mai sarà per credere, come neanco persona del mondo ciò vorrà fare.

Tutti questi preamboli che l'alfiere faceva prima di raccontare quanto aveva veduto maggiormente accendevano il desio di Peralta d'intenderlo, di maniera che l'incominciò a pregare fosse servito raccontarli queste maraviglie; onde per aggradirlo l'alfiere così li disse:

—V. s. avrà veduto li due cani con le due lanterne che, quando i fratelli dalla sporta vanno chiedendo elemosina, li vanno avanti facendo lor lume.

—Sì che gli ho veduti —rispose Peralta.

—Medesimamente avrà vostra signoria veduto o per lo meno sentito ciò che d'essi si racconta, che, se a caso dalle finestre fu lor fatta elemosina e che detta elemosina cada in terra, essi con ingegno quasi umano si fanno subito dond'è caduta col lume e la cercano, mettendosi d'ordinario davanti le case ove loro è fatta, con tanta mansuetudine che più tosto paiono agnelli che cani, essendo per lo contrario nell'ospitale leoni, osservando e custodendo il tutto con straordinaria vigilanza.

—Questo pure ho sentito dire —rispose Peralta— ma però non mi cagiona tanta maraviglia.

—Oh quello adunque che d'essi io sono per dire la cagionerà; però senza far croci od allegare impossibili, v. s. si accommodi a credere quanto son per dirle, che è la stessa verità. Quello adunque che d'essi io son per dire è che una notte, circa il mezzo, che fu la penultima de' miei sudori, udii, anzi che quasi con gl'occhi propri io viddi questi due cani, uno de' quali è chiamato Berganza e l'altro Scipione, dietro il mio letto, sopra una stuora vecchia posti, mentre che pensando alle mie disgrazie io era desto, ambidue parlare con voce umana. Già da prima non pensav'io questo quando che da curiosità mosso volli intendere chi parlava e di che si parlava; così venni in cognizione ch'erano dessi.

Appena questo finì di dire Campuzano quando che levatosi da sedere Peralta disse:

—Fin adesso, signor alfiere, io son stato dubbioso circa il crederli lo sponsalizio pien d'inganni che mi ha raccontato; ma ora che dietro a quelle maraviglie vi aggiunge ancora questa delli due cani fa che ugualmente io stima falsa ogni cosa. Per sua vita, signor Campuzano, che non racconti questi spropositi ad altri che ad amici della qualità che li son io.

—Non mi tenga però v. s. —soggiunse l'alfiere— tanto ignorante ch'io non sappia che se non miracolosamente possono parlare gl'animali, e che, se bene parlano li papagalli e le bertuccie, ad ogni modo altro non proferiscono che le parole apprese e mandate alla memoria, avendo a questo più degli altri animali la lingua atta e commoda, però che possano parlare fondatamente e rispondere della maniera che facevano questi due cani è impossibile, anzi che da me non ho voluto, se non doppo molta sicurezza, dar credito a me stesso, volendo anzi tenere per sogno ciò che, essendo realmente desto, con li cinque sentimenti che nostro signore fu servito darmi, ascoltai, udii, notai et finalmente scrissi puntualmente, dalla qual scrittura credo si potrà cavare indizio bastante a movere e persuadere che si creda questa verità. Le cose delle quali trattarono furono grandi e differenti, degne molto più da esser trattate per bocca d'uomini savi che di cani. Di modo che, come impossibili da inventarsi da me, mi fanno a credere ch'io non sognava e che i cani veramente parlavano.

—Corpo ch'io non so dire —disse Peralta—, è ritornato il tempo di Maricastagna, quando le zucche parlavano, o quello d'Esopo, quando disputavano insieme il gallo e la volpe con gl'altri animali.

—Un animale, ed il maggior di questi sarei io, signor Peralta, se credessi che questo tempo fosse ritornato; ed animale medesimamente sarei s'io lasciassi di credere ciò che udii con questi orecchi e che con il maggior giuramento del mondo io affermarei per vero. Però, posto caso ch'io mi sia ingannato, che questa verità sia sogno, che il difenderlo sia uno sproposito, ad ogni modo non avrà v. s. caro vedere scritto in un colloquio le cose che questi, o cani o siano chi esser si vogliano, dissero?

—Come che v. s. sig. alfiere —disse Peralta— non si affatica più in persuadermi a credere che i cani parlano ascoltarò volontieri questo colloquio che, essendo fatto dal signor Campuzano, di già lo giudico per cosa buona.

—Vi è di più —replicò a questo Campuzano— che come io stava attento ed aveva il giudicio delicato, pronta, sottile e disoccupata la memoria, mercede alle molte uve secche e mandorle ch'io aveva mangiate, quasi le stesse parole, senza ornamenti retorici scrissi, non aggiungendovi né diminuendovi cosa alcuna. Ned una sol notte gli ascoltai ma sì bene due, avegna che i discorsi d'una sola io abbia scritti, che contengono la vita di Berganza, pensando medesimamente di scrivere quella del compagno Scipione, che furono i discorsi della seconda, s'io vedrò che questi della prima si credano o per lo meno non si spregino. Ecco la scrittura posta in forma di colloquio, affine di risparmiare quello "disse Scipione", "rispose Berganza", "replicò il compagno", "soggiunse quell'altro", cose tutte che sogliono tediare ed allungare il racconto.

Ciò dicendo l'alfiere cavò dal seno un cartafaccio e lo pose in mano a Peralta, il quale ridendosi lo prese, seguendo Campuzano:

—Io mi assento sopra questa sedia intanto che v. s. legge questi sogni o spropositi che chiamarli volete, i quali altro non hanno di buono che il poterli lasciare quando che tediano.

—Faccia v. s. quello che vuole —disse Peralta—, ch'io con brevità mi dispedirò di questa lettura.

Si assentò l'alfiere e Peralta aperse il cartafaccio, il quale nella prima facciata vidde che diceva così.

Il fine della novella undecima