Il geloso estremegno (N)


IL GELOSO DA ESTREMADURA
Novella sesta

Argomento

Filippo Carrizale, gentiluomo da Estremadura, provincia di Spagna, si prende per moglie, nell'ultima sua vecchiaia, una donzella d'anni quatordici, chiamata Leonora. Egli fa fabricar un palazzo e vi serra la moglie, con tutti i famigli di casa, senza che nessuno di loro possa uscirne che non abbia da lui licenza. Un giovine per nome Loaisa operò tanto ch'egli guadagnò il portinaro e la governatrice, o maggiordoma, insieme colle cameriere, e dà una bevanda per il Carrizale, la quale un gran pezzo lo fa dormire. Svegliasi e, trovando la moglie che stava a giacere e dormendo in braccio del giovine, di gran cordoglio se ne muore; ella, che non aveva peccato che colla volontà sforzata, si fa solitaria in un monastero e Loaisa vinto da disperazione vassene all'Indie.

Non è gran tempo che fu un gentiluomo di un luoco d'Estremadura, il quale, come un altro prodigo, caminò per molte provinzie di Spagna, d'Italia e di Fiandra, consumando le sue sostanze e gli anni insieme. Dopo di molti viaggi, il padre e la madre di lui essendo morti ed il suo patrimonio quasi del tutto consumato, venne a fermarsi in Siviglia, ove trovò purtroppo occasione per finire quel poco di robba che gli avanzava. Quando egli si vidde poi senza denari ed anche con pochi amici, ricorse al rimedio a cui ricorrono parecchi simili falliti di quella terra, ed è di girsene all'Indie, refugio e ricetto dei desperati di Spagna, asilo de' falliti, salvocondotto de' micidiali, manto e coperta di quelli giuocatori che periti nell'arte o, per dir meglio, mariuoli sono chiamati, ladri publici e generali delle donne sviate, inganno comune di molti e rimedio particolar di pochi. Infine, venuto il tempo che una flotta si doveva partire per terraferma, accomodatosi con l'ammiraglio d'essa, fece le provigioni per lo suo passaggio e si apparecchiò la coltre di giunghi marini. Et imbarcandosi in Calis quella flotta e dicendo adio alla Spagna, levò le ancore e con universale allegrezza diedero le vele al vento ch'ebbero favorevole, di modo che in poche ore non viddero più terra e si scuoprirono agli occhi loro le ampie e spaziose campagne marine del grand'Oceano, padre di tutte l'acque. Il nostro passaggiere tutto pensoso stava, rivolgendo e ripensando per la memoria tanti pericoli ch'egli aveva passati in altri suoi viaggi ed il suo mal governo sin a quell'ora.

Così, dando conto a sé stesso delle passate sue azioni, faceva fermo proposito di mutar vita e stile nel conservar(1) meglio per l'avvenire il bene che piacerebbe a Dio dargli, procedendo con manco liberalità e con più di circospezione con le donne di quello che sin a quell'ora avesse fatto. Stava con bonaccia la flotta, quando che Filippo Carrizale, questo è il nome di colui che ha dato soggetto a questa novella, sentiva i suoi pensieri agitati da questa tormenta. Ma tornò a soffiar il vento ed a spingere con tanta forza i legni che non puoté nissuno star saldo ed in riposo nel suo luoco, a tal che fu sforzato il Carrizale lasciar le sue imaginazioni per lasciarsi portare solamente da quelle cure che il viaggio gli arrecava. Fu quel viaggio tanto felice che senza incorrere in nessun infortunio, e senza impedimento, arrivaron al porto di Cartagena.

Or per conchiuderla in poche parole e non distendersi in quelle che non fanno al proposito, dico che 'l Carrizale, quando se ne passò all'Indie, era di quarantaott'anni. Et in venti ch'egli vi stette seppe così ben fare colla sua industria e diligenza ch'esso diventò ricco di più di centocinquantamila scudi. Veggendosi comodo tanto, gli si svegliò quel naturale desiderio che sta in ciascheduno di ritornare alla patria, posponendo ogni interesse dei molti profitti che se gli offerivano. Così egli si partì dal Perù, ove aveva guadagnato tanti denari ch'ei ridusse in masse d'oro e d'ariento ed in registro per iscansargli da ogni inconveniente, e prese la volta di Spagna. Venne a sbarcare a San Lucar ed indi gionse a Siviglia tanto carco di anni quanto pien di ricchezze. Ivi riscosse le sue facoltà, cercò i suoi amici e trovò ch'eran morti tutti.

Per il che si risolse di ritirarsi nel luoco ov'era nato, ancorché avesse avute nuove che la morte gli aveva tolti tutti i parenti. E se, quando andava all'Indie, egli era combattuto da moltissimi pensieri che nol lasciavan riposare un sol momento in mezzo all'onde del mare, non era manco travagliato in terra da mille immaginazioni, benché per differente causa. E, s'ei allora non poteva dormire per esser povero, adesso non gli era dato di poter riposare per esser ricco, perciò che la ricchezza non è peso men grave a colui che non è usato a possederla, e non la sa spendere come bisogna, di quello sia la povertà a chi l'ha sempre per compagna. Cure e pensieri apporta l'oro posseduto, gl'istessi arreca il mancamento d'esso. Però, questi hanno il suo rimedio nel possedere mediocri ricchezze e, più si ha di queste, più crescon quelli. Considerava il Carrizale le sue masse d'oro non già da misero, perché nello spazio d'alcuni anni ch'era stato soldato aveva imparato ad esser liberale, ma più presto in che avesse da dover spenderle, rappresentandosi che di tenersele in casa gli era cosa infruttuosa ed un allettamento a' cupidi ed a' ladroni uno svegliatoio. Era morta in lui la voglia di ritornare al faticoso esercizio dell'arte mercantile, perché parevagli che rispetto agli anni ch'aveva gli avanzerebbon i denari nel passare la vita e quella voleva finire nella sua patria e darvi a guadagno quelli denari e girsene ad essa, com'abbiam detto, e là finire la sua vecchiaia con riposo e tranquillità d'animo, donando per amor di Dio quello ch'egli donar potrebbe, poiché al mondo aveva dato più che non gli doveva dare. Dall'altra parte considerava che la strettezza della sua villa era tale, e gl'abitanti d'essa tanto poveri, che l'andarvi a stare lui era esporsi quasi bersaglio a tutte quelle importunità che i poveri soglion dare ad uomo ricco che a loro stia vicino, e maggiormente quando che in quel luoco non vi è nissun altro da chi ricorrere per alle lor miserie rimediare.

Oltra di ciò desiderava avere qualcheduno a chi dovesse, doppo morto, lasciare i suoi beni e con questo disio si toccava il polso e gli pareva che avesse ancor assai forza da potere portar il peso del matrimonio. Però, venendogli questo pensiero, un sì fatto timore lo sopragionse che restava disfatto, sì come al vento si disface la nebbia, imperò che dalla sua natura era il più geloso uomo ch'avesse il mondo, anche senza essere maritato, poiché la sola immaginazione di voler esserlo già cominciava a dargli gelosia che tutto il turbava e sospetti che gli trastornavano in cervello, di modo che mutò sentenza e propose assolutamente di non tor moglie.

Stando in questa risoluzione ed irresoluzione che vita dovesse menare, volse la sorte ch'un giorno ch'egli passava per una strada, rivolgendo gli occhi ad un balcone, vi vidde una fanciulla di anni tredici o quatordici incirca, sì bella e graziosa che, senza potersi diffendere, s'arrese e sottopose la debolezza dei molti anni suoi ai pochi di Leonora, così era chiamata quella bella donzella. E subito, senza pensar ad altro, cominciò fra sé stesso un mondo di discorsi, con dire:

—Questa fanciulla è molto bella ed all'aspetto di questa casa per lo di fuori ella non deve esser ricca. È giovinetta. Suoi pochi anni potranno assicurare l'animo mio d'ogni sospetto. Averla voglio per mia mogliere. Terrolla rinchiusa e serrata; e la farò a mio modo, a tale che con questo non sarà d'altra condizione se non di quella che stampata le avrò io. Non sono così vecchio che debba perdere la speranza di avere figliuoli, quali saranno miei eredi. Ch'ella abbia o non abbia dote poco a me importa, poiché piacque al cielo darmi tanta comodità che per noi due potran(2) bastare. I ricchi cercar non debbono nei lor matrimoni altro che gusto, perché il gusto fa che si vive più lungo tempo ed i disgusti ch'entrano fra i maritati loro scortano la vita. Sia che sia, è tratto il dado. Quella è che il cielo vuole ch'io abbia.

Avendo fra sé stesso fatto questo discorso non una volta ma cento, in capo di alcuni giorni egli parlò col padre e con la madre di Leonora e seppe che, con tutto che fossero poveri, erano(3) nobilmente nati. Lor disse qual egli fosse, che facoltadi eran le sue e qual il suo intento, pregandoli che fossero contenti dargli per moglie la lor figliuola. Pigliaron tempo per informarsi di ciò ch'egli diceva ed in quel mentre anch'esso, dalla banda sua, potrebbe far il simile e farsi certo di quanto gl'avessero detto della nobiltà loro. Partironsi l'uno dall'altro, s'informaron le parti e trovaron esser così come avevan detto. Infine Leonora divenne sposa del Carrizale, avendola primieramente vantaggiata con farle carta di dote di ventimila ducati, tant'era l'animo del buon vecchietto acceso dell'amor di lei. Ma appena egli ebbe data la mano nell'impromettere ch'un squadrone di arrabbiate gelosie venne ad assaltarlo e ad ammartellargli la fantasia. Senz'apparente causa cominciò a tremare e ad essere più che mai fosse stato posseduto da sospetti. E la prima certezza ch'esso mostrò e diede del suo geloso umore fu quando ch'egli non volse che delle molte vesti ch'ei voleva far fare a sua sposa alcun sartore gliene pigliasse la misura. Perloché considerò e cercò fra molte donne una che fosse di vita come Leonora, poco più o poco manco. Doppo l'aver cercato molto, trovò una poveretta stracciosa ed alla misura di lei fece far una vesta per la sua sposa, trovò che le stava benissimo, per che sopra quella misura fece far l'altre vesti, che furon tante e sì ricche che i padri della sposa s'ebbero per felici in l'essersi incontrati in tale genero, per aiutarli nella loro necessità e per il bene della figliuola. Ella stupiva, veggendo tanta pompa di drappi e sfoggiamenti, però che mai in vita sua altro che una saia di rascia ed una vesticciuola d'ormesino non aveva portato. Il secondo segno della gelosia di Filippo fu questo, che non volle sposarsi sin tanto non avesse levata casa da per sé. Comperonne una per dodicimila ducati, in una contrada delle migliori della città. Ella era isolata dall'acque ed aveva il giardino con molti belli naranci. Egli serrò per sempre tutti li balconi che guardavano sulla strada ed a perpendicola linea prese luce dal cielo; e fece il simile di tutti gl'altri di quella casa. Accanto al portone della strada fece far una stalla per la sua mula e sopra d'essa un pagliaio ed un appartamento per stanza di colui che la dovesse governare. E fu costui un negro vecchio eunuco o diciamo castrato. Or il nostro geloso aveva fatto alzar i muri al pari delle loggie, o terrazzi, di sorte che colui che dal cortile voleva guardare il cielo bisognava che lo guardasse come per lo camino, senza che altra cosa veder potesse. Di più, fece fare un torno, o parlatoio, che dal portone della strada rispondeva al cortile. Comperò ricchi mobili per adornar la casa, di modo che chi avesse veduto le vaghe tapezzarie, tapeti, strati e baldacchini, avria giudicato essere quella casa un palazzo da gran signore. Comprò eziandio quattro schiave bianche, e le bollò in fronte, ed altre due negre moresche che non avevano ancor servito. Concertossi poi con un cuoco, acciò gli dovesse comprare e portar da mangiare tutto apparecchiato, però con condizione che non dormisse in casa e non v'entrasse più avanti del torno, ove dovrebbe consegnare quello che porterebbe. Fatte queste diligenze, diede la maggior parte delle sue facoltà a censo, alcune assicurò in istabili, alcune mise nel banco ed altre se le tenne appresso per ogni buon rispetto. Et ancor fece fare una chiave maestra che apriva tutte le porte di quella casa nella quale rinchiuse ogni cosa da farne a suo tempo provigione per tutto l'anno. Subito ch'egli ebbe fatti tutti questi preparativi, andossene a casa del suocero, lor domandò la moglie, con le dovute solennità furono sposati e la condusse a casa non senza lagrime de' parenti di lei, perché pareva loro ch'ella andasse alla sepoltura.

La tenera Leonora, che non conosceva ancora a che fosse venuta, lagrimando con i suoi padri, lor domandò la loro benedizione e, partendosi da quelli, avendo attorno le sue serve e schiave e condotta per mano del suo sposo, venne a casa di lui e nell'entrarvi egli fece a tutte un'essortazione, raccomandando loro strettamente di aver l'occhio in guardar Leonora e che non lasciassero in modo nessuno entrar anima vivente più oltre della prima porta, ancorché fusse il negro eunuco. Et a chi più espressamente raccomandò la guardia ed il buon trattamento di Leonora fu ad una matrona di molta prudenza e gravità e che come maggiordoma e sovraintendente comandasse per tutta la casa ed anco alle schiave ed altre due donzelle della medesima età di Leonora ch'ei aveva condotte, acciò che lei si trattenesse meglio con donzelle dei suoi anni. Promise loro che le tratterebbe e regalerebbe di modo che per quella chiusura non sentirebbono rincrescimento e ch'ogni giorno di festa potriano ire a messa, con patto però che fosse sì a buonora ch'appena l'alba ce le potesse vedere. Gli promisero le schiave e l'altre di fare quanto lor comandava volentierissimo. La novella sposa, stringendosi in ispalle ed abbassando il capo, disse ch'ella altra volontà non aveva che quella del suo sposo e signore e che voleva essergli sempre ubbidiente. Dati questi ordini, il buon Carrizale ritirossi nelle sue stanze e cominciò, come potette, a coglier e godere i frutti del matrimonio, i quali a Leonora, per non aver provati altri, non erano di gusto né di disgusto; e con quelli passava il tempo, e con la sua aia, donzelle e schiave, e quelle per passarlo meglio si dettero alla leccornia, a tal che pochi giorni passavano ch'elle non facessino mille cosuccie ove c'entra mele e zucchero, per farle saporite. Tutto quello che ci voleva l'avevano in abondanza, perché non mancava nel lor padrone la volontà di darlo, parendogli che così le trattenesse occupate, senza che potessin avere il tempo da pensare ed annoiarsi di quel loro riserramento. Leonora si portava da compagna con le sue serve e negl'istessi trattenimenti d'esse passava il tempo, sin a venire a questa semplicità di far poavole, o fantoccie di cenci, ed altre cose fanciulesche che mostravano la schietezza di lei e la tenerezza dei suoi anni, il che tutto molto piaceva al geloso marito, però che gli pareva ch'avesse incontrato a farle elezione della più accomodata sorte di vita che potesse imaginare e che per nessuna via l'industria né la malizia umana potrebbe perturbargli il riposo. Così metteva tutto il suo studio in portare regali alla sua sposa ed in ricordarle ch'ella gli domandasse quanti le verrebbono in pensiero, che di tutti saria compiaciuta.

Ne' giorni di festa ch'ella andava a messa, al barlume, com'abbiam detto, il suo padre e la sua madre parlavano con lei in chiesa ed in presenza del suo marito, il qual lor dava tanti presenti che quella sua liberalità mitigava assai il gran dolore ch'essi sentivano per la grande stretezza in che vedevano la lor figliuola. Levavasi la mattina e stava aspettando che venisse lo spenditore, il quale la notte innanzi era avvisato con un polizzino che si lasciava sul parlatoio di ciò che 'l dì vegnente egli dovesse portar apparecchiato. Or quando ei veniva il Carrizale se n'usciva di casa, il più delle volte a piede, avendo lasciate serrate le due porte, quella di strada e l'altra del di dentro; e tra di esse stava il negro. Andava per le sue facende, ch'erano poche, e ritornava presto; e riserrandosi con la sposa si tratteneva con essa lei in regalarla ed in passare familiarmente il tempo con le sue serve, le quali tutte gli volevan gran bene, perch'egli era di natura benigna e grata e sopra tutto liberalissimo con esse. In questo modo passarono un anno di noviziato e professando quella sorte di vita, con risoluzione di continovarla sin che vivessero, il che così sarebbe stato se il cauto nemico e perturbatore del genere umano non glielor(4) avesse disturbato, come intenderete.

Or mi risponda adesso il più savio ed avvisato di tutti i mortali: che altra cosa il buon Filippo avesse potuto inventare e che miglior ordine per la sua sicurtà, poiché neanco volle mai permettere che nessun animale che fosse maschio gl'entrasse in casa? I sorici di quella giammai da gatto vi furono perseguitati, men vi fu mai sentito l'abbaiare de' cani. Tutto vi era del genere feminino. Di giorno egli pensava; di notte non dormiva. Era la ronda e la sentinella di casa sua e l'Argo sopra di ciò che più egli amava.

Dalla porta sin al cortile mai v'entrò uomo. In sulla strada negoziava co' suoi amici. Le figure rappresentate nelle tapezzarie ch'adornavano le sue sale e camere erano femine, viole, rose, ed altre di questo genere, ed ogni sorte di verzura. Tutta la sua casa non sentiva che onestà, ritiratezza e modestia, eziandio sin alle favole che nelle veglie delle lunghe notti d'inverno le serve raccontavano sotto 'l camino, per starvi lui presente, niente vi si scorgeva ch'avesse del lascivo.

L'argento dei capegli bianchi del Carrizale pareva agli occhi di Leonora che fosse oro puro, perché 'l primo amore delle donzelle s'impronta negl'animi loro come il sugello nella cera molle.

La stretta guardia che se le faceva addosso parevale una prudente avvertenza.

Ella pensava e si credeva che tutte le nuovamente maritate menassino vita simile alla sua.

Non s'arrischiavano i suoi pensieri di spuntar fuora le muraglie di casa sua; né la volontà di lei altra non era che quella del marito. Mai vedeva le strade, se non nei giorni ch'andava a messa, ed era questo tanto per tempo la mattina che ancora non era luce per vederle, se non quando tornava dalla chiesa.

Mai si vidde monasterio più serrato, mai monache più rinchiuse, mai pomi d'oro così ben guardati. Con tutto questo, non potette in modo nessuno prevenire né fare che non cascasse in quello che temeva o, per lo manco, che non credesse di esservi cascato.

In Siviglia è una spezie di gente oziosa e spensierata: si chiama volgarmente la gente della contrada. Sono figliuoli dei più ricchi cittadini; vestono atillatamente e pomposamente ed a vicenda si banchettano l'un l'altro. Vi saria pur assai da dire circa i loro portamenti, il suo modo di vivere, la lor condizione ed intorno alle leggi, od usanze, ch'essi guardano; ma per buon rispetto non ne diremo più oltre.

Or uno di questi zerbinotti, che fra di loro si chiamano scapoli o non maritati che dir gli vogliamo, s'incontrò mirare e considerare la casa del solitario Carrizale e, veggendola perpetuamente serrata, gli venne una fervente voglia di sapere chi stava dentro. Per il che usò sì fatta diligenza che infine egli contentò la sua curiosità e seppe quello ch'ei cercava. Fu informato della condizione e dell'umore del vecchiarello, della bellezza della sua sposa e del modo ch'egli osservava in custodirla. Tutto questo gl'accese nell'animo un ardentissimo desiderio di tentare se fosse possibil espugnare o con arte o con forza quella rocca guardata con tanta vigilanza. Comunicò il suo pensiero a due altri scapoli e ad uno novizzo, o recentemente maritato, suoi amici; a tal che risolsero di sforzare la fortezza, che per imprese tali mai manca chi dia consiglio ed anche porga aiuto. E, dopo aver ben pensato sopra le difficoltà del negozio e ventilato il modo che s'avesse da seguire per superarle, presero questo partito.

Loaisa, così si chiamava uno di quelle buone limosine di scapoli, fingendo di andar in villa, s'assentò per alcuni giorni dagli occhi dei suoi amici. Misesi poi delli calzoni di tela ed una camiscia netti e per di sopra un vestito sì lacerato e rappezzato che non era nessun briccone in tutta la città che lo portasse così disgraziato. Un pochettin di barba ch'egli aveva si fece radere, si mise sopra un occhio un impiastro, fasciossi una gamba strettamente e, caminando sostenuto da due gruccie, trasmutossi in un povero stropiato sì furbamente che uno stroppiato da dovero non lo poteva pareggiare. In questa statura e positura ei non mancava di venir ogni sera tardi a dir delle orazioni alla porta di Carrizale. Era di già serrata e tra quella e la seconda stava il negro, il cui nome era Luigi. Ivi postosi Loaisa, cavò fuora una chitarretta alquanto unta e sudice, e che non aveva tutte le corde, e poi, come quello che s'intendeva un poco di musica, cominciava a suonare alcune suonate allegre e gustose, accompagnate col cantare, però mutando la naturale sua voce, acciò non fosse conosciuto. Con questo andava di galoppo in cantare romanzi o canzoni moresche alla buffona, con tanta grazia che tutti coloro che per quella strada passavano fermavansi ad ascoltarlo e, mentre cantava, gli stava attorno un cerchio di ragazzi. Et il medesimo Luigi il negro accostando l'orecchio alle fissure della porta stava sospeso alla musica del furbaccio ed averebbe volontieri dato un braccio a chi non gl'avesse aperta la porta, affine d'ascoltare più comodamente quella musica, tanto sono i negri naturalmente desiderosi d'essere musici e suonatori d'istromenti. E quando che Loaisa voleva che quelli che l'ascoltavano andassin via egli lasciava il cantare, riponeva la sua chitarretta ed appoggiandosi e sostentando sopra le sue gruccie d'indi si partiva. Per quattro o cinque volte aveva già data la serenata al negro, che a lui solo la dava, perché pensava, e non gli venne fallato il pensiero, che per demolire a poco a poco quell'edifizio bisognava cominciare dal negro; per il che una notte, ritornato, come soleva, alla porta, prese ad accordare la sua chitarretta e sentì che 'l negro stava già attento, perloché, appressandosi ad un pertugio o fessura d'essa porta, con voce bassa disse:

—Sarà possibile, Luigi, darmi un poco d'acqua, perché io mi spelo di sete e non posso più cantare?

—No(5) —rispose il negro—, perché non ho la chiave di questa porta né vi è pertugio tanto largo per dove io vi possa dar acqua.

—Chi tien la chiave? —domandò Loaisa.

—Mio padrone —rispose il negro—, il quale è il più geloso uomo del mondo. S'egli sapesse ch'io stessi adesso qui a parlar con qualcuno, guai a me, m'ammazzarebbe. Ma chi sete voi che mi domandate dell'acqua?

—Io —rispose Loaisa— son un povero storpiato d'una gamba che mi guadagno la vita domandando la limosina per amor di Dio alla buona gente; e con questo insegno a suonare d'istromenti ad alcuni negri e ad altri poveri; e medesimamente ho già insegnato a tre negri schiavi, di ventiquattro ch'apparano da me, i quali possono cantar e suonare in qualsivoglia festino ed in qualsivoglia taverna. Et essi mi hanno molto bene ricompensato.

—Assai meglio io vi pagherei —disse Luigi— s'io potessi pigliare delle vostre lezioni ma non è possibile, a causa che 'l mio padrone, uscendo la mattina di casa, serra con chiave la porta della strada e, doppo ritornato, fa l'istesso, lasciandomi serrato tra le due porte.

—A fede mia, Luigi —replicò Loaisa che già sapeva il nome del negro—, se voi trovaste modo od invenzione ch'io entrassi là dentro alcune notti a darvi lezione, in manco di quindici giorni vi farei sì valent'uomo nella chitarra che francamente e con onor vostro ne potreste suonare per qualsivoglia cantonata. E dovete sapere che ho pur assai grazia nell'insegnare e metodo facilissimo. E tanto più sarebbe facile che voi imparaste bene, che ho sentito dire ch'avete buon ingegno. E per quanto posso giudicare da quel ch'io sento per l'organo della voce, ch'avete molto suonora e dolce, e dovete cantar bene.

—Non canto male —rispose il negro—; ma questo non mi giova nulla, poiché non so suonata alcuna, da quella della Stella di Venere in poi, e quella Per un verde prato e quella che s'usa addesso che dice Per una inferriata presa la turbata mia mano.

—Tutte quelle canzoni sono da niente —disse Loaisa— in comparazione d'altre ch'io potria insegnarvi, perciò che so tutte quelle del moro Abindarraez e della sua dama Scaiarifa, e tutte quelle che si cantano del gran sofi Tomumbeio ed insieme la zarabanda, sì divinamente composte che per l'orecchie rapiscon l'animo agl'istessi portoghesi. Or io insegno tutto questo con tanta destrezza e facilità che, quantunque non v'affrettiate e senza lambicarvi il cervello nell'imparare, appena averete mangiate tre o quattro moggia di sale che vi vedrete musico a tutta prova, in ogni genere di chitarra.

A questo sospirò il negro e disse:

—A che giova tutto ciò, posciaché non so come io possa introdurvi in casa?

—Buon rimedio —rispose Loaisa—. Procurate di pigliar destramente le chiavi al vostro padrone e vi darò un pezzo di cera, nella quale le impronterete di maniera che rimanghino benissimo segnate in quella. E per la buona affezione che vi tengo farò sì che un chiavaro amico mio le faccia e così potrò entrar di notte là dentro ed insegnarvi a suonare meglio che il Prete Gianni dell'Indie; e certo veggo ch'è gran peccato che una voce così buona com'è la vostra si perda, per mancamento d'accompagnarla col suon della chitarra. E voglio che sappiate, caro fratel Luigi, che la miglior voce del mondo perde assai del suo valore quando non viene aiutata con l'istromento, o sia di chitarra o clavicembalo, d'organo o di arpicordio. Ma quello che, per mio parere, si confaccia meglio con la vostra voce è la chitarra; e poi, egl'è il più portiale d'ogn'altro istromento ed anche di manco spesa.

—Tutto ciò mi pare che staria bene —replicò Luigi— ma non puol essere, però che mai le chiavi vengono in man mia né mai si partono da quella del mio padrone; di giorno e di notte stanno sotto il suo capezzale.

—Farete dunque un'altra cosa, Luigi —disse Loaisa—, se volete diventare musico consumato ed isquisito suonatore; ma se non avete voglia non occorre ch'io mi stracchi il cervello in darvi consiglio.

—Come, se non ne ho voglia? —tornò a replicare Luigi— N'ho tanta che nessuna cosa possibile trascurerò per diventare musico.

—Se così è —disse il furbo Loaisa—, vi porgerò tra porta e muro, pur che m'aiutate da banda vostra scalcinando un poco del calcinaccio e qualche pietra della muraglia, delle tennaglie ed un martello con che potrete sconficcar di notte li chiodi della serratura con molta facilità e con la medesima torneremo ad inchiodarla, di modo che non si potrà conoscere che sia stata schiodata. Poi quando sarò là entro serrato con voi nel vostro pagliaio, overo dove voi dormite, userò tanta diligenza in fare ciò che pretendo che voi stesso vederete assai più di quel ch'ho detto, con util mio ed augumento della vostra capacità. Per conto poi del mangiare, non ve ne date pensiero, perché io portarò provisione per noi due e per più di otto giorni. Ho discepoli ed amici che non mi mancheranno al bisogno.

—Per questo —replicò il negro— non vi date travaglio, che la parte che me dà il mio padrone e gl'avanzi che mi vengono dati dalle schiave basterebbono per ancora due altre persone. Venga solamente quel martello e quella tenaglia che dite, ch'io farò qui presto a questo ganghero un buso per dove possano passare e poi tornerò a cuoprirlo e turare con la creta o calcinaccio. E con tutto che io dia alcuni colpi nel levare la serratura, il mio padrone dorme di qui tanto lontano che sarebbe miracolo o gran disgrazia se gli sentisse.

—Faccia la buona ventura —disse Loaisa— che di qui a due giorni, Luigi, voi averete tutto ciò che bisogna per condurre a capo nostro virtuoso disegno. Fra tanto avvertite a non mangiare cose flemmatiche, però che non son buone per la voce, che la guastano affatto.

—Non è cosa che me la faccia diventar tanto rauca —rispose il negro— quanto il vino ma per questo non voglio lasciarlo, per quanto voci ha la terra.

—Questo non dico io —soggionse Loaisa— e tolgalo Iddio; bevete, caro Luigi, bevete pure, che buon pro vi faccia, perché il vino che si beve moderatamente e con misura mai fece danno alcuno.

—Così lo bevo con misura —disse il negro—, perché ho qui un boccale che ne tien dui degl'ordinari. Le schiave me lo portano pieno, senza che 'l padrone lo sappia, e lo spenditore me ne dà di nascosto un fiasco, che tiene giustamente due boccali, e questi supliscono per l'altro.

—Dico —disse Loaisa— che quello mi va bene per la fantasia, perché la gola asciuta non grugne né canta.

—Andate con Dio —disse il negro— ma per vita vostra non mancate di venir ogni notte, mentre indugerete a portar qua quello ch'avete di bisogno per entrare qui dentro. Già mi pizzicano le dita per la gran voglia di vederle poste sopra la chitarra.

—Ch'io non manchi di venire! —replicò Loaisa— Verrò senz'altro ed anche con nuove canzonette e suonate.

—Oh! Questo bramo —disse Luigi— ed ancora vi prego non vi partire senza cantarmi qualche cosa, acciò io vada a dormire con più gusto. In quanto poi del pagamento, sappiate, signore stropiato, che meglio da me che da un ricco sarete sodisfatto.

—Non pongo mente in questo —disse Loaisa—, voi mi pagherete secondo ch'io v'insegnerò. Per adesso state a sentire questa suonata. Quando sarò là dentro voi sentirete meraviglie, vedrete miracoli.

—Sia in buonora —rispose il negro.

Finito questo lungo parlare, Loaisa cantò una canzona di sotil invenzione, con che restò il negro sì contento e sodisfatto che gli pareva che mai quell'ora di aprire la porta fosse per arrivare.

Appena Loaisa quindi s'era partito che con più prestezza che non permettevano le sue crocciole corse ad avvisare i suoi compagni e consiglieri del buon principio, augurio del buon fine ch'indi sperava. Trovatili, lor diede conto di quanto tra lui ed il negro passato era; e l'altro giorno ebbero i lor ordigni ed eran tali che rompevano i chiodi così facilmente come se di legno fossero stati. Poi non mancò il furbo citaredo di ritornare alla porta a dar la serenata al negro e lo trovò appresso il buso ch'esso aveva fatto, largo quanto vi potesse passare tutto ciò che 'l suo maestro gli porgesse, ed era coperto di modo che, a non essere guardato con occhio attento e sospettoso, possibile non era che fosse conosciuto. La seguente notte Loaisa gli diede gli ordigni co' quali il negro, mettendosi a provar le sue forze, senza troppo sforzarle, ruppe i chiodi e gli restò in mano la serratura. Allora ei aprì(6) la porta ed accolse dentro il suo Orfeo e maestro. Ma quando lo vidde con le crocciole, sì straccioso ed anco con una gamba tutta infasciata, stette sospeso ed oltramodo meravigliato. Più non aveva Loaisa l'impiastro sopra l'occhio, perché allora non era di bisogno. Entrando nella porta, egli abbracciò il suo caro discepolo e baciollo; e nell'istante gli pose in mano un botaccio di vino ed una scatola di confezioni, con altre cose dolci ch'egli portava in un bisacco molto bene provisto. E lasciando le gruccie come quello che nessun mal aveva cominciò a spiccare capriole, di che ancora più che mai stupì il negro; ma Loaisa gli disse:

—Sappiate, caro fratello Luigi, ch'io non sono stropiato né zoppo di natura o da infirmità, se non a posta e da industria, con la quale io mi procaccio il vito, domandando per amor di Dio, ed aiutandomi con quella e colla mia musica ed istromento passo la più felice vita di questo mondo, nel quale tutti coloro che non saranno industriosi ed imbrogliatori vi moriranno da fame; e questo il vederete nel corso della nostra amicizia.

—Ella lo dirà —rispose il negro—; ma fra tanto diamo ordine che questa serratura sia tornata al suo luogo, di modo che non si conosca alterazione.

—In buonora —disse Loaisa.

E cavando chiodi dalla sua bisaccia rassettarono la serratura in quella medesima positura ch'ella stava di prima.

Contentossene assai Luigi e Loaisa, salendo al pagliaio ove stanziava il negro, vi si accomodò il meglio che potette. Subito Luigi accese un candelotto(7) e Loaisa immantinente prese la sua chitarra e cominciò a suonarla pian piano e con tanta soavità che ne stava sospeso il povero negro e come fuor di sé nell'ascoltarla. Avendo Loaisa alquanto suonato, ei cavò da ricapo dal suo bisacco delli confetti da fare collazione e ne diede al suo discepolo, il quale nonostante la lor dolcezza bevette con tanto gusto nel botaccio che quella del licore lo trasportò fuora di sé più che non fece il suono dell'istromento. Fatto questo volle che(8) Luigi pigliasse la sua lezione; ma il povero negro, ch'aveva quattro dita di vino a buona misura nella zucca, non sapeva trovar i tasti e suonar non poteva. Ciò nondimeno, Loaisa gli dava ad intendere che già egli sapeva due canzoni o suonate, di modo che tutta quella notte altro non fece se non suonare con la chitarra scordata e che non aveva tutte le sue corde. Dormirono quel poco che della notte lor avanzava e circa le undici ore venne da basso il Carrizale ed aprì la porta di mezo e quella della strada stando ad aspettare che venisse lo spenditore, il quale d'indi a poco venne e, porgendo per lo torno la vettovaglia ed avendo chiamato il negro che venisse giuso a pigliare la sua parte e la biada per mula, se ne ritornò via. Quando che l'ebbe pigliata il vecchio Carrizale se n'andò per fatti suoi ed aveva serrate le due porte, senza punto accorgersi di quello che s'era fatto in quella della strada; di che non poco si rallegrarono maestro e discepolo. Appena era il padrone uscito di casa che 'l negro dette di piglio alla chitarra e cominciò a suonarla sì fortemente ch'ei fu sentito dalle serve, le quali per il parlatoio gli domandarono:

—Che cosa è questa, Luigi? Da quando hai tu la chitarra? Chi(9) te l'ha data?

—Chi me l'ha data —rispose Luigi— è stato il miglior suonatore del mondo e quello che in manco di sei giorni m'ha da insegnare più di seimila canzoni.

—Dov'è questo suonatore? —seguitò la donna.

—Non è molto lontano —rispose colui— e, se non fosse ch'io temo il nostro padrone, potria essere che vel farei veder or ora; ed affé che vi sarebbe di gusto il vederlo.

—Ma come lo potremmo vedere —replicò lei—, se in questa casa mai nessun altro che 'l nostro padrone è entrato?

—Basta, non voglio dir più —soggiunse il negro— sin tanto che non vediate quello ch'io so e ch'egli, nel poco tempo che v'ho detto, m'ha insegnato.

—Così Dio m'aiuti —disse la donna—, se colui che t'insegna non è qualche demonio incarnato, perché è impossibile che un uomo possa, in sì poco di tempo, farti esperto nel suonar d'istromento.

—Andate andate —replicò il negro—, lo vederete e sentirete qualche giorno.

—Questo non potrà essere —disse una delle serve—, però che non abbiamo finestre sopra la strada, per poter vedere o sentir alcuno.

—Sta bene —rispose Luigi— ma a tutto, dalla morte in poi, v'è rimedio. Se voialtre sapeste o voleste tacere, vedereste s'io dica il vero.

—Che dici tu tacere, caro fratello! —disse una delle schiave— Taceremo via più che se fossimo nate mute, perché io mi muoro dalla gran voglia ch'ho di sentire una buona voce. E da che stiamo qui riserrate tra quattro muraglie neanche il canto delli passeri, non che degli uomini, abbiamo sentito.

Stava Loaisa ascoltando con grandissimo gusto tutti questi ragionamenti, parendogli che tendevano a fargli conseguire il bramato suo intento, a che la sorte amica si fosse pigliato l'assonto di condurlo conforme la volontà di lui.

Levaronsi via di lì le serve, il negro promettendo loro che quando meno vi pensassero le chiamerebbe a sentir una buona voce. Ora, egli non volse star più a ragionare con esse, temendo che il padrone ce lo trovasse, e così si ritirò nella stanza sua. Arebbe voluto pigliar lezione ma non ardiva suonar di giorno, acciò non lo sentisse il suo signore, il quale d'indi a poco gionse ed avendo, secondo l'usanza sua, serrate le porte si ridusse in casa. In quell'istesso giorno una delle schiave, anche lei negra, dando al negro da mangiar per lo torno, o parlatorio, egli le disse che quella notte, dopo d'adormentato il padrone, ella e le sue compagne potessero venire nel medesimo luoco, ov'elle sentirebbono, senz'altro, quell'isquisita voce che lor aveva detto. Egli è vero che, innanzi ch'ei lor promettesse questo, aveva pregato istantemente il suo maestro fosse contento di cantar e suonare al parlatorio quella notte, acciò potesse compire la promessa ch'aveva fatta alle serve di far loro sentire una voce delle migliori, accompagnata con un mirabil suono di chitarra, assicurandolo che da quelle saria molto benvisto. Fecesi alquanto pregare il maestro di ciò che più del suo discepolo egli desiderava, ma che per compiacerlo farebbe tutto quello che gli domandava solamente per dargli gusto, senza interesse alcuno. Abbracciollo il negro e lo baciò nella guancia per segno del contento grande che recato gli avea il promesso favore. E quel giorno dette da mangiare a Loaisa e lo trattò e regalò così bene come se avesse mangiato in casa sua, e forse meglio, perché poteva essere che in quella non vi fosse cosa più fredda del focolare della cucina. In questo mentre si fece notte e, fatta mezza od incirca, si cominciò a zizitare al torno e subito Luigi intese che la brigata feminina vi era gionta. Avvisonne il suo maestro ed amendui scesero dal pagliaro colla chitarra molto ben incordata ed accordata. Domandò Luigi alle serve quali e quante erano quelle che stavano ad ascoltare. Gli risposero che tutte, dalla lor signora in fuori, v'eran venute e ch'ella stava in letto dormendo col marito. Questo dispiacque in gran maniera a Loaisa, però non si rimosse dal dar principio al suo disegno e contentare il suo discepolo. Cominciò dunque a suonare pian piano la chitarra e con tanta dolcezza che restò rapito il negro e sospesa da meraviglia la brigata donnesca che l'ascoltava. Ma che dirò io di quello ch'esse sentirono quando gli udirono cantare e suonare la sua passione innamorata ed in fine di quella la zarabanda di suono indemoniato, allora nuova in Ispagna? Ivi non era vecchia né giovane che non si scongiontasse l'ossa a forza di ballare, però tutto alla sorda e con silenzio meraviglioso, avendo poste le sentinelle e spie per avvertire, caso ch'el vecchio si svegliasse. Cantò ancora Loaisa alcune stanze con che finì di riempire di stupore l'orecchie delle ascoltanti, le quali con molt'istanza pregarono il negro che lor dicesse chi era quello sì meraviglioso musico. Egli lor disse ch'era un povero mendico, il più galante gentiluomo che fosse in tutta la mendica povertà di Siviglia. Pregaronlo che egli facesse in modo ch'elle potessero vederlo. E lo scongiurarono per vita sua che nol lasciasse partir di casa di quindici giorni, promettendo che da loro sarebbe regalato e molto ben trattato. Gli domandarono che mezo avesse adoperato per introdurlo in casa. A questo tacque il negro senza rispondere parola; in quanto al resto poi, lor disse ch'elle per vederlo facessino un buso picciolo nel torno, il quale dipoi turarebbono con cera. E circa il ritenerlo in casa ch'egli questo procurerebbe. Et anco Loaisa parlò con quelle, offerendosi al servizio loro con tante e sì buone parole ch'elleno compresero facilmente ch'esse non nascevano da ingegno mendico. Lo pregarono che volesse l'altra notte seguente ritornare al medesimo luogo e che operarebbono sì con la loro padrona che anche lei verrebbe ad ascoltarlo, nonostante e malgrado il leve ed interrotto sonno del suo sposo, la qual interrozione di sonno non procedeva dalli molti anni di lui, ma sì bene dalla sua gran gelosia.

Rispose Loaisa che, se volessero aver gusto in sentirlo senza sospetto né tema del vecchio, lor darebbe una certa polvere, la quale mettendogliela nel vino ch'avesse da bere era di tanta virtù che 'l farebbe dormire più dell'ordinario.

—Ohimè Dio —disse una delle serve—, se questo fosse vero, che buona ventura saria entrata in questa casa, insensibilmente e senza che l'avessimo meritata. Non sarebbe per nostro vecchio polvere da far dormire, anzi polvere di vita per tutte noialtre e per la povera signora Leonora sua moglie, ch'egli non lascia mai che 'l sole o la luna la vegga, neanche la perde di vista un sol momento. Deh, caro signore, portate quella polvere, che così Iddio vi dia quanto bene desiderate. Andate in buonora e non tardate a ritornare(10) ma sopra tutto non scordate la polvere. Io m'offero a mescolarla con il vino e servirlo di coppiera. Volesse Iddio che 'l vecchio dormisse tre dì e tre notti, che altretanti a noi sarebbono una gloria.

—Senz'altro ve la porterò —disse Loaisa— ed è tale quella polvere che non fa mal né danno a chi la piglia, se non di fargli venir sonno e dormire a sodo.

Tutte insieme lo ripregarono che gliela lor portasse quanto prima. Fra tanto risolsero di dover l'altra notte far un buso nel torno con un trivello e che farebbono di modo che la loro padrona vi venisse a vederlo ed ascoltare. Sopra di questo si licenziarono dal negro; ed egli, benché spuntasse quasi l'alba, volse pigliar lezione e Loaisa gliela diede, dandogli ad intendere che di tutti gl'altri suoi discepoli non era alcuno ch'avesse miglior orecchio del suo; e tuttavia il povero negro non sapeva né mai seppe far un accordo.

In questo mentre non mancavano gl'amici di Loaisa a venire di notte ad ascoltare alla porta della strada ed a saper da lui se avesse bisogno di qualche cosa. E facendo un certo segno, concertato tra di loro, conobbe Loaisa ch'essi eran alla porta e per un buso di quella disse loro(11) succintamente del buon termine in che si ritrovava il suo negozio, supplicandoli caldamente che trovassero qualche cosa che provocasse il sonno, per darla al Carrizale. Lor disse com'altre volte aveva sentito dire d'una certa polvere propria a quell'effetto; disserogli li suoi compagni che avevano un medico amico loro che lor darebbe il migliore rimedio ch'egli sapesse, se qualcheduno ve ne fosse di buono. Intanto gli fecero animo, acciò che proseguisse innanzi la cominciata sua impresa, promettendo loro di ritornare l'altra notte, con tutto quello che fosse necessario, e così prestamente quindi si partirono.

Venne la notte e la banda delle colombe si ridusse al richiamo della chitarra al luoco apostato. Ancor vi venne con esse la semplice e poco cauta Leonora, tutta timida e tremante, perché temeva che 'l suo marito si svegliasse. Et ancorché vinta da questa temenza non volesse venirci tante cose le dissero le sue serve, e spezialmente la maggiordoma, della suavità della musica e della gagliarda disposizione del povero musico, e senza averlo veduto il lodava ed innalzava di bellezza sopra di Narciso e di cantar e suonare sopra d'Orfeo, di modo che la povera signora, vinta dalle persuasioni di quelle, ebbe a fare ciò che non aveva né mai avesse avuto in animo.

La prima cosa che fecero fu di fare un buco al torno per vedere il musico, il quale non era più vestito da povero. Egli aveva i calzoni di zendado lionato, lunghi e larghi alla marineresca, il giubbone del medesimo, con sopravi le trine d'oro ed una montiera di raso dell'istesso colore, il collaro fatto a lavoro co' suoi merletti ed inamidato. Così era venuto col bisacco provisto di tutto ciò che gli era necessario, perché aveva ben pensato, ed antiveduto, ch'egli si troverebbe in occasione nella quale converrebbe ch'ei si mutasse il vestito.

Egli era giovine, di bella vita e di buon garbo ed aspetto. Et a tutte quelle femine, che da molto tempo non aveano veduto altro uomo che il loro vecchio, mirando questo giovine pareva che vedessero una meraviglia dell'altro mondo.

Ora questa metteva l'occhio al buco per vederlo, ora quella subito faceva lo stesso e così tutte a vicenda. E perché lo potessino vedere meglio gli andava il negro attorno attorno con la lume(12) in mano.

Quando che tutte, sin alle schiave guattere, l'ebbero ben guardato, prese Loaisa la sua chitarra e cominciò a suonarla sì soavemente ch'egli le rapì affatto, così la vecchia come le giovini. Or tutte pregarono il negro ch'egli trovasse qualche invenzione e desse ordine acciò il signor suo maestro entrasse dentro, per poter meglio udirlo et vedere più dappresso, e non per la bussola e per lo buco, e senza tema che il loro signore, essendo sì discoste da lui, le cogliesse all'improviso ed in flagrante col furto in mano, il che non succederebbe così se 'l tenessero ascoso dentro.

A questo non volle acconsentire la padrona, allegando molte buone ragioni e dicendo che non si dovesse fare una tal cosa né permettere l'entrata al suonatore, perché se ne potrebbono poi pentire. Però si dovessero contentare di vederlo di lì ed udirlo a man salva e senza pericolo dell'onore.

—Che onore? —replicò la maggiordoma— Il re ne ha d'avanzo per tutti. Per mio consiglio state riserata(13) col vostro Nestore e lasciateci almanco passar il tempo come potremo. Questo signore ne pare tant'onorato ch'egli non ci domanderà mai se non quel che vorremo noi.

—Io, signore mie —disse allora Loaisa—, non venni qua per altro che per servire le signorie vostre con tutto 'l cuore, condolendomi di questa vostra stretta ed inaudita chiusura e delle occasioni e del tempo che in questo riserrato genere di vita si perdono. Per vita del padre che m'ha ingenerato, io son uomo sì sincero, sì mansueto e sì ubbidiente che non farò mai più di quello che da voi mi venga comandato. Se mi direte: "Maestro, sedete qui, maestro, passate là, venite qua, andate, tornate", subito il farò come il meglio ammaestrato cane che salti pel re di Francia.

—Se così ha da essere —disse l'incauta Leonora—, come s'avrà da fare perché qua entri il signor maestro?

—Cosa facile —rispose Loaisa—, se le vostre signorie tanto faranno che di questa porta di mezzo la chiave venga rimpronta in cera ed io farò che domani notte n'averemo una simile, bella e fatta, che ne potrà benissimo servire.

—In aver quella chiave —disse una delle serve— si averà tutte l'altre di casa, perciò che è chiave maestra ch'apre tutte l'altre porte.

—Tanto meglio —replicò Loaisa.

—Dice il vero —disse Leonora— ma questo signore primieramente ha da giurare che, dopo che l'averemo introdotto qui in casa, egli non farà altro che cantar e suonare quando glielo comanderemo e starà serrato e zitto nel luoco dove lo metteremo.

—Io lo giuro —disse allora Loaisa.

—Quel giuramento non vale —replicò Leonora—, bisogna che giuriate per la vita di vostro padre e per la croce e quella baciare, che tutte il veggano.

—Io giuro —disse Loaisa—, per la vita di mio padre e per questo santo segno di croce che con mia bocca indegna io baccio(14).

E facendo egli la croce colle dita, per tre volte bacciola. Fatto questo, un'altra delle fanti disse:

—Avvertite, signore, che non bisogna scordarsi la polvere, perché questa è l'importanza di tutto il negozio.

Qui finì il ragionare di quella notte e tutti restarono contentissimi dell'accordato. E la sorte che di ben in meglio incaminava le cose di Loaisa condusse allora, ed era circa le due ore dopo la mezzanotte, ivi i suoi compagni, i quali diedero il solito segno, ed era di suonar una trompa o scacciapensieri(15) che dir vogliamo. Parlò con esso loro Loaisa e gli ragguagliò del termine in che stava la sua pretensione. Lor domandò s'avessero portata la polvere od altra cosa, come gli aveva pregati, per far dormire il Carrizale; ed ancora lor disse ciò ch'era stato risoluto per la chiave maestra. Eglino risposero che la seguente notte gli recherebbono la polvere od un unguento ch'era di tanta virtù che, ongendone i polsi e le tempie, egli faceva venire un profondissimo sonno, senza svegliarsi di due notti con i suoi giorni, se non bagnando con aceto le parti unte. Gli domandarono poi che lor desse la chiave impronta in cera, che facilmente ne farebbono fare una simile. Così accordatisi, indi si partirono e Loaisa ed il suo discepolo dormirono quel poco che della notte lor avanzava, però non tanto Loaisa ch'egli non avesse sempre il pensiero desto e fisso ad aspettare l'altra prossima notte, per vedere se i compagni gli serverebbono promessa nel portargli la chiave. E quantunque il tempo paia molto lungo a coloro che aspettano, e che camini a passo lento, nulladimeno egli corre al fine di corso pari alli pensieri e gionge il termine ch'essi desiderano, perché non si ferma né posa mai. Or venne la notte e l'ora solita del ridursi al torno. Vi vennero tutte le serve di casa, grandi e picciole, negre e bianche, perciò che tutte erano desiderose di vedere dentro del lor serraglio il signor musico; però non comparve Leonora; e Loaisa domandando di lei gli risposero ch'ella stava a dormire col suo vecchio, il qual teneva serrata colla chiave la porta della camera ov'ei dormiva. Gli dissero ancora che 'l Carrizale, doppo aver così serrato, metteva essa chiave sotto il suo capezzale e che la lor padrona aveva detto che, quando 'l vecchio dormirebbe, la piglieria e l'impronterebbe in cera, ch'ella di già aveva preparata, e che d'indi a poco tempo dovessero venire per quella alla gattaiola della porta, per dove la porgerebbon loro. Stette Loaisa tutto meravigliato del circospetto antivedimento del geloso vecchio né perciò non se gli smarrì l'animo e della cominciata impresa non si distolse punto. In questo mentre egli sentì suonar la trompa; venne presto alla porta e parlò coi suoi compagni che gli diedero un buon bussoletto pieno d'unguento, della virtù che gli avevan detto. Pigliollo Loaisa e gli pregò che aspettassero un poco, che lor darebbe l'impronto della chiave. Ritornato al torno, egli disse alla maggiordoma, et era quella che più di nessun'altra mostrava di desiderare ch'ei entrasse, che allor allora lo portasse alla signora Leonora, avvisandola della virtù e proprietà di quello, e ch'ella procurasse di ongerne il suo marito, di modo però che nol sentisse, e poi vedrebbon meraviglia. Tanto fece la maggiordoma ed accostatasi trovò Leonora che l'aspettava distessa boccone in terra e posto il viso nella gattaiola. La maggiordoma anche lei vi si mise in simile postura, posele la bocca all'orecchia della sua signora e pian piano susurrando le disse ch'ella aveva lì l'unguento e come bisognava adoperarlo per provar la sua virtù. Lo prese Leonora e disse alla maggiordoma che non era cosa possibile pigliar la chiave al suo marito, imperò che non la teneva più, come soleva, sotto il capezzale ma tra i due materassi e quasi sotto il mezzo della vita. Tuttavia, ch'ella dicesse al mastro suonatore che, se l'unguento operasse così com'egli diceva, si potrebbe facilmente aver la chiave ogni volta che si volesse, a tal che non sarebbe altrimenti di bisogno improntarla in cera. Leonora dunque disse alla maggiordoma che senza indugio andasse a dirlo al mastro suonatore e ch'essa poi ritornasse a vedere che operazione l'unguento avesse fatta, perché allor allora ella andava ad ongerne il suo vecchio. La maggiordoma andò a dirlo a Loaisa ed egli licenziò i suoi compagni che stavan aspettando l'impronto della chiave.

Temendo e tremando di paura Leonora, e quasi non osando fiatare, cominciò ad ongere i polsi del geloso marito ed anco gli unse le nari; e quando vi portò la mano spasimava di paura e le pareva che fosse colta sul fatto; infine, il meglio che potette ella finì di ongere tutti i luochi che le avevan detto e quello fu poco manco che se l'avessero imbalsamato per darlo alla sepoltura. Non tardò molto il sonnifero unguento a dare manifesti segni della sua virtù, perché incontanente cominciò il vecchio a russare sì fortemente che poteva esser sentito insino dalla strada: musica più soave e più grata agli orecchi della sposa di quella del maestro del negro. Però, non ben sicura di ciò ch'ella vedeva, se gli accostò e lo mosse un poco, anche un poco più e poi un altro poco, per vedere se si svegliasse. Veggendo ch'egli niente sentiva, ella andossene alla gattaiola e con voce non tanto bassa quanto da prima chiamò la maggiordoma, che quivi stava aspettandola, e le disse:

—Buona nuova, sorella, buona nuova, il Carrizale dorme meglio d'un morto.

—Che state dunque ad aspettar, signora —rispose la maggiordoma—, che non pigliate la chiave? Fa più d'un'ora che 'l musico sta aspettando.

—Ch'egli abbia un poco di pazienza, amica mia cara —replicò Leonora—, ch'io vado per essa.

Così dicendo, ella andò al letto, mise la mano tra i due materassi e ne trasse la chiave, senza che 'l vecchio addormentato nulla sentisse. Quando che l'ebbe in mano, saltava d'allegrezza e, senza indugiare, con quella aprì la porta e poi diedela alla maggiordoma(16), la quale la ricevette col maggior gusto del mondo. Comandolle Leonora ch'andasse ad aprire al musico e che 'l menasse al corritore, perché di lì ella partirsi non osava per ciò che succeder potesse. E le impose che prima d'ogni cosa facesse di nuovo giurare a mastro Loaisa, per ratifficazione del suo primo giuramento, di niente altro pretendere né fare che quello ch'esse gli ordinassino e se così non volesse giurare confermativamente a niun patto gli aprisse.

—Tanto farò —disse la maggiordoma— e vi prometto sopra la fede mia che qua non entrerà se prima egli non averà giurato e rigiurato e baciato sei volte la croce.

—Non ci mettete tassa(17) —soggionse Leonora—, la baci quanto voglia. Ma avvertite di fargli giurare per la vita dei suoi padri e per tutto ciò ch'egli ama, perciò che mediante questo giuramento saremo sicure e ci sazieremo da sentirlo cantare e suonare colla sua chitarra. Invero, egli la suona maestrevolmente. Andate, non indugiate(18) più, acciò non se ci passi la notte in ragionamenti.

La buona maggiordoma si succinse le falde e con ispedita leggierezza corse al torno, dove tutta la famiglia di casa stava aspettandola; e quando che lor ebbe mostrata la chiave, ch'ella teneva in mano, ne sentirono tutte tanto contento che l'alzarono di peso, proferendo: "Viva, viva", come quando si è addottorato uno. Et anche più ebbero da rallegrarsi(19) quando ch'ella lor disse che non era più di bisogno di contrafar la chiave, perciò che, secondo che 'l vecchio profondamente dormiva, potrebbono ad ogni lor piacere adoperare quella di casa.

—Orsù dunque, sorella —disse una delle donzelle—, che s'apra quella porta ed entri questo galantuomo. Ha aspettato un pezzo. Ora sì che dobbiamo pigliarci una buona corpacciata di musica, e satollarne, e tanta che più non vi sia da dire.

—Vi è da dire e da fare —replicò la maggiordoma—, perché bisogna ch'egli giuri, sì com'ei fece la passata notte.

—È così buono e da bene —disse una delle schiave— che non guarderà a giuramenti e non contrafarà.

In questo, la maggiordoma aprì la porta e tenendola mezzo aperta chiamò Loaisa, il quale aveva ascoltato il tutto per lo buso del torno. Or egli volle, accostandosi alla porta, entrar di lancio; ma la maggiordoma, opponendogli la mano al petto, gli disse:

—Sappia vostra signoria, signor maestro, e sallo Dio, e sopra la mia coscienza, che noi tutte che qui dentro stiamo, dalla nostra padrona in poi, siamo vergini come le madri che ne partorirono.

E quantunque io paia essere di quarant'anni non ne ho tuttavia trenta compiti, perché ve ne mancano due mesi e mezzo, e sono donzella. E, se pare che vecchia io sia, i travagli, l'afflizioni, i disgusti e le fatiche fanno invecchiare, secondo che le pigliamo a petto. Ora stando questo come sta, non istaria bene che, per sentire due o tre o quattro canzoni, venissimo a perdere tanta virginità che è qui dentro, che anco questa negra, che si chiama Ghiomara, è donzella. Per il che, caro signore, vostra signoria, prima che entri in questo nostro regno, ha da fare un solenne giuramento, che non oltrapasserete gl'ordini nostri. E se vi pare che quello che vi si domanda sia molto, e di molt'importanza, considerate che molto più è quello che s'arrischia. Se qualche buona e schietta intenzione v'ha portato da noi, il giuramento vi sarà facile, però che a buon pagatore poco importa il dar pegno.

—Benissimo ha detto la signora Marialonso —disse una delle donzelle— e l'intende, come donna discreta e che vuol sempre stare ne' termini dell'onesto. Di modo che se questo signor maestro non vorrà giurare qui non ha da entrare.

Sopra di questo Ghiomara la negra, anzi goffa che no, con modo di parlar rozo prese a dire:

—Per me, benché mai lo giuri, entri con sua malora, perché più ch'egli giurerà, se dentro entra, tutto scorda.

Riposatissimamente Loaisa stette a sentire l'arenga della signora Marialonso, a cui con gravità e ponderate parole rispose:

—In verità, signore sorelle e compagne mie, mai fu pensier mio, né mai sarà, se non di darvi gusto e sodisfazione per quanto mi basteranno le forze; e però non m'è grave il giuramento che a me domandate ma vorrei bene che vi fidaste alquanto della parola mia, perché già data da tal persona quale son io è l'istesso ed è tanto valida quanto se fosse un obligo autentico, ov'entra il mallevadore per sicurtà. E voglio che sappiate che sotto rozi panni si ritrova alle volte spirito gentile e sotto cattiva cappa un buon bevitore. Tuttavia, acciò tutte stiate sicure della sincera mia affezione ed intenzione, giurerò come catolico ed uomo da bene. Dunque, io giuro per l'inviolabil efficacia in qualsivoglia parte ch'essa più pura e diffusamente sia contenuta, per l'entrate ed uscite del monte Etna e per tutto quello che contiene nel suo proemio la verace istoria di Carlomagno, con la morte del gigante Fierabrasso, di non trasgredir in un sol punto dal giuramento che già ho fatto né dal comandamento della minima e più abietta di queste signore, sotto pena ch'io facessi o volessi far in contrario, insin d'adesso come d'allora ed insin d'allora come da presente, l'ho per nullo, come non fatto né valido.

Qui finì il buon Loaisa suo ragionamento, quando una delle donzelle, che con attenzione era stata ad ascoltarlo, prese a dire:

—Questo sì ch'è un giuramento da far intenerir i sassi. Mio malanno, se più per la mia parte voglio che tu giuri, poiché, col giuramento ch'ora hai fatto, potresti entrare nella caverna di Cabra.

Ed acchiapandolo per le brachezze lo tirò dentro. Subito tutte l'altre l'attorniarono ed una d'esse corse ad avvisarne la sua padrona che stava invigilando sopra il sonno del marito. Quando la messaggiera le disse che già saliva il suonatore, l'allegrezza ed il timore tutto ad un tempo se le entrarono nell'animo, ciò nonostante non si scordò di domandare s'egli giurato avesse; ella rispose di sì ed era stato con la più nuova ed insolita forma di giuramento che mai in vita sua si ricordasse aver udita.

—Poiché ha giurato —soggiunse Leonora— egli è nostro, legato lo teniamo. O che ben avveduta fui, allora che pensai fargli giurare.

In quel mentre, ecco venire tutte insieme la frotta delle donne. Stava in mezzo il cantore ed il negro e Ghiomar la negra, con ciascheduno una candela in mano, facevan lume. Di subito che Loaisa vidde Leonora si gittò a' suoi piedi per baciarle le mani. Ella tacendo gli fece cenno che dovesse alzarsi e così egli fece.

Erano diventate tutte come ammutite e non osavano muover il labbro per isciorre una parola temendo d'essere sentite dal lor padrone. Ma Loaisa, considerando il lor silenzio, disse che potevan liberamente parlar forte, perché l'unguento col quale il lor signore unto era stato aveva virtù tale che, senza far morire, rendeva un uomo come morto.

—Questo cred'io —soggionse Leonora— e, se così non fosse, egli per più di venti volte già svegliato si sarebbe, perché le sue molte indisposizioni di ordinario non lasciano ch'ei dorma di profondo sonno; e da che l'ho unto, sornaca come una bestia.

—Stando questo —disse la maggiordoma—, andianne a quella sala dirimpetto, ove potremo comodamente sentir cantare, suonare il signor mastro e rallegrarci un poco.

—Andiamo —disse Leonora—; fra tanto, resti qui Ghiomar la negra a far la spia, per venire ad avvisarne se si svegliesse(20) il Carrizale.

Allora Ghiomar, col suo solito modo di parlar zotico e ridicoloso, disse:

—Come io negra resto, bianche vanno, Dio perdoni tutte.

Così restò la negra e l'altre se n'andarono alla sala, ov'era disteso un ricco strato. Si misero a seder sopra ed in mezzo ad esse il mastro suonatore. Or, la buona Marialonso, avendo presa in mano una candela, cominciò a considerare da capo a piedi il compagnone. L'una diceva:

—O che ciuffetto egli ha sì vago e sì ricco!

L'altra:

—O che bei denti bianchi! Pignoni mondi, hi bò(21), non sono così netti(22) né di tanta bianchezza.

—O che occhi grandi ed ispaccati —diceva ancor un'altra—; pel secolo di mia madre, son così verdi che paiono smeraldi.

Questa prendeva a lodar la sua bocca; quella i piedi e tutte insieme fecero un'anatomia del suo corpo, anzi un minuzzame. La sola Leonora non diceva parola ma lo guardava fisso fisso e le pareva ch'egli fosse d'un'altra stampa, e d'altro garbo, che 'l suo vecchiarello.

Intanto la maggiordoma prese la chitarra che 'l negro aveva in mano e la mise in quelle di Loaisa, pregandolo che volesse suonarla e cantar sopra una gustosa villanella ch'allora per tutta Siviglia era in credito. Volle compiacerla(23) Loaisa e contentarla.

Si fecero tutte in piedi e cominciarono a disfarsi(24) in pezzi a forza di ballare. La maggiordoma, con più gusto che buona voce, anche lei prese a cantar la canzone, perché la sapeva a mente, ed era questa:

Madre la mi madre,

guardas me ponéis;

que se(25) yo no me guardo,

no me guarderéis(26).

Dicen que está escrito,

y con gran razón,

ser la privación

causa de apetito;

crece en infinito

encerrado amor,

por eso es mejor

que no me encerréis,

que se yo, etc.

Si la volontad(27)

por sí no se guarda,

no le harán guarda

miedo o calidad;

romperá, en verdad,

por la misma muerte,

hasta hallar la suerte

que vos no entendéis:

que se yo, etc.

Quien tiene costumbre(28)

de ser amorosa,

como mariposa

se irá tras su lumbre,

aunque muchedumbre

de guardas le pongan,

y aunque más propongan

de hacer lo que hacéis,

que se yo, etc.

Es de tal manera

la fuerza amorosa,

que a la más hermosa

la vuelve en quimera;

el pecho de cera,

de fuego(29) la gana,

las manos de lana,

de fieltro los pies,

que se yo no me guardo,

mal me guarderéis.

In quello che l'allegra brigata delle gioveni, guidata dalla maggiordoma, ch'era capo di ballo, finiva la canzone ed il ballare, ecco la negra Ghiomara, la sentinella, venir correndo tutta turbata e percuotendo col piede il suolo e l'una man con l'altra come una spiritata, la quale con voce roca e bassa disse:

—Svegliato signore, signora, sì signora, svegliato signore e levassi e viene.

Chi vidde mai una compagnia o frotta di colombe star beccando senza temenza in uno seminato e che di repente sì sentendosi sparar contra strepitosa archibugiata, quella tutta impaurita lasciando il pasto, alzarsi a volo confusamente di qua, di là per l'aria, s'immagini che così fu della banda confusa di quelle ballarine. Voglio dire che quasi spasimate da paura, e tremanti per l'inaspettata nuova che Ghiomara portata aveva, ciascuna d'esse pensando per la sua discolpa, dettero a gambe, chi qua, chi là fuggendo ad ascondersi ne' granai e recessi della casa, lasciando solo il cantore, il qual abbandonata la chitarra e cessato il cantare, com'una mosca senza testa, non sapeva ove voltasse. Storceva Leonora le sue belle mani e la buona limosina di maggiordoma battevasi le guancie, però non forte. Infine, tutto era confusione, spavento e timore. Nientedimeno la maggiordoma, ch'era la più scaltra e considerata, dette subito ordine acciò che Loaisa se n'entrasse in una camera di lei ed ella con la sua signora se ne stettero nella sala, pensando che non lor mancherebbe scusa quando che quivi il suo signore le trovasse.

Prestamente s'ascose Loaisa e stette attenta la maggiordoma ad ascoltare se 'l padrone veniva. Ma quando che non udì niente ripigliò animo ed a poco a poco, senza fare strepito, s'accostò alla camera dove dormiva il Carrizale e sentì ch'ei russava, come da prima. Assicurata dunque del dormire di lui, s'alzò le vesti e ritornò correndo dalla sua signora a dargliene la buona nuova; e domandole la mancia, per così buon anoncio, come s'usa in Ispagna; Leonora gliela donò molto cortesemente.

Non volle la buona maggiordoma perder la congiontura che se le offeriva di godere, prima dell'altre, le doti e le grazie che ella s'immaginava dovere ritrovarsi nel musico. Per il che disse a Leonora che l'aspettasse nella sala, mentre che anderebbe a chiamarlo. Entrò Marialonso nella stanza dov'egli era tutto confuso e pensoso, aspettando d'intender nuova di ciò facesse il vecchio unto. Malediceva la falsità dell'unguento e lamentavasi della troppo crudelità(30) de' suoi compagni e del poco avvedimento suo in non averne prima fatta l'esperienza sopra di qualcun altro che sopra il Carrizale.

Mentre che questa confusione lo teneva perplesso, ecco venire la maggiordoma, la qual l'assicurò che 'l vecchiarello dormiva più che mai. Questo alquanto quietò l'animo di Loaisa ed egli stette attento a di molte parole innamorate che gli diceva Marialonso, dalle quali comprese la poco buona intenzione di lei e si mise in pensiero di valersi di quella per amo da pescare la sua signora. Stando amendue in quel lor ragionare, l'altre serve, che s'erano ascose, come dicemmo, qua e là in diversi luoghi della casa, vennero fuora a sapere se fosse vero che 'l lor padrone più non dormisse. Ma quando viddero che tutto stava sepolto nel silenzio andaron alla sala, ove trovarono ancora la lor signora, la qual lor disse che 'l suo marito dormiva tuttavia. E domandandole del musico e della maggiordoma lor disse dove stavano, di modo che, col medesimo silenzio ch'esse eran venute, s'appressaron ad ascoltare tra le due porte quello che amendue dicevano. Non mancò Ghiomar la negra di venire a mettersi, anch'ella, in dozzina; ma non ci venne il negro, perché, com'egli ebbe udito che 'l suo padrone si era svegliato, se ne fuggì con la sua chitarra ed andò a nascondersi nel pagliaro, ove nel suo misero letto sudava e trassudava, non dal calore della coperta ch'aveva addosso, ch'era una straccia, ma da paura. Però, non lasciava di tastare le corde della chitarra, tanto egl'era indiavolato intorno al voler sapere suonar quell'istromento.

In questo mentre, le giovani stavan ad ascoltare le parole innamorate della vecchia Marialonso e ciascuna di esse le diede la mala pasqua. Nessuna la chiamò vecchia che non v'aggiongesse il suo epitteto, o titolo, ed adiettivo di strega, di barbuta, di capricciosa ed altri che per buon rispetto si tacciono. Ma quel che più faceva venir voglia di ridere erano le parole di Ghiomara la negra, la quale, per esser portoghese e di parlare rozo e mescolato, come s'è detto, aveva tanta grazia nel biasimarla che non si può rappresentarla. Infine, la conclusione del ragionamento di Marialonso e di Loaisa si fu ch'egli sodisfarebbe secondo il desiderio di lei, pur ch'ella gli facesse primieramente goder la sua padrona. Parve strano e difficile alla maggiordoma di prometter al suonatore quel che le domandava ma per compire il suo desiderio, il quale già dell'animo di lei e dell'ossa e midolle del suo corpo s'era impossessato, gl'averebbe promesso tutto ciò ch'impossibile si possa immaginare. Dunque, la si partì da lui e se n'andò a parlare con la signora e, come vidde star sulla porta della sua stanza tutte le serve, lor comandò che alle loro stanze dovessin ritirarsi sino all'altra notte, ch'averebbono tempo di godere con manco o con nessuna tema lo spasso del cantore, posciaché la paura loro aveva interrotto il gusto di quella notte. Ben intesero tutte che la vecchia Marialonso voleva restar sola ma non potettero non ubbidire, perché aveva autorità di comandar a tutte.

Quando si furon ritirate, se n'andò sola alla sala la maggiordoma a persuader Leonora di contentare il desiderio di Loaisa, con un lungo ragionamento, e così ben contesto, che pareva ch'infino da molti giorni l'avesse studiato. La mala femina prese a lodarle sopra ogni cosa la gentilezza, il valore e la grazia di lui. Rappresentolle quanto più gustosi le sarebbono gli abbracciamenti dell'innamorato giovine di quelli del vecchio marito. L'assicurò che la cosa(31) passerebbe con secretezza, ch'averebbe durata il gusto, con altri incantesimi di questa fatta che 'l maligno ed ingannatore spirito le metteva in bocca. Incantesimi pieni ed adornati di colori retorici, tanto dimostrativi, vivi ed efficaci ch'averebbon intenerito un cuor di marmo, non che quello già per sé tenero della poco avveduta e manco cauta Leonora. Insomma, la maggiordoma tanto seppe ben dire, tanto seppe persuadere che Leonora si lasciò ingannare, Leonora s'arrese e Leonora si perdé e restò soverchiata con tutta la prudenza che per prevenir questo male era stata adoperata dall'avveduto Carrizale, il qual dormiva il sonno della morte del suo onore. La maggiordoma prese per mano la sua padrona e quasi per forza, avendo questa gli occhi pregni di lagrime, la menò dove stava Loaisa. E dando loro la buona notte e con soghigno d'inferno sorridendo gli serrò dentro e si pose poi a dormire nello stratto o, per dir meglio, ad aspettarne la sua parte. Tuttavia, essendo vinta dall'avere vegghiato nelle passate notti, s'addormentò sopra di esso stratto.

Or, sarebbe stato allora molto a proposito di domandar al Carrizale, se non dormisse, ov'erano i suoi avvedimenti, le sue gelosie, i suoi antivedimenti, le sue persuasioni alla consorte, alla famiglia per conservazione del suo onore. A che le alte mura della sua casa? Il non esservi mai entrato neanche in ombra e pittura cosa ch'avesse(32) il nome mascolino? A che il torno stretto? Le spesse muraglie? Le finestre senza luce e tutta quella notabile chiusura? Di che gli profittava la vantaggiosa contradote ch'aveva assegnata a Leonora? I regali continovi con che la tratteneva? Il buon trattamento ch'egli faceva alle sue serve e schiave? E la cura ch'aveva nell'esser puntuale in non mancare a somministrar loro largamente tutto ciò ch'ei s'immaginava avessero bisogno o potessero disiare? Tuttavia, come già dissi, non v'era luoco da poter domandargli o rappresentar queste cose, perché dormiva più che non gli era di bisogno. E dato che egli le avesse udite altra risposta non avrebbe saputo dare, se non istrignersi le spalle, inarcarsi le ciglia e dire: "Per quanto io posso comprendere d'un giovine scioperato e vizioso, la malizia d'una falsa matrona e l'inavvertenza d'una giovene sollecitata e persuasa hanno dai fondamenti rovinato tutto ciò che sopra di quelli io aveva fabricato". Liberi Dio ogni cristiano da sì fatti nemici, contra i quali per difendersi non v'è scudo di prudenza che possa reggere né spada di circospezione che tagli.

Nonostante questo, fu tale il valore di Leonora che nel tempo che conveniva mostrollo e l'oppose contra la forza villana del suo astuto ingannatore, poiché quella non valse e non potette vincerla. Di modo ch'egli s'affaticò e si straccò indarno ed essa rimasse vincitrice ed ambedue s'addormentarono.

In quel mentre, volle il cielo che, a malgrado della forza dell'unguento, il Carrizale si svegliasse e, sì come era il suo costume, tastò per tutto il letto e, non trovando in quello la sua cara sposa, saltò fuor d'esso turbato ed attonito, con più leggierezza e sveltezza di quella che si potesse pensare da un uomo dell'età sua. E, quando che neanco nella stanza non trovò la moglie e vidde la porta aperta e che gli mancava la chiave sotto alli materassi, stette per perdere il senso. Tuttavia, ripigliando un poco gli spiriti smarriti, uscì nel corritore ed indi pianamente se n'andò alla sala, ove la maggiordoma stava dormendo. Veggendola sola, se ne passò alla camera di quella ed aprendo pian piano la porta vidde quello che mai averebbe voluto vedere; vidde quello che per non vederlo averebbe volentier voluto non aver occhi. Vidde, dico, Leonora tra le braccia di Loaisa, dormendo amendue di così profondo sonno come se fusse stato in loro ch'avesse operato la virtù dell'unguento e non in quel geloso vecchio.

Lo spiacente spettacolo ch'egli aveva davanti agli occhi gl'involò ogni spirito ed insensibile fecelo diventare.

Non puoté la lingua formar parola, le braccia se gli cascarono giù distese da svenimento e quasi statua di marmo restò freddo ed immobile. E con tutto che la colora(33) facesse il naturale suo officio, ravvivandogli li poco men ch'estinti spiriti, però fu sì gagliardo il dolore che non gli lasciò ripigliar fiato; tuttavia, se allora egli avesse avuto arme, avrebbe fatta la vendetta di così grand'offesa. Per il che si risolse d'ir alla sua stanza per un pugnale e con quello cavar il sangue ai suoi due nemici ed ancora a tutta la sua famiglia, per lavarne la macchia del suo onore. Con questa risoluzione onorata e necessaria, e col medesimo silenzio ch'ivi era venuto, tornossene alla sua stanza, ma appena vi fu entrato ch'un pungente dolore di sì fatta maniera gli penetrò il cuore che, senza poter sostenerlo, si lasciò cascar tramortito sopra del letto. In quel mentre apparve il giorno che colse i due adulteri allacciati e presi l'un l'altro nella rete delle lor braccia. Svegliossi Marialonso e volle farsi innanzi, per anche lei averne quella parte la quale al parer suo le toccava; ma veggendo che l'ora troppo era tarda ebbe per bene rimetterlo insino all'altra notte. Turbossi Leonora quando vidde il giorno esser già tanto chiaro; maledisse la sua trascuragine e quella della maledetta maggiordoma. Con passi tremanti andarono amendue insieme ove giaceva il Carrizale, fra' denti pregando il cielo che lo trovassero ancora sornacando. Quando il viddero sul letto, senza che si movesse niente, pensarono che tuttavia l'unguento operasse, poiché egli dormiva, perloché l'una l'altra si abbracciarono da allegrezza.

Accostossi al suo marito Leonora e, pigliatolo per un braccio, lo mosse in qua in là, per vedere se si svegliasse senza che fosse di bisogno lavarlo con aceto, sì come avevan detto che bisognarebbe fare, quando che si vorrebbe riscuoterlo dal sonno.

Per cotal movere egli ritornò in sé, diede un profondo sospiro e con voce querula e flebile disse queste parole:

—Ah, sconsolato me! A che passo infelice m'ha condotto la mia mala sorte.

Leonora, che non aveva inteso bene quello che 'l suo sposo disse, meravigliossi fortemente veggendolo svegliato e che parlava, e che la virtù dell'unguento non durava sì lungo tempo ch'avevan detto; se gl'accostò e, giongendo il suo viso con quel di lui ed abbracciatolo strettamente, gli disse:

—Che cosa avete, signor mio? A me pare che vi dogliate.

Udì la voce della sua dolce nemica lo sfortunato vecchio e, stralunando gli occhi come attonito, fissogli in lei e fissamente senza mover le palpebre la stette guardando per buona pezza, in fine della quale così le disse:

—Fatemi questo piacere, signora, di mandar subito da parte mia per vostro padre e vostra madre, perché mi sento non so che affanno nel cuore che mi dà gran travaglio, e temo che di breve m'abbia da levare di vita, e però vorrei vederli innanzi ch'io mi morissi.

Credette Leonora che senza dubbio fosse vero ciò che 'l marito le diceva e che la virtù dell'unguento, anzi quello ch'egli veduto aveva, lo tenesse in quell'affannoso frangente. Ella rispose che quanto egli comandava sarebbe eseguito. Così mandò il negro allor allora a chiamare il padre e la madre di lei; ed abbracciando il suo sposo gli faceva le maggior carezze che mai gli avesse fatte, domandandogli spesso con teneri ed amorevoli parole, come s'ei fosse la cosa del mondo che più ella amasse, ove sentiva male. Egli stava guardandola con quello stupore ch'è stato detto, essendogli ogni parola, o carezza, ch'ella gli diceva, o faceva, una lanciata che a lui passava il cuore. Di già la maggiordoma aveva fatto intendere alla famiglia di casa ed a Loaisa dell'infirmità ed accidente del lor padrone, esaggerando che dovesse esser grande e repentino, posciaché s'era scordato di comandare che serrassero le porte della strada, doppo che 'l negro fu uscito per andar a chiamar i padri della sua padrona. Essi gran meraviglia si fecero di cotal nuova, per non esser alcun di loro entrati in quella casa da che ebbero maritata la lor figliuola. Insomma, tutti stavano cheti e sospesi, non potendo dare nel segno in comprender la causa dell'indisposizione del Carrizale, il quale di quando in quando esalava sospiri dal più profondo e più addolorato del cuore e pareva ch'ogni sospiro a poco a poco gli cavasse dal corpo l'anima afflitta. Piangeva Leonora, veggendolo in tale stato, ed egli la guardava e, considerando la falsità del piagnere di lei, prendeva da ridere, però con riso di persona fuora di sé.

In quel mentre gionsero i padri di Leonora e, come trovarono la porta della strada e quella del cortile aperte, la casa sepolta nel silenzio ed erma, restarono stupiti e con non poca turbazione. Andaron alla camera del genero e trovaronlo, come s'è detto, gli occhi fissi nella sposa e, tenendola per le mani, spargendo amendue rivi di lagrime, la moglie solamente perché vedeva piangere il marito, ed il marito perché vedeva pianger la moglie dissimulatamente. Come il padre e la madre di Leonora entrarono, prese a dire il Carrizale:

—Prego le signorie vostre di seder qua e tutti gli altri vadano fuora di questa camera; però resti la signora Marialonso.

Così fu fatto(34) e loro cinque solamente restaron dentro. Allora il Carrizale, senz'aspettare ch'altri parlasse ed asciugandosi gli occhi, con riposata voce disse in questo senso:

—Io son certo, padri e signori miei, che non faccia già di mestiere fare venir qua testimoni perché voi mi crediate quello che ho da dirvi. Ben vi dovete ricordare, che questo non vi può esser uscito di mente, con quanto amore e con quanta franchezza, oggi fa l'anno, un mese, cinque giorni e nuove ore, vi compiaceste darmi per legitima sposa la vostra cara figlia. Et anco vi soviene con quanta liberalità io la vantaggiai, assegnandole dote con la quale più di tre di qualità pari alla sua avrebbono potuto accasarsi ed essere stimate ricche. Vi si ricordi parimente della cura ch'ebbi in vestirla ed adornare di tutto ciò ch'ella seppe desiderare e che secondo il mio giudizio le conveniva. Et anco voi vedeste come, portato dalla natural mia condizione e temendo il male che senza dubbio ha da farmi morire, ed i molti miei anni avendomi fatto esperto negli strani e vari accidenti di questo mondo, io fui curioso, con la maggior prudenza che si possa imaginare, di guardar questa gioia ch'io m'elessi e che voi mi donaste. Io feci, dico, alzare le muraglie di questa casa; levai la veduta alle finestre sopra la strada; rinforzai le serrature delle porte e vi feci far un torno come s'usa ne' monasteri. Io bandii perpetuamente e tenni lontano da lei tutto ciò che di maschio aveva ombra o nome. Le diedi serve e schiave che la servissero né a lei né a quelle non ho negato cosa alcuna che m'avessero domandata. Fecila mia uguale; comunicaile i più intimi e segreti miei pensieri, le misi in mano tutto 'l mio avere. Tutte queste azioni e testimonianze di vero amore, se bene le avesse considerate, dovevan fare ch'io vivessi in santa pace e godessi senza sospetto od apprensione(35) quello che tanto mi aveva costato; e ciò doveva indurla a procurare ed a star avvertita acciò nessuna occasione o sorte di geloso timore l'animo mio turbasse. Ma, sì come non è possibile di prevenire con diligenza umana il gastigo che la volontà e giustizia divina voglia far sentire a quelli che non fermano intieramente i loro desideri in quella, e le loro speranze, non è gran fatto ch'io resti defraudato nelle mie, poiché sono stato quello ch'ha preparato il veleno che mi fa morire. Or, perché io vi veggo tutti stare sospesi dalle parole che m'escono di bocca, voglio conchiudere questo lungo preambolo del preteso mio discorso e dirvi in poche parole quello che in mille non si potrebbe dire. Dico dunque, signori, che tutto ciò ch'ho detto e fatto non batte in altro ch'in questo punto, ed è che questa mattina ho trovata costei —ed additava la sua sposa—, nata nel mondo per la rovina del mio riposo e per finire la vita mia, tra le braccia d'un giovine gagliardo, il quale adesso si ritrova serrato nella stanza di questa pessima donna, la maggiordoma.

Appena il Carrizale finiva queste parole, quando Leonora sentì il suo cuore sì fattamente angustiato che tramortita cascò in grembo al marito. Impallidì Marialonso e pareva che alli padri di Leonora fossin chiuse le vie della favella imperò che non puotero formar parola. Però, non lasciò il Carrizale di seguitar innanzi il suo discorso, così dicendo:

—La vendetta che far io voglio di quest'affronto non ha da essere di quelle che ordinariamente soglion farsi. Voglio che, come sono stato estremo in quello che ho fatto, così sia estrema la vendetta ch'io farò, facendola sopra di me medesimo, com'essendo io il più colpevole di questo gran misfatto, perché doveva considerare che i quindici anni di questa giovine con i quasi ottanta miei potrebbon male compatirsi insieme. Io son quello che a guisa di baco da seta fabricaimi la casa, perch'io mi morissi dentro e fosse mia sepoltura. Non voglio incolparti, o figliuola malconsigliata.

E dicendo queste parole ei si chinò e baciava il viso di Leonora ch'era venuta meno.

—Dico che non t'incolpo —seguitò egli—, perché le persuasioni d'astute e trincate vecchie e le alletanti parole di giovani innamorati facilmente sormontano e trionfano del poco di giudizio che sta con gli anni giovenili. Ma, acciò che il mondo tutto sappia di che qualità e pregio sia stato l'affetto e la fede con che t'amai, in questo mio transito voglio mostrarlo di modo tale ch'egli resti per un esempio, se non di bontà, almeno di semplicità giammai udita né veduta. Però, voglio ch'or ora si chiami un notaio per far di nuovo il mio testamento. In quello io darò raddopiata la dote a Leonora e pregherolla che, finiti i giorni della mia vita, il che sarà di corto, ella disponga la sua volontà, poiché lo potrà fare con dispensa senz'esservi costretta, per maritarsi con quello suo giovane, il quale mai da' capegli canuti di questo vecchio misero et afflitto è stato offeso; così ella vedrà che, se vivente io unqua mancai d'un punto in quello che seppi pensare essere di suo gusto, nella mia morte altretanto io feci, desideroso di contentarla e lasciarle libero il possesso di ciò che tanto a lei è caro. In quanto poi al rimanente delli miei beni, io ordinerò distribuirgli in opere pie; et a voialtri, signori miei, lascierò con che possiate vivere onoratamente mentre che passerete quello che vi resta di vita. Venga dunque presto il notaio, perché il grande affanno ch'io sento mi preme di sì fatta maniera che, con un poco più ch'egli mi scuota, giongerò all'ultimo fine.

Detto questo, ei fu sopragionto da un tanto svenimento che si lasciò cascare sì appresso a Leonora che i lor visi si gionsero l'uno con l'altro: strano e tristo spettacolo al padre ed alla madre che stavano mirando la cara lor figliuola e l'amato lor genero.

Non volle la scelerata maggiordoma aspettar le riprensioni che le averebbono fatte il padre e la madre di Leonora, per il che all'istante se n'uscì della camera e tutto quello che passava andò a riferire a Loaisa, consigliandolo che ben presto si partisse di quella casa, e gli promise di avvisarlo pel negro di ciò che succedesse, poiché non v'era più né porte né chiavi che glielo vietassino.

Si stupì Loaisa di cotal nuova e, seguitando il consiglio di Marialonso, tornò a rivestirsi da mendico com'era prima ed andò a dar conto a' suoi compagni dello strano e non più udito successo del suo innamoramento. Mentre che lo sposo e la sposa non s'erano ancor riscossi dal suo svenimento, il padre e la madre di essa mandorono per un notaro, il quale gionse a tempo che già i tramortiti erano ritornati in sé. Or fece il Carrizale il suo testamento, nel modo che aveva detto volerlo fare, senza mentovarci l'errore di Leonora, ma solamente che per buoni rispetti ei la pregava che, s'egli venisse a morire, volesse maritarsi con quello giovane di cui segretamente già le aveva detto.

Quando Leonora udì quelle parole, gittossi ai piedi del morente marito e, palpitandole il cuore, così gli disse:

—Vivete per molti anni, signor mio ed ogni mio bene. Quantunque non v'abbia obligato a credermi di cosa ch'io vi dica, però sappiate, ed è vero, che non vi ho offeso se non con solo il pensiero.

E sopra di questo, come ella voleva continuare a scolparsi ed a distesamente raccontargli la verità del caso, più non potette muover la lingua e da ricapo venne meno. Abbracciola lo sfortunato vecchio, così tramortita com'ella era, abbracciaronla parimente il suo padre e la sua madre; e tutti piansero tanto amaramente che obligarono, anzi sforzarono, anche il notaro a piangere mentre scriveva il testamento, per lo qual il Carrizale lasciò per vivere a tutte le serve di casa, alle schiave ed al negro donò la libertà ed a Marialonso niente altro che 'l pagarle il suo salario. Insomma, il dolore tanto lo strinse che al settimo giorno del suo male portaronlo a sepellire. Rimase vedova Leonora, piangente e ricca.

Et allora che Loaisa sperava ch'ella adempisse quello che già egli sapeva esserle stato imposto dal marito nel suo testamento, vidde ch'in una settimana dopo della sua morte ella(36) si fece monaca, in uno delli più austeri e riserrati monasteri della città. Egli perciò quasi affatto disperato e tutto vergognoso se ne passò all'Indie. Rimasero il padre e la madre di Leonora mestissimi, benché alquanto si consolassero con quello che 'l genero lor aveva lasciato per testamento. Pari consolazione ebbero le serve e le schiave, insieme col negro, quelle per i lor lasci e questi per la libertà. Ma la pessima maggiordoma rimase povera, tutti i suoi cattivi pensieri andarono in fumo; ed io resto col desiderio di venir al fine di questo famoso successo, esempio e specchio del poco che s'abbia da fidare di schiavi, di torni e muraglie, quando la volontà di chi vuole far male è libera. Né s'ha da confidarsi ne' pochi e teneri anni di giovinette, se lor danno all'orecchie le esortazioni di queste donne da' veli lunghi e neri, et anche bianchi, sino a terra. Io per me non so per qual soggetto Leonora non insistesse e stesse salda e più costante in iscolparsi e far intendere al geloso marito quant'ella fosse netta ed incontaminata e quanto valorosamente, per non offenderlo, s'era portata in quell'incontro, avendo resistuto; ma vi è apparenza che la turbazione dell'animo di lei privò la lingua del suo offizio e l'affrettata morte del suo marito non diede luoco alla discolpa.