L'alfiere Campuzano s'innamora di Stefana de Cayzedo. Questa e quello s'ingannano l'un l'altro con maritarsi insieme. In che si vede un chiaro esempio di quell'astuzie che sogliono usare le meretrici e simili cattive donne o, per dir meglio, che chi la fa l'aspetta, cioè che spesse volte chi pensa ingannare si ritrova ingannato.
Dall'ospedale della Risurrezione di Vagliadolid, che sta fuora della porta chiamata del Campo, usciva un soldato, il quale alla squalidezza del volto e debolezza delle gambe, che lo costrigneva d'appogiarsi sopra la spada come sopra un bastone, mostrava chiaramente che, se bene quella stagione non era se non poco calda, tuttavia avea sudato in venti giorni tutto l'umore che forse egli s'aveva guadagnato in un'ora.
Caminava in punta di piedi e titubando da convalescente;
ed all'entrare nella città vidde venire alla volta sua uno de' suoi amici, ch'egli veduto non aveva eran più di sei mesi, il qual accostandosegli e facendo segni di croce, come se s'avesse davanti qualche cattiva visione, così gli disse:
Che cosa è questa, signor alfiere Campuzano?
È possibile che vostra signoria sia in questo paese?
Io credeva, affé di quel che sono, che voi foste in Fiandra, là portando la picca o vibrandola, anzi che qua strascinando la spada.
Che colore, che debolezza è quella?
A cui rispose il Campuzano:
Al domandarmi, signor dottor Peralta, s'io sia in questo paese o no, la mia presenza vi risponde assai.
Circa l'altre domande non so che dirvi, se non che vengo fuora di quello ospedale, ove ho sudato quatordeci some di mal franzese che una donna ch'io tolsi per mia moglie, ancorché non doveva, mi pose adosso.
Dunque, voi sete maritato? replicò il Peralta.
Signor sì rispose il Campuzano.
Forse per amor solamente seguitò il dottore li così fatti maritaggi si portano con loro tutta apparecchiata l'esecuzione del pentimento.
Non saprei dire rispose il Campuzano se sia stato per amore, ma ben posso assicurare che sia stato per dolore, poiché del mio maritaggio, o mal retaggio, tanto n'ho ricevuto e provato nel cuore e nell'anima che quel del corpo per mitigarlo mi costa quaranta sudori e quel dell'anima neanche lo posso sedare, perché non trovo rimedio.
Ma perdonatemi s'io non posso trattenermi più lungamente qui sulla strada; un'altra volta con più comodità racconterovi tutti li miei successi, i quali sono nuovi e strani, che credo non averete mai i simili uditi.
Non ha da essere un'altra volta disse 'l licenziato ma voglio che venite ora con esso meco a casa mia, se ve ne contentate, e là insieme faremo penitenza, perché in ogni modo la mia pignata è da infermo ed ancorché per due sia tassata, a causa del mio servitore, un pasticcio ed una fetta di presciuto da Rute, se lo permette la vostra convalescenza, per antipasto saranno il supplimento e sopra tutto la buon'affezione con la quale ve l'offero e ve ne priego, non solamente per questa volta ma per quante vorrete.
Ringrazionelo il Campuzano con accettar l'invito.
Andarono insieme a sentir messa a San Lorenzo, indi a casa del Peralta che lo trattò come gli aveva promesso e se gli offerì di nuovo; e nel fine del desinare pregollo gli raccontasse i successi tanto da lui esaggerati.
Allora il Campuzano, senza farsi troppo pregare, cominciò in questa maniera:
Credo vi si ricorda, signor dottore, che in questa città io faceva camarata col capitano Pietro da Ferrera, il quale oggidì si ritrova in Fiandra.
Ben mi ricordo rispose il Peralta.
Or un giorno seguitò il soldato che noi finivamo di desinare in quella osteria della Solana ove albergavamo, entrarono due donne d'assai buon garbo, con due serve;
l'una prese a ragionare col capitano, ambedui appoggiati ad un balcone;
l'altra posesi a sedere appresso a me, il velo abbassato insin al mento, perch'io non poteva vederle il viso, se non quanto lo permetteva la rarità del manto;
ed ancorché la supplicassi farmi tanto favore di scuoprirsi non fu possibile di ottenerlo, il che m'accese ancora più il desiderio di vederla.
E per farlo maggiore, o fosse a caso o da industria, la signora si cavò fuora una candida mano, con molto buon'anelli.
Allora vistosamente io compariva con quella gran collana che può esser m'abbiate veduta portare, il capello col suo cordone di scintillo e tutto coperto di piume, il vestito di vari colori a modo di soldato e quello sì galante e sì bizarro agli occhi della mia vanità e pazzia ch'io mi dava ad intendere che poteva far morire le donne in aria.
Con tutto ciò, la pregai che si scoprisse ed ella mi rispose: "Non mi siate importuno, ho una casa, fate venirmi dietro un paggio, perché, quantunque io abbia più d'onore che non accenna questa risposta, tuttavia non mi sarà a dispiacere che mi vediate, acciò possa vedere se la vostra discrezione colla vostra galanteria corrisponda".
Ringraziaile del gran favore e per contracambiarlo le promissi montagne d'oro.
Il capitano finì il suo ragionamento
ed elleno andaron via, seguitate da uno mio servitore.
Mi disse il capitano che quel che la signora da lui voleva si era ch'ei portasse alcune sue lettere in Fiandra ad altro capitano ch'ella diceva esser suo cugino, bench'egli già sapeva colui esser il suo innamorato.
Restai acceso tutto da quella man di neve ch'io veduta aveva e consumato per quel viso che veder io bramava.
E così l'altro giorno, condotto dal mio servitore a casa sua e datamici libera entrata, quella trovai molto ben addobbata et in essa una donna ch'io conobbi alle mani esser d'anni trenta incirca.
Non era grandemente bella ma tuttavia assai per con il ragionare far venir dell'amore, perché aveva un sì dolce parlare, e sì soave, che per gli orecchi nell'animo entrava.
Ebbi con lei un lungo ed amoroso parlamento.
Con vanto innalzai la mia casata, io fendei, tagliai, offerii, promisi e feci tutte le dimostrazioni che mi parvero necessarie per guadagnarmi la grazia sua.
Ma perché assuefatta era a sentire simili o maggiori offerimenti e grandezze pareva che lor desse attenzione, anzi che credito alcuno.
Infine il nostro ragionare in quattro giorni che la visitai se n'andò tutto in fumo od in fiori, senza ch'io venissi a coglierne il frutto da me bramato;
ed in quel tempo trovai la casa sgomberata e senza visioni di parenti postici e finti e di amici veri.
Aveva una serva più astuta e trincata che semplice o sciocca.
Insomma, trattando i miei amori come soldato ch'è nella sera di mutar la mattina, volli sapere qual fosse l'intenzione della signora Stefana da Cayzedo (quest'è il nome di quella che così m'ha concio), la quale mi rispose:
"Signor alfiere Campuzano, semplicità sarebbe s'io pensassi vendermivi per santa, che sono stata peccatrice ed ancora la sono,
ma non in modo che i vicini ne mormorino né che dai lontani possa esser notata. Da padre e madre né da altri parenti non ho ereditati beni;
ciò nonostante vagliono, per lo manco, duemilacinquecento scudi i mobili e la robba che ho in questa casa, perché messi all'incanto caverebbesene subito i soldi.
Con questa poca facoltà cerco un marito a cui donarmi ed ubbidire ed insieme con emendare la mia vita aver incredibile cura in accarezzarlo e servirlo ed anche regalarlo,
perché non è prencipe ch'abbia cuoco che più di me, quand'io mi ci voglio mettere, sappia cucinar le vivande e dar lor i suoi condimenti, saporetti e leccardia.
Per casa so far del maggiordomo, esser guattara in cucina e nella sala padrona e signora: infatti so comandar e fare che mi si ubbidisca.
Non dissipo la robba col mandarla a male; anzi molto l'accresco. Il mio soldo non vale manco ma vale più assai, quando si spende d'ordine mio.
Tutti li panni lini da biancheria, ch'ho in buona quantità e buoni, non vengon mica dalle botteghe di quelli che li vendono, queste mie dita e quelle delle mie serve gli hanno filati e, se in casa s'avessero potuto tessere, vi sarebbono stati tessuti.
A me do queste lodi perché non danno biasimo, quando è di necessità dirle.
Insomma cerco un marito che mi protega, mi comandi e m'onori e non amico o drudo che mi servi e vituperi.
Se vostra signoria vuol accettare il partito, gliel'offero: eccomi qui apparecchiata ad ogni cosa ch'ella volesse comandarmi, senza passar per bocca o per trattato di sensali, ch'è com'esporsi in vendita, perché nessuno può così bene negoziar il tutto come coloro che sono parti".
Io, ch'allora aveva il giudizio non nella testa ma nelle calcagna,
imaginandomi esser maggior il gusto in quell'istante e nell'effetto che seguirebbe, ch'io nol m'era figurato,
ed offerendomisi così agli occhi la quantità di robba che già io stava contemplando trasformata in denari,
senza fare altro discorso che quello a cui l'amore e l'importanza dell'interesse, che mi mettevano i grilli nella testa, davano luogo,
le dissi ch'io era felice e ben avventurato in avermi dato il cielo, quasi miracolo, una tal compagnia, perché fosse padrona della volontà mia e de' miei beni,
quali non eran così pochi che non valessero, con la collana ch'io portava al collo ed altri gioelletti ch'aveva in casa e con insieme alcuni arredi da soldato, de' quali voleva far soldi, più di duemila scudi,
e questi coi suoi duemilacinquecento era bastante quantità per ritirarne in un villaggio, luogo di mia nascita e dov'io aveva alcuni campi e tali che, vendendone i frutti a suo tempo e quegli aiutati con quest'altri denari, ci potrebbono dare una vita allegra e contenta.
In risoluzione, allora accordammo il nostro casamento e demmo ordine ch'avessimo le fedi od attestazioni del non essere maritato né l'un né l'altro.
E nelle tre feste di pasqua, ch'erano molto prossime, furono fatte le publicazioni;
ed il quarto giorno dapoi ci sposammo, trovandosi presenti al nostro sponsalizio due miei amici ed un giovine ch'ella disse essere suo cugino, al quale m'offerii con tutti quelli miglior uffizi da buon parente e con parole piene di cortesia, sì com'ancora l'erano state tutte quelle che sin allora io aveva date alla mia novella sposa, benché con sì contraria e traditora intenzione che la voglio tacere,
perché, quantunque io dica la verità, non è già verità di confessione che non si possa lasciar di dirla.
Portò il mio servitore da casa mia a quella della consorte il mio tamburo ed in presenza d'essa io aveva serrato in quello la magnifica mia collana, mostratole ancora tre o quattro, se non sì grandi ben meglio lavorate, ed altri tre o quattro cordoni di scintillo di differenti sorti.
Di più, tutti li miei vestiti e le mie piume io le fe' vedere; e diedele in mano per la spesa di casa quattrocento reali.
Per sei giorni godetti il pane delle nozze, spasseggiando per casa com'il cattivo genero in quella del suocero ricco.
Io caminava sopra preziosi tapeti, gualciva lenzuola di rensa, mi si porgeva innanzi 'l lume nei candelieri d'argento;
faceva collazion in letto, levavami alle sedici ore, a dicisette io pranzava ed alle venti dormiva, overo riposava nello strato per passar il gran caldo.
Il mio servitore, che insino allora io aveva conosciuto pigro, da niente e balordo, era diventato un daino.
Il tempo che la signora Stefana non mi stava allato, ella si ritrovava nella cucina a fare sguazzetti e saporetti da destarmi il gusto ed aguzzare l'appetito.
Le mie camiscie, i miei collari e fazzoletti eran un altro Aransciese di fiori, sì buon odor buttavano bagnati d'acqua d'angeli e nanfa che sopra si spruzzava.
E come gli anni che stanno sotto la giuridizione del tempo si passano volando, così passarono quei giorni, mentre i quali, perciò che mi vedeva esser accarezzato, regalato e ben servito, io andava mutando in buona la cattiva intenzione con che io aveva principiato quel negozio.
In capo d'essi giorni ed una mattina ch'ancor io era in letto con la signora Stefana, picchiarono con grandi e spessi colpi alla porta di strada;
affacciossi la fante alla finestra ed al momento levandosene, disse:
"Oh, sia v. s. la bentornata!
E come tanto presto e più di quello ch'aveva scritto l'altro giorno?"
"Chi è domandaile quella signora ch'è venuta?"
Chi? rispose lei È la signora Clementa Bueso, mia padrona, e vien con essa il signor don Lopez Melendaz d'Almendarez, con due servitori ed Hortigosa, la donna ch'ella menò seco".
"Corri presto ad aprirle in buonora disse la signora Stefana; e voi, caro consorte, per amor mio state saldo e non v'incresca per qual si sia cosa che mi si dica e nulla rispondiate".
"E che cosa risposile vi si potrà dir che v'offenda, massime in questa presenza mia?
Ditemi, che gente è questa, la cui venuta mi pare v'abbia alterata?"
"Non ho adesso tempo di rispondervi rispose la signora Stefana; ma solamente siate avvisato che tutto quello che vedrete qui fare è cosa finta e camina a certo fine che voi saprete poi".
E come io voleva replicarle non ebbi spazio, perch'entrò la signora Clementa Bueso vestita di raso verde stampato, con sopravi di molti passamani d'oro, capotto del medesimo e della medesima guarnizione che 'l vestito,
il capello con piume verdi, bianche ed incarnate col suo ricco scintillo d'oro e d'un velo molto sottile coperto il viso sin a mezzo.
Con lei entrò il signore don Lopez Melendez d'Almendarez, non men ricca e vistosamente vestito da campagna.
Madonna Ortigosa fu la prima a parlar dicendo:
"Giesù! Che cosa è questa? Occupato il letto della mia padrona la signora Clementa, ed anche da un uomo?
Veggo miracolo oggi in questa casa.
O sì che quest'è bella; affé, che donna Stefana, confidandosi nella bontà ed amicizia della mia padrona, si dà un grasso tempo".
"Così te n'assicuro, Hortigosa rispose la signora Clementa; ma tutta la colpa è mia, perché mai avvertisco bene ad eleggermi amiche, posciaché non lo sono, se non in quanto lor torna comodo".
"Signora rispose allora Stefana, vostra signoria non si dia fastidio, gliene prego, perché non è senza misterio ciò ch'ella vede in questa casa, il quale, quando l'averete inteso, so che non averò commess'errore e che non averete soggetto da lamentarvi".
Già in quel mentre io m'era vestito quasi tutto e, presomi per mano la signora Stefana, mi fece entrare in altra camera
e lì mi disse che quell'amica sua voleva fare una burla a quel signor Lope, ch'era con lei venuto e con chi ella pretendeva di maritarsi,
e che la burla era fargli creder che quella casa e quanto era dentro a lei apparteneva e fargliene voleva carta di dote
e che, fatto il maritaggio, non le importava di niente, o se non poco, che fosse scoperto l'inganno, perch'ella molto si confidava nel grand'amore ch'egli mostrava di averle.
"Fatto questo seguitò Stefanasubito mi ritornerà quello ch'è mio; e mai sarà biasmata, né altra donna, d'aver trovato modo di guadagnarsi un buon marito, ed onorato, ancorché per via d'inganno stato sia".
Io le risposi ch'era estrema cortesia quella che le voleva fare e che ben bene ci dovesse prima pensare, perché dapoi potrebbe essere che fosse di bisogno ricorrere dalla giustizia per riaversi la sua robba.
Ma mi disse tante ragioni, rappresentando tanti oblighi che l'astrignevano, così diceva, a far servizio a quella signora Clementa, anche in cose di maggior importanza, che, a mio malgrado e con grandissimo sospetto ch'io ne ebbi, non potei non piegarmi a ciò ch'ella da me voleva, e dopo ch'essa m'ebbe assicurato non dover quella burla durar più che per otto giorni, durante i quali avevamo da stare in casa d'altr'amica sua.
Ella ed io fornimmo di vestirci e subito, licenziatasi dalla signora Clementa e dal signor don Lopez, disse al mio servitore ch'egli pigliasse il mio tamburo e la seguitasse; ed anch'io la seguitai, senz'essermi licenziato da nessuno.
Fermossi Stefana in casa d'un'amica sua e, prima che v'entrassi, la stette per buon pezzo a parlare con quella,
in fin del quale venne fuor una fante e disse ch'io entrassi col mio servitore.
Fummo condotti ad una camera stretta molto, nella qual erano due letti tanto vicini l'un altro che parevan un solo, perché non v'era spazio tra loro che gli dividesse e le lenzuola d'ambedui stavano abbracciate baciandosi queste con quelle.
Insomma, quivi stemmo sei giorni ed in ciascuno d'essi non si passò ora nessuna che non avessimo da contrastare, rinfacciandole io la sciocchezza ch'aveva fatta in avere lasciata casa sua, ed insieme la robba, ancorché fosse stato a sua propria madre.
Et io in questo andava e veniva esaggerando di momento in momento,
tanto che la padrona di quella casa, un giorno che la signora Stefana disse che se ne giva a vedere dalla signora Clementa in che termine era il suo negozio, volle saper da me per qual cagione io con lei tanto da contender aveva e che fallo era il suo che tanto glielo rinfacciava, dicendole ch'era stata manifesta sciocchezza, anzi ch'amicizia perfetta.
Raccontaile il tutto
e, quando io le dissi che con la signora Stefana m'er'ammogliato e della dote che m'aveva portata e la semplicità di lei nell'avere lasciata la casa e la robba sua alla signora Clementa Bueso, benché fosse con sana intenzione di aiutarla, acciò che s'acquistasse un così buon marito, e di tal importanza, com'era il signor don Lopez, ella prese a farsi tanti segni di croce ed a dire tanti "Giesù, Giesù" e tante volte "o la pessima femina" che diventar mi fece tutto turbato
ed infine mi disse:
"Signor alfiere, non so s'io farò contra la mia coscienza in iscuoprirvi una cosa ch'anche la potrebbe carcare, se la tacessi.
Ma sia come piace a Dio e vada come vada; viva la verità e muoia la menzogna.
Egli è vero che la signora Clementa Bueso è la vera padrona di quella casa e della robba che in essa v'è stata mostrata per dote;
ed è tutto quanto bugia quel che v'ha detto la signora Stefana, perché non ha né casa, né beni alcuni, né altra vesta che quella ch'ha indosso.
E le ha dato tempo e modo di farvi quest'inganno l'esser andata la signora Clementa sin a Piacenza a visitarvi alcuni suoi parenti ed indi alla madonna di Guadalupe a far le sue divozioni di novena
e l'avere fra tanto lasciata in casa la signora Stefana, perché son grand'amiche, acciò n'avesse cura.
Il tutto ben considerato, la povera donna non è da biasimare, poich'ha saputo guadagnarsi per marito una persona di tal merito come l'è il signor alfiere".
Qui al suo ragionamento la diede fine ed io principio al disperarmi, il qual senz'altro mi sarebbe seguito, se un tantino l'angelo mio custode avesse trascurato il mio soccorso, ma egli mi guardò, dicendomi nel cuore ch'io mi ricordassi ch'era cristiano e che 'l maggior peccato degli uomini si è la disperazione, per esser ancor quello delli demoni.
Sì buona inspirazione mi confortò alquanto, però non tanto ch'io lasciassi di pigliare la spada e la cappa per andar dietro a cercar la signora Stefana, con pensiero di darle un esemplar gastigo.
Ma la fortuna, non so se pel mio peggio o pel mio meglio, volle che non trovassi la mia moglie, bench'io fatta avessi gran diligenza in cercarla.
Me n'andai alla chiesa di San Lorenzo, raccomandaimi alla madonna, mi posi a sedere sopr'uno scanno ed ivi dal fastidio grande mi venne tanto sonno che, se non m'avessero desto, io non ero per destarmi ancor un pezzo.
Così, ripieno d'increscevoli pensamenti ed il cuor angosciato, m'incaminai verso la casa della signora Clementa, ov'io la trovai con quel riposo ch'aver si può in casa propria, ma non ardii dirle cosa alcuna, perché il signore don Lopez era presente.
Tornai a casa della mia albergatrice, la qual mi disse avere raccontato alla signora Stefana com'io ben sapevo tutto l'ingannevol intrico suo e ch'essa le domandò che viso era stato il mio nel sentir quella nuova e che le avesse risposto che pieno di turbazione io l'aveva mostrato, ed era uscito di casa con maltalento e, come le pareva, con peggior intenzione se la trovassi. Finalmente ella mi disse che la signora Stefana s'aveva portato via tutto ciò ch'era nel mio tamburo, senza lasciarmi altro ch'un sol vestito da campagna.
Là fu il mio dolore e là Iddio con sua mano mi sostenne.
Andai a visitare il mio tamburo e lo trovai aperto, quasi sepolcro che aspetta un corpo morto, e di ragione così doveva esser il mio, s'io avessi avuto intendimento per sentire sì gran disgrazia e saperla ben ponderare.
Invero ella fu grande disse allora il dottore Peralta, l'avervi la signora Stefana portato via tante collane e tanti cordoni di scintillo e, come si suol dire, tutti i guai, etc.
Per questa perdita non mi do pena rispose l'alfiere, poiché anch'io posso dire:
"Pensossi don Simueco avermi uccellato con darmi la sua figliuola, ch'è storta, ed affé ch'io sono contrafatto da una banda".
Non so soggiunse il Peralta a che proposito vostra signoria questo dica.
Il proposito si è replicò il Campuzano che tutta quella massa ed apparato di collane, cordoni di scintillo e l'altre bagatelle poteva valer solamente da dieci o dodeci scudi.
Non è possibile tornò a dire il dottore, perché quella che voi portavate al collo mostrava di pesare più di dugento ducati.
Così sarebbe rispose il Campuzano, se fosse che la verità corrispondesse all'apparenza;
ma, come non è oro tutto quel che riluce, le collane, scintilli, gioielli e gioielletti si contentarono esser solo d'alchimia e contrafatti,
però tanto benfatti ch'altra prova che della pietra paragone, over il fuoco, non poteva scuoprire la loro falsitade.
In questo disse il dottore vostra signoria e la signora Stefana ve la sete accoccata l'un l'altro ed andate del pari.
Tanto del pari rispose il Campuzano che possiamo tornare a mescolar le carte. Ma sta il danno, signor licenziato, in che ella potrà disfarsi delle mie collane e non io di lei, perché infine, voglia o non voglia io, è mia moglie, che mi dispiace, e pegno datomi.
Ringraziate Dio, signor alfiere disse il Peralta, ch'è stato pegno coi piedi e che vi sia scampato ed ito via, e che non siate obligato d'ir a cercarlo.
Egli è vero soggionse il Campuzano;
però con tutto quello, senza ch'io lo ricerchi, sempre il trovo nell'imaginazion mia ed ovunque io vada o stia l'affronto fattomi ed il mio disonore mi stanno allato.
Non so che cosa rispondervi disse il Peralta, se non ridurvi alla memoria questi due versi del Petrarca:
Che chi prende diletto di far frode
non si de' lamentar s'altri l'inganna.
Che voglion dire nel nostro castigliano: "Che colui che si prende gusto d'ingannare lamentar non si deve s'egli vien ingannato".
Non mi lamento d'altro rispose il Campuzano se non che quello ch'ha fallato, per conoscer la sua colpa, non però lascia di sentire la pena del gastigo.
Ben m'accorgo che fui ferito con le proprie mie armi, cioè che, volend'io ingannare, sono stato ingannato;
ma non posso far stare così a segno il mio dolore che non mi dolga di me stesso.
Infine, per venire a ciò che più fa caso alla mia istoria, che questo nome si può dar al racconto de' miei successi, dico ch'io seppi qualmente la signora Stefana aveva appostatamente menato seco quel cugino che dissi esser intervenuto al nostro sponsalizio e che da lungo tempo egli era suo bertone ordinario.
Non la volli cercare per non trovar il male che mi stava lontano.
Mutai albergo e pochi giorni dopo anche mutai il pelo, perché le ciglia e sopraciglia cominciarono a spelarsi ed a lasciarmi li capegli a poco a poco, talch'io restai calvo innanzi tempo, con un'infirmità che chiamano lupicia e, per altro nome più chiaro, la pelarella.
Insomma mi trovai fatto spelone o spelato e meschino, perché capegli da pettinare io non gli aveva né denari da spendere.
Accrebbesi dalla necessità la malatia e, sì come la povertà scompiglia e calpesta l'onore ed alcuni conduce sulla forca, gli altri all'ospedale ed altri alle porte de' loro inimici con prieghi e sommessioni, ch'è la più misera di quelle maggiori miserie che possa già mai arrivare ad un disgraziato, per farmi medicare e per non vender e consumar i miei vestiti, perché dovevano cuoprirmi ed onorare in sanitade, venuto il tempo che si dan i sudori nell'ospedale della Risurrezione, entrai in quello, dove ho sudato quaranta volte.
Dicono che starò sano s'io mi guarderò;
ho buona spada; nel rimanente Iddio provederà.
Se gli offerì di nuovo il dottore, meravigliandosi delle cose che gli aveva racconte.
Di poco vostra signoria si meraviglia, signor Peralta disse il Campuzano, altro mi resta ancor da dire ch'eccede ogn'imaginazione e passa di là i termini della natura.
Non cercate di saperne più, vi basti che sono successi tali che non mi pesano le mie disgrazie, poiché mi fecero entrare in quell'ospedale, dov'ho veduto ciò ch'adesso vi dirò e che adesso né mai potrebbe credere né alcun'altra persona del mondo.
Tutti questi preambuli che l'alfiere faceva, innanzi che raccontare quello che veduto aveva, più accendevano il desiderio del Peralta in volerli sapere, di sorte che con non meno esagerazioni e con molta istanza pregollo ch'allor allora le raccontasse quelle sì strane meraviglie.
V. s. avrà veduti disse il Campuzano due cani che con ciascun una lanterna vanno di notte co' confratelli della sporta e del bisacco, facendo loro lume, quando van accattando limosina.
Gli ho veduti rispose il Peralta.
Et anche ha veduto o sentito dire seguitò l'alfiere quello che di quei cani si racconta, che, se si gitta giù per la finestra l'elemosina e quella casca in terra, eglino vanno prestamente coi suoi lumi a cercare quel ch'è caduto e fermansi davanti alle finestre dove soglion dar la carità. Et ancorché vadano lì con tanta mansuetudine ch'anzi che cani paion agnelli nell'ospedale sono leoni, guardandolo con gran cura e vigilanza.
E questo l'ho sentito dire disse il Peralta, però non devo né posso farmene meraviglia.
Ve la farete soggionse il Campuzano, per quel ch'adesso vi racconterò d'essi e, senza far segni di croce ed allegare difficoltadi né impossibili, s'accomodi a crederlo v. s.
Ora quest'è che quella notte innanzi l'ultima ch'io forniva di sudare, essendomi svegliato circa la mezzanotte e pensando alle mie disgrazie, sentii che sopra un stuora vecchia che stava in terra dietro al mio letto non so chi parlava,
per che stetti ad ascoltare attentamente, per veder s'io potessi conoscere quei che parlavano o di che cosa;
di lì a poco viddi ch'era Scipion e Berganza, i due cani che v'ho detto.
Appena il Campuzano finiva di dir questo quando che levandosi il dottore così gli disse:
Restate in buonora, signor alfiere; sin qui sono stato con dubbio se credere io dovessi o no quel che del vostro maritaggio m'avete raccontato;
ma ciò ch'adesso mi dite di quei cani mi dice assai ch'io non creda questo né quello.
Per vita vostra, signor alfiere, non raccontate queste pastocchie a nessuno, s'egli tanto amico non vi sia quanto son io.
Non m'abbia v. s. per tanto ignorante replicò il Campuzano ch'io non sappia che, se non per miracolo, le bestie non posson parlare,
e che, se i tordi, le gazze ed i papagalli parlano, non sono se non parole ch'apparano e se le tengono a mente, e perché questi animali hanno la lingua fatta per poter pronunziarle;
tuttavia per questo non possono parlare né rispondere con discorso accordato colla ragione, come parlaron questi cani.
Così, dapoi di quelle molte volte ch'io gli ebbi sentiti, sono stato in forse s'io dovessi credere a me stesso e quasi ho tenuto per cosa insognata quello che realmente, essend'io svegliato con tutti i cinque miei sentimenti tali quali Domenedio me gli volle donare, io sentii, ascoltai, notai e finalmente scrissi senza fallare d'una sola parola di quel loro ragionamento; da che si può cavar indizio assai bastante per muover e persuadere a dare credito alla verità ch'io dico.
Trattarono di cose grandi e differenti e da esser trattate anzi da uomini savi e gravi che dette per bocca di cani.
Talmente che, non avendo io potuto inventarle di mio capriccio, sono sforzato a credere che non le insognava e che parlavano quei cani.
Al corpo di me replicò il dottore, è ritornato il tempo di Maricastagna, quando parlavano le zucche, o quel d'Isopo, che 'l gallo e la volpe ragionavan insieme e tutte l'altre bestie l'una con l'altra.
Sarei una di quelle, e la maggior di tutte rispose il Campuzano, s'io credessi che fosse tornato quel tempo
e s'io non credessi quel ch'io udii e viddi e ch'ardirei affermare con giuramento tale che possa obligare l'istessa incredulità a crederlo.
Ma posto caso ch'io mi sia ingannato e che sia insogno la mia veritade, ed uno vaneggiare il voler mantenerla, avrà a tedio vostra signoria, signor Peralta, di vedere scritto in un colloquio ciò che quei cani, o chi si fossino, allora dissero?
Purché v. signoria replicò il dottore non si becchi più il cervello in volermi persuadere che sian cani che l'abbian detto, volentier udirò esso colloquio, il quale, per essere notato e scritto dal buon ingegno del signor Campuzano, ho già per molto buono.
Vi è di più seguitò 'l Campuzano, che come io stava ad ascoltarlo con tant'attenzione ed aveva il giudizio delicato e sottile e la memoria raffinata, mercé alle molte uve passe e mandorle ch'io mangiate aveva, l'imparai tutt'a mente ed il giorno seguente lo scrissi, quasi nelle stesse parole che l'ebbi udito e senza cercar colori retorici per adornarlo né aggiongervi o levare per farlo più gustoso.
Non solo una notte egli durò ma due conseguentemente, ancorch'io non abbia scritto altro che d'una, contenendo la vita di Berganza;
e quella del suo compagno Scipione, che fu racconta nella seconda notte, penso scriverla quando pur io vedessi questa esser creduta o per lo manco non isprezzata.
Il discorso lo porto qui nel seno e l'ho disteso in forma di colloquio per abbreviare "disse Scipione", "rispose Berganza", che questi sono termini ch'allungano d'assai una scrittura.
Questo dicendo, ei cavossi del seno uno scartafaccio e poselo in mano del dottore, il qual lo prese ridendosi e quasi non istimando ciò che n'aveva udito e quello che pensava leggerne.
Riposerommi disse l'alfiere in questa sedia, mentre che vostra signoria leggerà, se così le piace, quest'insogni o spropositi che non hanno altro di buono che 'l poterli lasciare quando attediano.
Faccia com'a lei piace disse il Peralta ed io prestamente spedirò questa lezione.
Posesi a sedere il Campuzano ed il dottore aprì lo scartafaccio e vidde che nel principio aveva questo titolo.