Nel sacco di Cadiz Clotaldo cavaliere toglie e conduce in Inghilterra Isabella, della quale innamorato Ricaredo dalla regina l'ottiene in moglie. Di queste nozze oltremodo sdegnato Ernesto, è cagione che sua madre avelena Isabella; ma con antidoti agiutata rimane in vita ed è da' suoi genitori alla patria ricondotta. Per una lettera poi inviatale da Londra, crede che Ricaredo sia morto e così pensa di farsi monaca. Il giorno pertanto ch'ella doveva prender l'abito, giungendo Ricaredo, che fin allora era stato prigione de' turchi, e datosele a conoscere, con universale sodisfazione e maraviglia si dà effetto alle nozze.
Fra le spoglie che gli inglesi tolsero nella presa della città di Cadiz, Clotaldo, un cavaliere capitano d'alcune navi, condusse a Londra una fanciulla di età di sette anni o poco più;
et questo contro la volontà e sapere del conte di Leste, generale dell'armata, che per ritrovarla fece molte diligenze, affine di renderla a' suoi genitori che a lui davanti lamentavansi, dicendo che, poiché solo si accontentava delle ricchezze, lasciando libere le persone, non permettesse ch'essi fossero tanto sventurati ch'oltre il rimanere per sempre poveri avessero anco a perdere la figlia ch'era la luce degli occhi loro e per la sua bellezza il decoro della città.
Fece il conte un bando, sotto pena della vita, che chiunque l'avesse la restituisse;
ma non fu stimato da Clotaldo che, affezionato molto, benché cristianamente, alla fanciulla, nella sua nave la teneva nascosta.
Fatte queste diligenze e visto da' suoi genitori essere morta la speranza di riaverla rimasero più che scontenti, caminando per lo contrario Clotaldo a Londra, lietissimo di tanta preda, la quale consegnò a sua moglie arrivato che fu alla sua casa.
Volle la buona sorte d'Isabella (tale dicevasi la fanciulla) che tutti quelli di Clotaldo fossero cattolici segreti, benché in apparenza mostrassero di seguire l'opinioni della loro regina, che fu cagione che come figlia l'amarono ed allevarono.
Moglie di Clotaldo era una tal Catarina, signora principale, la quale, di lui avendo avuto un figlio che pur viveva di età di dodeci anni chiamato Ricaredo, d'ottimi costumi e timorato d'Iddio, prese tanta affezione ad Isabella che come sua figlia propria e sorella di Ricaredo l'allevava e nodriva. Aveva per lo contrario Isabella un ingegno tanto pronto e facile che quanto le era insegnato tutto apprendeva, dimodoché, assuefatta a' costumi d'Inghilterra,
e con il tempo e con li buoni trattamenti si andava a poco a poco smenticando le carezze de' suoi genitori, non però di guisa che alcune volte non sospirasse e piangesse; e benché si allevasse in Londra non però lasciò la natia lingua, avendo a questo Clotaldo cura particolare, poiché di nascosto faceva entrare spagnuoli in sua casa, acciò parlassero seco.
Doppo di averla ammaestrata la signora in tutte quelle cose che a donzella ben nata sono convenevoli, le fece insegnare a leggere e scrivere più che mezzanamente;
e dilettandosi di musica apprese a sonare tutti quelli stromenti che ad una donna possono convenirsi, accompagnando il suono con una voce tanto soave che incantava, quando cantava.
Acquistate tutte queste grazie e congiunte con la naturale sua propria vennero a poco a poco ad accendere il petto di Ricaredo in compagnia del quale si allevava et a cui come a signore ella serviva.
Cominciò da prima l'amore in considerare le tante sue virtù ed in compiacersi della sua bellezza e grazia, non uscendo però i suoi desiri de' termini onorati e virtuosi, amandola come sorella sua;
ma, come che Isabella andò crescendo, poiché quando Ricaredo incominciò ad amarla aveva da dodeci anni incirca, quella compiacenza prima di rimirarla e quella benevolenza si convertì in ardentissimo desiderio di goderla e possederla, non aspirando però a questo con altro mezzo che con quello del matrimonio, poiché e la onestà della giovane et la qualità sua nobile ed onorata non lasciavano che pensieri men che onesti potessero nel suo cuore aver radice.
Fu più volte per dirlo al padre; ma sapendo che lo avevano maritato con una donzella scozzese medesimamente cattolica, non glielo disse,
imaginandosi che già mai avrebbe acconsentito di darli in moglie una schiava, se pur è che tal nome si poteva dare ad Isabella;
di questa maniera confuso, non sapendo a qual partito appigliarsi, passava una vita tanto trista che lo condusse a termine di morte;
ma parendoli codardia il lasciarsi morire senza tentare al suo male rimedio di sorte alcuna, fattosi ardito, pensò di palesare l'animo suo alla giovane.
Era la casa tutta per la sua infirmità ripiena di tristizia, ogni cosa era sottosopra, e questo per essere da tutti sovramodo amato, in particolare dalli genitori, tanto per non avere altro figlio quanto che per la sua bontà e virtù lo meritava.
I medici davano ben lungi nel segno del suo male ned egli osava scoprirlo.
Infine, vedendo un giorno Isabella entrata nella sua camera per servirlo, prese ardire di dirgli queste parole con voce languida e tremante:
Bellissima Isabella, la tua prudenza, la tua virtù e la tua bellezza insieme congiunte m'hanno condotto nel termine che vedi; perloché, se brami ch'io non perda la vita, fa' che i tuoi desiri corrispondano a' miei, ch'altro non sono che di prenderti in moglie, ancorché contro la volontà de' miei genitori, i quali, non conoscendo in te quello ch'io conosco di merito, so mi negheranno quel bene che tanto m'importa.
Se mi dai la parola di esser mia, io te la do di esser tuo da vero e cattolico cavaliere, che, se bene con la sola parola non potrò arrivare a goderti fin che per mezzo del matrimonio non sii benedetta e consignatami dal sacerdote, pure quella imaginazione ch'io averò di esserti sposo sarà bastante a rendermi la salute ed a mantenermi lieto fin a quel destinato punto ch'io tanto bramo.
Mentre diceva Ricaredo queste parole lo stava ascoltando Isabella con gli occhi bassi, dimostrando in quel punto quanto l'onestà sua si uguagliasse alla bellezza; e vedendo che più non parlava, tutta onesta, tutta bella e tutta graziosa, li rispose di questa maniera:
Da che piacque al rigore o sia clemenza del cielo, che non so a quale dei due attribuirlo, di tormi da' miei genitori e darmi alli vostri, signor Ricardo mio, conoscendo le infinite cortesie da loro fattemi ho di già fra me determinato non partirmi dalle loro voglie, onde terrei per male impiegata la mercede inestimabile che bramate farmi;
pertanto, se con loro saputa potrò io arrivare di meritarvi, mi terrò per la più fortunata donzella del mondo, offerendovi per adesso quella volontà ch'essi mi diedero,
con che li vostri desiri si acquetino, pensando che li miei altro non sono che bramarvi dal cielo ogni bene.
Qui pose fine Isabella alle prudenti ed oneste sue parole, dalle quali incominciò Ricaredo a ravvivare la speranza quasi morta ne' suoi genitori della sua salute.
Dipartironsi l'uno dall'altro, Ricaredo con le lagrime agli occhi ed Isabella con l'anima ripiena di maraviglia, pensando in qual maniera il giovane se le fosse reso.
Ricaredo finalmente si levò dal letto al parere de' suoi genitori per miracolo; né volendo più indugiare ad appalesarli i suoi pensieri,
prese occasione un giorno di scoprirli alla madre, dicendoli in fine d'un lunghissimo discorso che, se non li si dava Isabella per moglie, il negargliela ed il darli la morte era una stessa cosa;
e con tali ragioni e con tai parole al cielo innalzò la virtù della giovane che alla madre parve che il figlio non la meritasse.
Diedeli speranza ch'avrebbe ottennuto il suo intento disponendo il padre a dargliela in moglie, come poi fece,
perché tante e tali ragioni li disse ch'egli facilmente approvò la determinazione del figlio, anzi incominciò a fabbricare scuse per impedire il quasi concertato matrimonio con la scozzese.
Aveva allora Ricaredo vent'anni ed Isabella quattordeci, dimostrando ambidue in questa età sì giovanile ingegni senili.
Era di già concertato il tutto e solo quattro giorni mancavano ad effettuarsi il matrimonio d'Isabella e Ricaredo, godendo in infinito Clotaldo e la signora Cattarina di aver acquistato al loro figliuolo una moglie tale ed a loro stessi una nuora tanto prudente, stimando molto più dote le virtù d'Isabella che le molte ricchezze della scozzese.
Già si preparava il convito e si mettevano all'ordine le cose opportune per le nozze, quando un dopodesinare sul tardi un ministro della regina venne a turbarli, portando un mandato, il contenuto del quale era che la seguente mattina dovesse Clotaldo consignare in corte la spagnuola di Cadiz. Era uso in Inghilterra di non effettuarsi matrimonio di sorte alcuna fra persone di sangue illustre senza saputa della regina, perloché questo improviso comandamento turbò affatto ogni allegrezza in casa;
ma pure Clotaldo li rispose che volontieri avrebbe fatto quanto che la sua regina li comandava e così partì il ministro.
La signora Cattarina allora (com'è l'uso delle femine di sempre temere):
Ohimè diceva, se la regina sa ch'io abbia allevata questa fanciulla nella fede cattolica, sarà conseguenza che tutti siamo tali e, se la interroga di quello che in questi otto anni ella ha appreso in questa casa, che potrà risponderle, ancorché ella sia molto prudente, che non ci venghi a condannare?
Sentiva il tutto Isabella, onde per consolarla le disse:
Non vi date pena, signora, che io confido nel cielo che in quell'instante mi somministrarà parole che tutte ridonderanno in vostro utile ed onore.
Tremava Ricaredo quasi indovino di alcun mal successo,
e Clotaldo per lo contrario cercava modi per non avere di che temere, ned in altro li ritrovava che nella confidanza in Dio e nella prudenza della giovane, alla quale sopra il tutto raccomandava il non manifestare la verità della loro fede, perché, posto che fossero pronti con l'animo a ricevere il martirio, ad ogni modo la carne inferma ricusava il patire.
Era più d'ogni altro afflitta Isabella, non per sé stessa quanto che per l'afflizione de' suoi signori, onde per consolarli una e più volte li disse stessero sicuri, che per suo mancamento già mai sarebbe loro accaduto quello che sospettavano, e che, se bene ella non sapeva quello si avesse a rispondere, ad ogni modo confidava in Dio alle proposte di dar tali risposte che più tosto, come li aveva detto, li avessero da essere utili che dannose.
Si discorse quella notte di varie cose in questo proposito ed in particolare che, se la regina saputo avesse fossero stati cattolici, che non con tanta modestia avrebbe mandato a chiedere la giovane, perloché pensarono che solo bramasse di vederla mossa dall'incomparabile bellezza di lei, la fama della quale era sparsa per tutta la città.
Però in non averla essi da prima presentata si ritrovavano colpevoli, onde pensarono in discolpa di questo rispondere che, da quel punto che l'avevano avuta in lor potere, destinata l'avevano per moglie a Ricaredo.
Ma considerando meglio viddero che anco in questo si facevano colpevoli, avendo fatto il matrimonio senza darne prima parte, com'era d'obligo, alla regina. Pure parendoli questo mancamento colpa lieve e di niun castigo si fermarono in questo,
consolandosi al meglio che fu possibile. Pensarono pertanto d'inviare Isabella alla corte, non come loro schiava ma riccamente vestita come sposa di cavaliere tanto principale quant'era Ricaredo lor figliuolo.
Et così la vestirono alla spagnuola, con una veste di raso verde tagliata, con fodera di tela d'oro che faceva quella vista sopra di lei che fanno le stelle nel cielo. Li tagli della veste erano presi ed incatenati da certe filzette di perle, essendo il restante del vestito tutto carico di pietre preziose, un collaro et cintura alla guisa delle principali dame di Spagna; li suoi stessi capelli, ch'erano lunghissimi e biondi, seminati di molte perle e diamanti li servivano di acconciatura di testa.
Con questi ornamenti adunque, con la molta grazia e con la incomparabile sua bellezza fece Isabella di sé mostra a tutta Londra dentro una carozza, tirando seco gli occhi e l'anima di quanti la rimiravano.
Era seco la signora Cattarina e Clotaldo e Ricaredo le cavalcavano al pari, con molt'altri de' loro parenti.
Questo fece il buon cavaliere, affine che la regina trattasse la giovane non come serva e prigioniera ma come sposa dell'unico suo figliuolo Ricaredo;
et così pervenuti alla corte ed entrata Isabella nella regia sala, diede di sé la più vaga vista che già mai in mente ad alcuno possa capire.
Era la sala grande, di modo che agli altri convenne restarsi adietro, caminando sola Isabella che ne' risguardanti faceva quell'effetto che fanno i raggi del sole, allora che spuntando dall'oriente incomincia a dimostrarsi sopra la terra,
anzi pareva una cometa, pronostico della prigionia di più d'un'alma e del vassallaggio di più d'un cuore.
Si fece intanto dalla regina e, inghienocchiatasele con molta umiltà e riverenza davanti, le disse in lingua inglesa:
Date, serenissima signora, la mano a questa vostra umilissima serva che, bontà del cielo, tanto è stata avventurata in meritare di venir davanti alla grandezza vostra.
Stette la regina rimirandola per un pezzo senza dir parola, parendole, come poi disse alla sua cameriera, di aver davanti un cielo stellato, il cui sole e la cui luna erano ambidue gli occhi, le cui stelle erano li molti diamanti e le pietre preziose e la cui serenità e vaghezza le bellezze di lei tutte congiunte.
Bramavano le dame della regina non altro essere che occhi per potere minutamente rimirare ogni cosa in questo mostro di bellezza: qual di loro lodava la vivacità de' suoi bei lumi, quale i gigli e le rose delle guancie, qual altra la debolezza del parlare, e tale anco vi fu che mossa da invidia ebbe a dire:
Bella e buona è la spagnuola, però l'abito non mi piace molto.
Passata poi che fu nella regina l'ammirazione della tanta bellezza la fece levare, dicendoli:
Parlatemi in ispagnolo, figliuola, che benissimo io lo intendo, anzi averò molto gusto in sentirvi ragionare di quella maniera.
Et rivoltasi a Clotaldo li disse:
Avete fatto molto male in avermi tanto tempo tenuto nascosto questo tesoro che, se l'avarizia di ciò fu cagione, ben è il dovere che come mio ora me lo rendiate.
Alla quale rispose Clotaldo:
Signora, confesso l'error mio, se pure fu errore in custodire questo tesoro fin a conveniente perfezione, perché comparisse davanti gli occhi di v. m. ed ora appunto ch'egli si è fatto quale io lo bramava pensava di perfezionarlo con il chiedere alla m. v. che Isabella fosse sposa di mio figlio Ricaredo, dandovi in questo modo in ambidue quello che di obligo mio vi si conveniva.
Al che soggiunse la regina:
E come? Infino il nome mi contenta; con altro nome non doveasi chiamare che con quello di Isabella la Spagnola, acciò che in lei non mi restasse che bramare di perfezione e di contento.
Però avvertite, o Clotaldo, ch'io so molto bene che la tenevate in vostra casa senza mia saputa, promessa in moglie a vostro figlio.
Purtroppo è vero disse allora Clotaldo, non lasciando che la regina finisse, però lo feci, confidatomi che li molti e rilevati servigi da me e da tutti quelli di mia casata fatti a questa corona cose più difficultose e di maggior importanza avrebbero ottenuto di questa, tanto più che il matrimonio ancora non è fatto.
Né si farà soggiunse la regina fin che Ricaredo con l'opere sue non se lo meriti;
voglio dire seguì la regina che i servigi da voi e da' vostri antenati fatti a questa corona punto non gli hanno a giovare ma egli stesso col proprio valore servendomi si ha da guadagnare questa gioia ch'io tanto stimo quanto mi fosse figlia.
Appena sentì quest'ultime parole Isabella che, di novo inchienocchiatasele davanti, le disse in castigliano:
Le disgrazie, serenissima signora, che con tanto guadagno si fanno, più tosto si devono dire aventure che disaventure;
e, già che v. m. mi ha per sua bontà con nome di figlia chiamata, qual male potrò temere o veramente qual bene non devo io sperare?
Diceva con tanta grazia Isabella queste parole che la regina se le affezionò di modo che ordinò restasse a' suoi servigi e comandò alla cameriera sua l'instruisse tanto nella vita quanto ne' costumi della corte.
Ricaredo, che in togliendoli Isabella se li toglieva la stessa vita, tutto ripieno di doglia, con la voce tremante, le disse:
Perch'io abbia da servire a v. m. non ritrovo sprone più potente di quello dell'onore, per il quale si sono fatti meritevoli con l'opere loro et mio padre e gli antenati miei e di mia casa, servendo a' loro regi; ma, desiderando v. m. essere da me servita con novi stimoli e pretensioni, bramo sapere in qual modo od in quale servigio potrò compire all'obligo nel quale dalla m. v. son posto.
Due navigli rispose la regina hanno da uscire in corso, de' quali ho fatto generale il barone di Lansac, e di uno di questi due io vi fo capitano, assicurandomi che la nobiltà del sangue donde discendete supplirà al mancamento de' vostr'anni.
Considerate quale sia la mercede che da me ricevete, perché, servendo alla vostra regina, avete occasione di rendervi onorato soldato e d'acquistarvi, oltre il nome, la più ricca gioia che voi stesso potiate bramare.
Sarò io stessa la custode d'Isabella, benché alla molta sua onestà sia soverchia altra custodia che di sé stessa.
Andate con Dio, che, poiché partite innamorato, gran cose mi prometto de' fatti vostri.
Felice quel re guerriero che ne' suoi esserciti avesse diecimila soldati, e tutti innamorati, il premio delle cui fatiche non fosse altro che che godessero delle loro amate.
Levatevi, Ricaredo, e vedete se alcuna cosa avete da conferire con Isabella, perché dimani deve essere la vostra partita.
Altro non disse Ricaredo, se non che baciò le mani alla regina per così alto favore e fattosi da Isabella le volle parlare ma ciò non fu possibile annodandoseli la lingua; ben parlò con gli occhi, poiché li vennero per tenerezza le lagrime, le quali volle coprire
ma non fu bastante, sì che dalla regina furno vedute, la quale conoscendo quanto si contristava di questa sua fiacchezza li disse per consolarlo:
Non vi turbate, Ricaredo, che ben so che sia prender congedo dalla cosa amata;
e voi, o Isabella, abbracciatelo e dateli la vostra benedizione, che ben lo merita il molto dolore e sentimento che di questa sì subita partenza dimostra.
Isabella, che suspesa ed attonita rimirava la molta umiltà di Ricaredo che di già come sposo amava, non ponendo mente a quanto la regina le disse, incominciò di maniera a piangere che non Isabella ma una statua d'alabastro sembrava lagrimasse;
né solo pianse Isabella, poiché anco ne' risguardanti queste tenerezze mossero similmente le lagrime. Infine, senza che potesse Ricaredo dirgli alcuna cosa o veramente che Isabella a lui potesse parlare, facendo riverenza Clotaldo e gli altri di sua compagnia alla regina si accomiatarono ripieni di rabbia e di dispetto.
Restò Isabella come orfana ch'allora appunto finisce le essequie de' genitori, tutta timorosa che la nuova signora non le facesse mutare la legge con la quale si era allevata nella sua detestata e falsa;
e Ricaredo dall'altra parte d'indi a due giorni si fece alla vela combattuto, fra molti, da due pensieri più degli altri molesti:
uno de' quali era il pensare di aver a fare cosa degna di tanto acquisto, in quella sua peregrinazione, l'altro il non potere come cattolico bruttarsi del sangue de' cristiani,
il che non facendo veniva a farsi conoscere per cattolico, in pregiudizio della sua vita e della sua pretensione;
pure determinò di preporre al gusto d'innamorato quello dell'interresse della fede che professava, pregando il cielo li mandasse occasione per la quale dimostrando il suo valore venisse insieme ad esser fedele ed a sodisfare alla regina, perché potesse meritare Isabella.
Sei giorni caminarono i due navigli con prospero vento alla volta delle Terzere, posto dove mai mancano o navi portughesi dell'Indie Orientali od altre delle Occidentali,
in capo de' quali si levò un vento tanto terribile che, vietandoli prender terra nell'isole, furno sforzati correre fino in Ispagna,
dove nello stretto di Gibilterra scopersero tre navigli, uno molto grande e forte e gli altri due piccoli.
Fecesi Ricaredo dal generale, per intendere se dovevansi investire li scoperti navigli e, mentre ciò faceva, vide porre sopra la gabbia maggiore uno stendardo negro e d'indi a poco sentì suonare le trombe, segno evidente o che il generale era morto o che qualche altra persona principale, della qual cosa maravigliato,
più aprossimandosi (quello che fatto non avevano da che uscirono d'Inghilterra), sentì chiamare:
Venga il capitano Ricaredo, poiché il generale questa notte è morto di apoplesia.
Rimase a questa inaspettata nova più che lieto il giovane, non per la morte del suo generale, quanto per vedersi libero il comandare alle due navi. Questo ordinato aveva la regina, che morendo il barone di Lansaco rimanesse al comando in suo luogo Ricaredo; finalmente montato nella nave ritrovò che alcuni piangevano il morto barone ed altri che medesimamente si rallegravano del suo generalato;
li prestarono però tutti subito ubidienza chiamandolo a viva voce capitano generale e congratulandosi seco con quelle cerimonie che li concesse la necessità dell'armi, perché due dei scoperti navigli dilungandosi dal grande loro vennero all'incontro.
Conobbero alle mezze lune ch'erano navi turchesche, onde più che lieto ne fu il novo capitano, ringraziando il cielo che li avesse parata occasione con la quale potesse dimostrare il suo valore, senza offendere alcun fedele.
Vennero avanti le due navi turchesche, affine di riconoscere quelle d'Inghilterra che, per ingannare i spagnoli in quei mari, avevano allora le insegne di Spagna; perloché crederono i turchi queste essere navi ritornate dall'Indie, onde, e per la lunghezza del viaggio et per le incommodità patite, giudicarono facile il prenderle.
S'appressarono pertanto i turchi, non movendosi dall'altra parte Ricaredo, ingegniosamente tirandoli a poco a poco a segno de' colpi della sua artiglieria, la quale fece a certo tempo scaricare con danno notabile de' nemici, poiché una di dette artiglierie, carica di cinque palle, investì una delle navi nel mezzo,
forandola di modo che il rimediarvi si conobbe infruttuoso;
il che veduto da quelli dell'altra, incominciarono con prestezza a rimorchiarla verso la grande per salvare le robbe che dentro vi erano.
Ricaredo dall'altra parte, facendo animo a' suoi, incominciò seguirlo, travagliandoli tuttavia alla gagliarda con l'artiglieria e, vedendo che i turchi volevano trasportare nella grande le robbe ch'erano nella nave forata, con prestezza vi si avicinò,
perloché spaventati i turchi confusamente per salvare la vita incominciavano a fuggire nella grande;
ed i schiavi cristiani de' quali erano armate le navi, spezzate le catenne, medesimamente co' turchi fuggivano, esponendosi alle moschettate che da' soldati di Ricaredo a' turchi erano tirate. Quasi tutti i turchi furno amazzati e quelli che di già erano entrati nella nave grande da' schiavi cristiani, che servendosi dell'occasione erano divenuti animosi, furno medesimamente amazzati, perché credendo le due navi inglese fossero di Spagna facevano maraviglie per la libertà.
Infine alcuni spagnuoli delli già cattivi, fattosi a bordo della nave, incominciarono a chiamare quelli che credevano dei loro, dicendo perché non venivano a godere il frutto della vittoria.
A' quali richiese Ricaredo in ispagnuolo che naviglio era quello e di che fosse carico
ed essi risposero che veniva dall'Indie di Portogallo carico di speziarie e di varie gioie, che ascendeva la sua valuta più d'un millione d'oro, e che con molta fatica era venuto in quella parte, rotto, senza artiglieria, essendo la maggior parte della gente morta di fame e di sete,
e che il giorno avanti, non potendo altro fare, si erano resi a quelle due navi del corsaro Arnaut Emami,
il quale, come avevano inteso, non potendo traportare tante ricchezze nelli due suoi vascelli pensava di rimorchiarlo sino al fiume Larace ch'era d'indi non molto lungi.
Ricaredo allora, accortosi dell'errore che li schiavi prendevano, li disse che se pensavano fossero li due navigli vittoriosi di Spagna erravano, poiché erano della serenissima regina d'Inghilterra, la qual cosa sentendo li spagnuoli incominciarono a temere di nova servitù;
ma Ricaredo per consolarli li disse che se non si fossero messi in diffesa tutti li averebbe liberati.
E come potiam noi risposero con le lagrime agli occhi diffendersi se, come abbiamo detto, siamo senz'armi
ned in altro potiamo sperare che nella vostra clemenza,
essendo di dovere che chi ci ha liberati dall'insopportabile servitù de' turchi medesimamente non permetta siamo di nuovo fatti prigioni, potendo di questa maniera inalzare la fama del suo valore congiunta con quella della sua misericordia che volerà per l'universo mondo.
Parvero a Ricaredo le ragioni de' spagnuoli buone et vere; e così chiamò quelli della sua nave a consiglio proponendoli in qual maniera avesse potuto inviare que' schiavi in Ispagna senza tema di sollevamento per essere tanti.
Al quale risposero alcuni che giudicavano espediente farli passare ad uno ad uno nella loro nave e poi così sottocoperta amazzarli, conducendo la gran ricchezza a Londra;
ma non parendo a lui fosse atto degno di cavaliere onorato usare tanta impietà nel colmo di tanta vittoria rispose loro di questa maniera:
Poiché è piacciuto a Dio di farci acquistare tante ricchezze non mi par il dovere li si corrisponda con animo tanto crudele ned è bene che ciò che si può fare con lo ingegno si faccia con la spada;
perloché io sono di parere che nissuno cristiano cattolico muoia, non perché i cattolici siano da me amati ma perché amo me stesso né vorrei a voi meco insieme acquistare il nome di crudele, poiché malamente si possono accompagnare il valore e la crudeltà.
Voglio pertanto che l'artiglieria tutta di una di queste navi si trasporta nella nave grande portughese e così lasciando questa sproveduta del tutto fare che i spagnuoli vi entrino lasciandoli andare alle patrie loro e noi per lo contrario sicuri condursi a Londra.
Nissuno fu ardito di contradire a Ricaredo tenendolo inanzi per magnanimo e valoroso, se bene alcuni da questa azione lo tennero per cattolico segreto.
Ciò stabilito di fare, passò il generale alla nave portughese accompagnato da cinquanta archibuggieri benissimo all'ordine,
dove ritrovò da trecento persone incirca di quelle ch'erano fuggite dalle due navi;
e, richiedendo il registro della mercanzia, risposeli quello stesso che prima lo aveva chiamato al bottino che il registro lo aveva preso Arnaut Emami allora che si impadronì della nave e con esso si era affogato;
il che inteso da Ricaredo, fece subito passare l'artiglieria d'uno dei piccioli vascelli nella nave portughese
e, dette alcune poche parole a' spagnuoli, facendoli dare quattro scudi per uno acciò smontati in terra, che lì era tanto vicina che le due montagne Abila e Calpe benissimo si vedevano, potessero rimediare in parte alle loro necessità, li fece similmente passare nel picciolo vascello, ove ritrovarono provigione a bastanza per più d'un mese e per altrettanta gente.
L'ultimo ad imbarcarsi fu quello spagnuolo che dalla nave aveva prima parlato il quale rivoltosi a Ricaredo li disse di questa maniera:
Maggior mia ventura averei io stimato, valoroso signore, il condurmi teco in Inghilterra che l'inviarmi alla patria mia, perché, se bene ella è mia patria e che solo sei giorni siano che di essa mi partii, ad ogni modo non ho da ritrovare in essa che cagione di dolore e di tristezza.
Sappi, signore, che nella perdita di Cadiz, quale successe quindici anni sono, io perdei una figlia che gli inglesi condussero in Inghilterra; ed insieme con lei io perdei il riposo e la quiete di questa mia vecchiezza, con la luce degli occhi miei, i quali da che lei più non videro già mai hanno veduto cosa che li sia d'alcuno contento.
Il dolore della sua perdita ed il mancamento delle ricchezze mi condussero a tale che più non volli né potei essercitare la mercanzia, nella quale, come tutti sapevano, io era uno de' più agiati mercanti della città,
perché oltre alle migliaia de scudi di credito ed il negozio fiorito era il mio capitale di più di cinquantamilla ducati. Perdei il tutto, come ho detto, ma di poco dolore sarebbemi stata tanta perdita se dietro le ricchezze non perdeva la figlia ch'era il solo tesoro di mia casa.
Di questa maniera vedendomi in processo di tempo in necessità, feci pensiero di passarmene all'Indie, refuggio de' poveri generosi, affine di provare altra ventura;
e così con mia moglie, che è quella che vedete assentata, mi imbarcai in un naviglio di aviso sei giorni sono, incontrando nell'uscire di Cadiz il corsaro Arnaut Emami che ci fece prigioni rinovando la passata disgrazia e confirmandosi maggiormente la mia sventura,
la quale sarebbe stata maggiore se non si fosse impadronito di questa nave portughese che lo trattenne succedendo poi quanto avete veduto.
Richieseli Ricaredo come si addimandava questa sua figlia;
e rispondendo che Isabellavenne in cognizione che non altra era che la sua sposa;
però li disse che volontieri li avrebbe condotti a Londra, ove forsi qualche sorte di alleviamento a' loro danni avrebbero rittrovato;
così li fece montare nella sua nave, ponendo guardia bastante nella portughese.
La stessa notte fecero vela dilungandosi con molta prestezza dalle riviere di Spagna, affine che la nave dov'erano li schiavi liberati e da venti turchi incirca medesimamente liberati, dando nova a qualche spagnuola di que' mari del successo della vittoria, non fossero seguiti.
Il vento, che da prima era prospero, d'indi a poco cominciò a mutarsi, incalmandosi il mare con gran timore degli inglesi, i quali dannavano Ricaredo di aver usato misericordia a que' schiavi, parendoli sempre di aver dietro le spalle qualche naviglio spagnuolo a far di loro quello che non avevano fatto essi a' loro nemici.
Ben conobbe Ricaredo ch'avevano ragione ma convincendoli con buone ragioni li fece acquietare, acquietandoli molto più il vento, il quale ritornando pacifico senza aver bisogno di amainar le vele in termine di nove giorni si videro a vista di Londra; e facendo la ressegna delle genti che mancavano, ritrovò che da trenta soldati incirca erano morti, oltre il loro generale il barone di Lansac.
Non volle Ricaredo entrar in porto con mostra di allegrezza
ma mischiando il giubilo con il dolore alle volte faceva sonare le trombe con suono lieto, al quale si rispondeva medesimamente con altre trombe con suono mesto; altre volte battevano con allegrezza i tamburri ed altre volte con mestizia davano fiato a' piffari. Dall'alto di una gabbia pendeva una bandiera al roverscio, seminata di mezze lune, e dall'altra un'altra di taffetà negro, le cui punte toccavano l'acqua.
Di questa maniera dunque entrò Ricaredo in porto, lasciando la nave portughese in alto mare per non aver nel porto fondo di che sostentarsi,
lasciando stupidi quelli che questo rimiravano,
perché, conoscendo la prima nave per quella del barone di Lansac, non sapevano poi come l'altra si fosse mutata in quel naviglio che per la sua grandezza non poteva entrare in porto;
ma ben tosto a tutti sodisfece Ricaredo, perché, saltando nello schiffo armato di tutt'armi senz'altro accompagnamento che quello di una infinità di popolo, si inviò al palaggio della regina che con desiderio grande stava aspettando la novella del felice od infelice fine de' suoi navigli.
Era seco oltre le molte dame Isabella vestita all'inglese, la quale faceva lo stesso vedere che alla castigliana;
ed intendendo, poiché fu prima rapportato alla regina chi a lei veniva, che il generale delle due navi in porto ritornato era Ricaredo e che similmente lo vide comparire, di maniera si conturbò, non sapendo se felice od infelice fosse il suo sì presto ritorno, che quasi fu per isvenire.
Era Ricaredo alto di corpo, ben proporzionato et nobile; e come ch'egli venisse tutto armato traeva a sé quanti occhi lo risguardavano;
però vi furno tali che lo paragonarono a Marte dio delle battaglie ed altri, rimirandolo in quell'abito et considerando la bellezza et delicatezza del suo volto, lo chiamarono Venere che per fare qualche burla a Marte si fosse mascherata con quelli arnesi.
Pervenne infine dalla regina ed ingienocchiatoseli avanti le disse:
Alta regina, come dalla maestà vostra mi fu comandato partirmi alla ventura in uno de' duo navigli e, morto di apoplesia il barone di Lansac, preso il generalato in sua vece, del quale fui fatto degno dalla liberalità vostra, mi parò davanti la sorte due navigli turcheschi, quali rimorchiavano quella gran nave che nel mar si vede,
ed assalitogli, combattendo i vostri soldati, valorosamente n'ottenni la vittoria.
Diedi in nome della grandezza vostra in uno de' vostri vascelli libertà alli schiavi cristiani né meco altro condussi che uno spagnuolo con sua moglie, bramosi ambidue di rimirare la grandezza della m. v.
La nave da me condotta ritornava dall'Indie di Portogallo, carica di varie mercanzie, che ascende, per quanto mi hanno detto, al valore di più d'un millione;
né di tutte queste ricchezze per me ho tolto cosa alcuna accontentandomi solo di quella gioia che la m. v. ha in suo potere e che mi conserva, quale è la mia cara ed amata Isabella che dalla incomparabile bontà e cortesia vostra, come spero, concessami farà ch'io viva il più felice uomo del mondo;
né già mi fa ardito questo poco di servigio fatto alla m. v. a chiederli questa gioia ma sì bene li molti ch'io spero di farle.
Più voleva dire, quando che la regina interrompendolo li disse:
Levatevi, Ricaredo, e credito che se con prezzo si avesse da comprare questa gioia, non le ricchezze della nave, anzi non quelle dell'India tutta sarebbero bastanti a comprarla;
ma io ve la do, perché ve la promissi e perché veggio ch'ella è degna di voi, come voi sete di lei.
Il vostro valore la merita;
ed è di dovere che, se voi avete conservate le tante gioie della nave per me, ch'io pure abbia conservata questa di mia casa per voi; e, benché poco paia il darvi quello ch'era già vostro, pure io so di far molto bene, perché quelle cose che si comprano co' desiri, e nell'anima tiene il compratore la stima della valuta, quello apunto vagliono che vale un'anima, quale non ha prezzo in terra.
Isabella è vostra, vedetela qui presente; quando che a voi piaccia potete prenderne il possesso e credo con suo gusto per esser lei prudente, che ben saprà ponderare di che utile li sia l'apparentarsi con voi.
Andate a riposare e domattina venite a visitarmi, poiché voglio più diffusamente mi narrate il successo della vostra vittoria; e conducetemi quelli due spagnuoli che detto avete, perché, com'è il dovere, voglio agradirli di tanto lor desio.
Le baciò Ricaredo le mani, per tanto favore,
e la regina entrò in un suo appartamento, lasciando le sue dame d'intorno a lui dicendo quale una cosa e quale un'altra. Una fra l'altre divenuta molto famigliare d'Isabella, chiamata Tansi, ardita, graziosa e prudente li disse:
Che è questo, signor Ricaredo, che venite di questa maniera armato? Pensavate di aver a combattere co' vostri nemici? Tutte noi in verità vi siamo amiche se non è forsi la signora Isabella che, come spagnuola, è obligata a non amarvi molto.
Mi ami la signora Tansi rispose Ricaredo e faccia con la sua prudenza che medesimamente la signora Isabella faccia lo stesso, ricordandole il mio amore et rappresentandole quanto male si convengono bellezza ed ingratitudine.
Signor Ricaredo disse allora Isabella,
dovendo io esser vostra a voi sta il prendere di me quella sodisfazione che più vi piace, in ricompensa della lode che data mi avete e del beneficio che pensate farmi.
Queste e simili parole passò Ricaredo con la sua sposa e con l'altre dame, fra le quali una fanciulla di poca età in questo tempo mai fece altro che rimirarlo.
Alzavali le scarselle dell'armatura, per vedere sotto che cosa vi aveva, toccavali la spada e con simplicità fanciullesca voleva che l'armi le servissero di specchio, appressandosi molto per affissarvisi;
ed andato ch'egli si fu, rivoltasi alle dame, disse:
Per certo, signore, ch'io m'imagino che la guerra deve essere cosa bellissima, poiché anco fra le donne compariscono sì bene gli uomini armati.
E come se compariscono bene disse la signora Tansi; guardate Ricaredo che pare giusto il sole disceso in terra e che così armato vadi caminando per le strade.
Risero tutte tanto per la simplicità della fanciulla, quanto per la spropositata comparazione di Tansi. Non vi mancò però chi non osasse di tacciare quel modo di comparire armato di Ricaredo, attribuendolo a soverchia ambizione, benché degli altri, come che egli era soldato, dissero che poteva farlo d'avantaggio.
Andò poi Ricaredo alla sua casa, dove fu ricevuto da' suoi genitori e parenti con mostra di straordinaria allegrezza;
e quella notte si fecero per Londra molte feste per allegrezza del suo felice ritorno.
Condusse poi il giorno seguente conforme li aveva ordinato la regina il padre e la madre d'Isabella che in sua casa aveva, però senza che sapessero cosa alcuna della lor figliuola, a palazzo;
e pervenuti dalla regina, che per favorire Ricaredo teneva a lato Isabella vestita delli stessi panni che aveva quando fu condotta in corte,
rimasero stupidi di tanta grandezza.
Mirarono la loro figliuola ma non la conobbero, avegna che il cuore presago della vicinanza del bene li palpitasse nel petto.
A Ricaredo che inginocchiato si stava fu commandato dalla regina che si levasse, facendolo anzi assentare in una sedia a questo effetto apparecchiata, inusitato favore per certo risguardando alla grandezza e maestà della regina;
però vi fu chi osò di dire per taccia:
Non si assenta Ricaredo sopra la sedia ma sì bene sopra il pepe ch'egli ha portato.
Ed altro:
Ben è vero che i doni spezzano i sassi, poiché li portati da Ricaredo hanno fatto molle il duro cuore della nostra regina.
Ed altro ancora:
Adesso ch'egli è sì bene assentato più di due li daran noia.
In effetto da questo favore fatto dalla regina al suo generale prese l'invidia occasione di fabbricarsi albergo in più di un cuore, non essendovi mercede che il prencipe faccia ad un suo privato che non sia una lancia che ferisca il cuore all'invidioso.
Volle poi la regina che di nuovo le raccontasse minutamente come aveva ottennuta la vittoria,
il che fec'egli con sommo gusto di lei e di quanti l'ascoltavano, attribuendo ogni cosa alla maestà di Dio ed al valore de' suoi soldati segnalandone alcuni che furno da lei premiati; e, quando pervenne a dire come in suo nome aveva dato la libertà a' turchi ed a' cristiani, dimostrando il padre e la madre d'Isabella disse:
Questi sono, serenissima signora, quelli due che ieri dissi bramavano tanto di vedere la grandezza di questa corte:
sono di Cadiz e, per quanto m'han detto, sono de' primi di detta città.
Commandò la regina si appressassero,
alzando a questo gli occhi Isabella, vaga di saper da loro se avevano conoscenza de' suoi genitori;
e così come la giovane risguardò li due, così la madre sua pose gli occhi adosso di lei, destando in Isabella una memoria confusa di aver altra volta veduto quella donna che allora vedeva.
Ne la stessa confusione era suo padre,
osservando in questo mentre Ricaredo i diversi effetti loro.
La regina, vedendo la confusione delli due ed insieme l'inquietezza d'Isabella, che ad ogni tratto trasudando ed arossindo si poneva la mano in testa a comporsi i capelli,
le disse che in ispagnuolo li richiedesse per qual cagione, sprezzando essi la libertà, che è la più cara cosa in questa vita, fossero inanzi venuti in quella corte.
Fece Isabella quanto le comandò la regina; e sua madre, senza risponderle cosa alcuna, non risguardando al luogo od alla presenza della regina, pose la mano all'orecchia destra d'Isabella e vi ritrovò un picciolo neo negro,
perloché, assicuratasi ch'era quella la lor figliuola, abbracciandola incominciò gridare:
O figlia mia, o pegno dell'anima mia!
E senza più passare avanti lasciò cadersi svenuta nelle sue braccia.
Il padre non men tennero che prudente volle dar mostra di sentire tanta allegrezza, non con altro che con il spargere abbondantissime lagrime che li bagnarono il venerabile volto;
ed Isabella vedendosi avanti li tanto da lei pianti e sospirati genitori ben dimostrò qual fosse il suo contento.
La regina, stupida di questo, rivoltasi a Ricaredo li disse:
Ben io credo che con vostra prudenza questo sia succeduto, poiché ben sappiamo noi che tanto amazza una subita allegrezza, quanto una subita tristezza.
E fattasi da Isabella la fece disgiungere da sua madre, la quale avendole gettata acqua nel volto era ritornata in sé stessa e, ingienocchiata davanti la regina, le disse:
Perdoni v. m. al poco mio rispetto, non essendo molto il perdere i sensi in ritrovare una cosa che sia tanto amata e desiderata.
Risposele la regina ch'aveva ragione; ed ordinò si rimanessero in corte, perché più avessero commodità di parlare quando volevano alla lor figliuola;
della qual cosa si rallegrò in infinito Ricaredo, supplicando di nuovo la regina li concedesse quello che di già li aveva promesso, se pur era che meritato avesse Isabella e, caso che no, medesimamente la supplicava impiegarlo in altra impresa, perché potesse meritarla.
Al quale rispose la regina che fra quattro giorni lo averebbe consolato, facendo ad ambidue quell'onore che per lei fosse stato possibile.
Lietissimo Ricaredo si accomiatò dalla regina, sicuro che Isabella non d'altri esser doveva che sua.
Passò il tempo, non però con quella prestezza ch'egli avrebbe voluto, perché chi vive in speranza le ore li paiono secoli;
e venuto il destinato giorno delle nozze,
mentr'egli pensava di condurre in porto la nave de' suoi desiri guidata fin allora con prospero vento, la contraria fortuna di maniera li turbò il mare che più volte fu per annegarvisi.
La cagione fu che la cameriera maggiore della regina sotto la cui custodia vivea Isabella un figlio aveva di età d'anni ventidue chiamato il conte Ernesto,
quale per la grandezza del suo stato, per la nobiltà del sangue e per li continovi favori che sua madre riceveva dalla regina era sovramodo arrogante ed ardito.
Questo tale adunque s'innamorò d'Isabella, in maniera che per altr'occhi non vedeva che per quelli di lei; ed avegna che più volte, mentre Ricaredo era absente dalla corte, avesse tentato di scoprirle questo suo amore, ad ogni modo dalla giovane già mai li fu corrisposto in nissuna maniera;
e se bene la repugnanza e li sdegni sogliono d'ordinario far desistere gl'innamorati dall'imprese che tentano, ad ogni modo in Ernesto fecero il contrario, perché con lo vedersi sprezzare e con il considerare ch'altro le fosse destinato marito, si accese di maniera ch'era tutto foco.
Considerando quanto breve fosse il termine che doveva condurre Ricaredo a farsi felice possessore d'Isabella, fu per disperarsi ma, pensando meglio quanto fosse pusillannimità lasciarsi morire senza prima aver tentato qualche rimedio al suo male, si ritenne e così parlò a sua madre:
O voi farete di modo ch'Isabella mi divegna moglie, overo mi prepararete il funerale, facendovi sapere che senza lei ch'è la mia vita io sono più che sicuro della mia morte.
Stupida rimase a queste parole la cameriera e come quella che pur troppo conosceva la precipitosa determinazione di suo figliuolo pronosticò a questo amore infelicissimo fine;
ad ogni modo come madre, il cui naturale è di procurare il bene e la contentezza de' figliuoli, promise di parlare alla regina, non già ch'ella avesse speranza di farle rompere la data parola ma per non lasciare intentata questa via di accontentare il figliuolo.
Era d'ordine della regina in questo mentre apparecchiato quanto era di necessità per rendere solenne e magnifico questo sponsalizio; ed Isabella in maniera era vestita ch'altro più non potevasi bramare, avendole la stessa regina per più renderla ornata posto al collo una filza di perle di quelle della nave, stimata di valore di ventimilla scudi, e donatole un anello con un diamante di valuta di seimilla; e le dame tutte con desiderio grandissimo stavano aspettando si effettuassero le nozze per godere delle molte feste che far si dovevano quando, entrando la cameriera dalla regina ed inginocchiatasele avanti, la pregò che per due altri giorni prolungasse lo sponsalizio d'Isabella, aggiungendo che, se ciò dalla maestà sua poteva ottenere, si sarebbe a ragione tenuta per la più aventurata donna del mondo.
Volle la regina sapere perché con tanta instanza le chiedeva questo
ma già mai le fu dalla cameriera data risposta alcuna, finché bramando pur troppo la regina di saperlo non le premise di prolungarle,
che poi punto per punto le raccontò le parole di Ernesto suo figliuolo, l'amore che portava ad Isabella ed il desio ch'aveva di prenderla in moglie,
e che, se chiesta le aveva la prolungazione per due giorni delle nozze, non era ad altro fine che per aver tempo di pensare al rimedio, acciò che suo figliuolo, da soverchia doglia spronato, o non si dasse in preda alla disperazione o comettesse qualch'atto indecente alla sua qualità e scandaloso.
Rispose la regina che, se la reale sua parola non fosse ita di mezzo, che a sì intricato laberinto facilmente avrebbe ritrovata l'uscita, però ch'ella non sarebbe mai per rompere e defraudare le speranze di Ricaredo, al quale tanto si conosceva obligata.
Questa risposta della regina diede la cameriera a suo figliuolo, il quale, tutto ardendo di rabbia, armato di tutt'armi e montato un ferocissimo cavallo, senz'altro dire si fece alla porta di Clotaldo, chiamando ad alta voce Ricaredo, il quale come sposo vestito di bellissimi panni era in punto per andare a palazzo.
Fu detto a Ricaredo che il conte Ernesto lo chiamava e del modo con che lo chiamava, onde, fattosi alla finestra, richieseli che da lui volesse. Ernesto allora con voce alterata e tutto orgoglioso così prese a dirli:
La regina mia signora ti ha inviato ne' suoi servigi, affine che facendo opera degna venissi ad acquistare la senza pari Isabella.
Andasti e ritornasti carico d'oro, con quello pensando di averla comprata
e, se bene la regina mia signora te l'ha promessa, ciò ha proceduto pensando lei che in sua corte non sia altro che meglio di te l'abbia servita o sia per servirla, guadagnando di questa maniera Isabella; onde mi fa a credere ch'ella si sia ingannata,
perché, pensando io a questo, dico che né tu hai fatto cosa tale che ti renda degno d'Isabella né già mai sei per farne onde ti inalzi a meritare una tanta gioia; e se questo vuoi contradire per sostenerti il contrario io ti sfido a morte.
Tacque ciò detto il conte e di questa maniera li rispose Ricaredo:
Purtroppo confesso esser vero, sig. conte, che né io merito Isabella ned altri in questo mondo per le sue rare qualità la merita,
di modo che in nissuna maniera io dovrei accettare questa disfida, pure, per la prosunzione ch'avete dimostrata in venire alla mia casa tanto fuori di proposito a sfidarmi, io l'accetto.
E ciò dicendo, levatosi dalla finestra, richiese li fossero portate l'armi.
Vi fu che in questo mentre rapportò alla regina la disfida del conte Ernesto, perloché lei commandò subito al capitano della sua guardia facesse prigione il conte.
Così affrettandosi il capitano per essequire l'ordine della regina, pervenne alla casa di Clotaldo, in tempo che Ricaredo, armato delle stesse armi con le quali era smontato della nave, sopra un bellissimo cavallo usciva in istrada.
Ernesto pertanto, vedendo sovragiungerli il capitano ed imaginandosi a che veniva, pensò di non lasciarsi prendere, onde rivolto a Ricaredo li disse:
Vedi quale impedimento ci è sopragiunto, perloché mi è necessario partirmi;
pure se brami castigarmi dell'offesa che da me pretendi aver ricevuta seguimi, poiché io non lascierò di seguitarti in ogni luogo.
Al quale disse Ricaredo in risposta che ciò avrebbe fatto.
Fu pertanto sovragiunto il conte dal capitano della regina, il quale li disse che d'ordine di s. m. egli era prigione.
Non seppe che farsi il conte, però solo rispose che volontieri egli veniva prigione, pure che non in altro luogo prima lo conducesse che alla presenza della regina;
il che fece il capitano, avendo in questo mentre la cameriera sua madre informata la regina del molto amore ch'egli portava ad Isabella, per il quale più tosto si rendeva degno di scusa se qualche leggierezza cometteva che di castigo.
Ordinò pertanto la regina senza ascoltarlo che fosse condotto prigione in una torre,
non senza disgusto de' genitori d'Isabella che di già il tutto avevano inteso, vedendo di questa maniera con quanta facilità se li turbava il mare nel quale con l'aver ritrovata la loro figliuola speravano in breve entrare in porto del riposo e della quiete.
Consigliò la regina la cameriera, affine che dal suo regno levasse l'inimicizie private, d'inviare in Ispagna Isabella, aggiungendo che essendo cattolica molto più doveva farlo, perché non fosse cagione, comportandola, d'intorbidare le conscienze de' suoi popoli, e che essendo tanto ostinata quant'ella era, poiché più volte avendola essortata a rinunciare alla fede cattolica, pure ella mai vi aveva assentito, dava più che certo indizio di danno circa la religione ne' suoi stati.
Alla quale rispose la regina che anzi per questa sua fermezza di fede molto più l'amava ned in nessuna maniera mandandola in Ispagna voleva privarsi di tanta gioia quant'era Isabella, pensando anzi di far contento di queste nozze il giorno seguente Ricaredo, osservandoli quella parola che già una volta gli aveva data.
Tutta sconsolata la cameriera da queste parole della regina previde la total rovina del conte suo figliuolo; però, pensando che se Isabella viveva con Ricaredo già mai in pace goduto avrebbe Ernesto, diede opera alla maggior scelerità che in mente umana già mai potesse cadere;
et come che il proprio delle donne sia nelle loro determinazioni l'esser precipitose ed inconsiderate, così ella s'accinse ad uccidere Isabella. Diedele pertanto a mangiare certe paste, sotto pretesto che fossero buone all'ansia del cuore che ella pativa
né passò molto che, gonfiandosele la gola e la lingua e divenendole nere le labra e roca la voce ed insieme stringendolesi il petto, diede certi segnali di aver mangiato veneno;
fu dalle dame subito avisata la regina,
la quale correndo a vederla ritrovò ch'ella era in punto per spirare l'anima.
Mandò subito per i suoi medici ed intanto fece ch'ella bevesse quantità di polve d'unicorno, con altri antidoti, de' quali i prencipi grandi sempre stanno proveduti.
Richiesero i medici alla cameriera con qual sorte di veneno l'aveva attosicata ed ella, non potendo far altrimente, alla presenza della regina confessò il tutto; la quale per castigarla come meritava tanto eccesso la fece rinchiudere in una parte del palazzo, avegna che ella si scusasse di questo errore con dire che in amazzando Isabella levava le risse da sua casa e faceva sacrificio a Dio, levando una marcia cattolica. Inteso adunque da' medici la qualità del veleno li fu subito applicato opportuno rimedio, di modo che Isabella ritornò da morte a vita o per meglio dire rimase con speranza di vita.
Questo fatto intesosi da Ricaredo lo pose a termine di perdere il senno, non facendo altro che piangere e lamentarsi;
per che, risanata che fu Isabella, ancorché tutta difforme fosse restata, non avendo capelli in testa, palpebre agli occhi, il volto gonfio, la pelle rilevata, tutta scolorita e gli occhi lagrimosi,
di modo che a maggior sua sventura quelli che la conoscevano stimavano l'esser di quella maniera restata in vita,
pure andò dalla regina supplicandola si degnasse lasciarle condurre la sua da lei promessa sposa in sua casa, amando meglio Isabella di quella maniera priva di bellezza ch'altra qualsivoglia donzella del mondo; dicendo di più che, avegna che le bellezze dal suo volto fossero svanite, ad ogni modo egli sapeva che le virtù dell'animo pure vi erano rimaste.
Al quale così rispose la regina:
Conducetela pur con voi, Ricaredo, e fate conto di condur vosco una ricchissima gioia rinchiusa in una cassa rozzamente fatta.
Il cielo sa s'io bramava darlavi nella maniera che a me la lasciaste ma, poiché ciò mi è tolto di fare, il castigo ch'io darò alla malefatrice mia cameriera sodisfarà in parte al desio della vendetta.
Al che disse Ricaredo che le cose dette dalla cameriera erano bastante discolpa di tanto errore, aggiungendo molte altre parole in questo particolare, affine che la regina le perdonasse.
Condussela pertanto Ricaredo alla sua casa,
donandole prima che si partisse la regina oltre il diamante e la filza di perle molte altre gioie, per le quali ben dimostrò quanto fosse l'amore che le portava. Due mesi perseverò in questa bruttezza senza segnale alcuno di risanarsi, però passato questo poco tempo incominciò a pelarsi ed a comparirle il colore nel volto;
pure in questo mentre, parendo a' genitori di Ricaredo impossibile la di lei salute, mandarono per la donzella scozzese, affine di effettuare con lei quel matrimonio che non potevano con Isabella, non dubitando essi punto che la molta bellezza della scozzese, paragonata alla tanta bruttezza d'Isabella, non avesse avuto forza, scacciandoli dal petto il vecchio amore, di destarli nove fiamme, in maniera che senza farli più refflessione l'avesse tolta in moglie, pensando ancora d'inviare in Ispagna co' suoi genitori Isabella, donandoli tante ricchezze che in parte smenticar li facessero la perdita avuta in Inghilterra.
Era questo senza saputa di Ricaredo dimodoché in manco di un mese e mezzo si ritrovò all'improviso la novella sposa in casa,
la cui venuta temendo egli non fosse per levare di vita Isabella, le andò al letto, essendovi presenti li di lei genitori, e le parlò di questa maniera:
Isabella, anima mia, devi sapere che mio padre, non sapendo quale e quanto sia l'amore ch'io ti porto, ha fatto venire in nostra casa una donzella scozzese, con la quale prima che da me fosse conosciuto il tuo valore e la tua bellezza fosse veduta avevano trattato di apparentarmi,
imaginandosi che la novella bellezza da loro in questa donzella offertami alla vista sia bastante a scancellarmi la tua che quasi in diamante mi sta scolpita nell'anima.
Io, Isabella mia, dall'ora che incominciai ad amarti d'altr'amore m'accesi che di sensualità; voglio dire che se la corporale tua bellezza mi legò i sensi le tue infinite virtù m'imprigionarono l'anima, dimodoché se bella t'amai brutta t'adoro; che ciò sia vero, dammi la mano
il che fec'ella seguendo lui;
per quella fede cattolica che da' miei genitori mi fu insegnata, la quale se non è di quella interezza che si richiede, per quella giuro che professa il sommo pontefice romano vicario di Cristo in terra e per lo stesso dio che ci ascolta, ti prometto, Isabella anima mia, di esser tuo sposo ed io sono da qui avanti se pur è che non sdegni di sollevarmi a tanto bene.
Stupida rimase Isabella a queste parole né seppe che risponderli, come anco lo restarono li suoi genitori;
pure, baciandoli infinite volte le mani, a fatica puoté dirli con voce fioca ed accompagnata da un'infinità di sospiri che si accontentava del suo volere e che non per isposa ma si concedeva per ischiava.
Bacciolla Ricaredo nel volto ancorché brutto, quello che bello osato non avea di fare,
conchiudendosi fra loro il matrimonio che fu solennizato con un'infinità di lagrime da' suoi genitori.
L'assicurò che lo sponsalizio con la scozzese non avrebbe avuto effetto alcuno, essortandola per lo contrario,
caso che suo padre avesse voluto mandarla in Ispagna, ad andarvi aspettando per due anni la sua venuta in Cadiz od in Siviglia, dove più avesse voluto, in capo de' quali, se il cielo tanto li avesse dato di vita, avrebbe con l'opere effettuato quello che allora prometteva con parole.
Al quale rispose lei che non solo due anni ma che sempre lo avrebbe aspettato, né prima avrebbe tralasciato di aspettarlo che la morte a lei tolta non avesse la vita.
Con questo concerto si dipartirono lagrimando e li due amanti e li genitori di lei per allegrezza.
Andò poi Ricaredo da suo padre e li disse che prima di dar la mano alla sua sposa scozzese aveva pensato di andare a Roma per assicurarsi della conscienza, aggiungendo tante e tali ragioni che né suo padre né li genitori di Cristierna (tale dicevasi la scozzese) furno bastanti a disuaderglielo, anzi, che essendo anch'essi cattolici, facilmente li acconsentirono, accontentandosi che la loro figlia restasse in sua casa presso li suoceri fino al suo ritorno che fra un anno diceva lui sarebbe stato.
Disse poi Clotaldo a Ricaredo qualmente aveva pensato d'inviare in Ispagna Isabella se la regina data li avesse licenza di farlo, allegando che forsi l'aria della patria sarebbe stato bastante a farle ritornare la perduta sanità,
al quale per non dar di sé sospetto Ricaredo freddamente rispose che a lui lasciava fare quanto voleva,
che ben lo pregava a non levarli cosa alcuna delle tante donatele dalla regina;
il che promise Clotaldo e lo stesso giorno andò a palazzo tanto per chiedere licenza del novo parentato, quanto per ottennerla d'inviare Isabella in Ispagna.
Del tutto si accontentò la regina
condennando la mala cameriera in diecimilla scudi, quali avessero da servire per il viaggio d'Isabella, né che più servisse in corte ed il conte Ernesto suo figliuolo in sei anni d'essiglio dal suo regno.
Fece ancora venire un tal mercante francese che in Ispagna aveva corrispondenza e li fece contare i sudetti danari, affine che in Siviglia glieli facesse pagare, ed accordò una nave fiamenga, perché la conducesse sicurmente in qualche luogo di Spagna.
Il seguente giorno dunque venne Isabella accompagnata da' suoi genitori a dispedirsi dalla regina, la quale li fece dono di molt'altre cose; e ringraziandola Isabella in maniera se la rese affezionata che nulla più.
Si dispedì ancora dalle dame, le quali, come ch'ella fosse brutta e di questa maniera cessata la cagione dell'invidia, non avrebbero voluto la sua partenza; ed essendo ogni cosa all'ordine per il viaggio
abbracciò la regina tutti tre, raccommandandoli sovr'ogni cosa l'avisasse tanto del felice arrivo in Ispagna, quanto della ricuperata sanità che a Dio piacesse di darle subito. Così, venuto il padrone della nave, li furno dalla regina consignati e lo stesso giorno sul tardi diede le vele al vento, piangendo Clotaldo e la signora Caterina,
e Ricaredo per non dar segno di tenerezza non volle esser presente a questa partenza, uscendo quel giorno fuori a caccia con alcuni compagni.
I doni che la signora Caterina fece ad Isabella furno molti, li abbracciamenti infiniti, le lagrime in abbondanza ed i raccordi perché le scrivesse senza numero, corrispondendo al tutto le grazie che le rese Isabella, dimodoché si tenne più che sodisfatta.
Dando poi, come abbiam detto, le vele al vento alla volta di Spagna in termine di trenta giorni furno a Cadiz, dove, smontati
e da tutti riconosciuti, non si può dire con quanta allegrezza fossero ricevuti, congratulandosi ciascuno a gara seco, tanto della ricuperazione della figlia, quanto dell'ottenuta libertà de' turchi per opera di Ricaredo, che ben sapevano il tutto, e dell'esser usciti dalle mani degli inglesi. Poco più d'un mese stettero in Cadiz riposandosi, dando segnali Isabella in questo mentre di racquistare le perdute bellezze, con sommo contento de' suoi genitori che per altr'occhi non vedevano che per quelli di lei,
partendosi alla fine per Siviglia, affine di riscuotere li diecimilla scudi. Ritrovarono il banchiere quale per allora non pagò li contanti, dicendo che, prima di avere lettera di aviso, ciò non poteva fare, la quale poi fra pochi giorni venne e li contò i danari.
Prese pertanto il padre d'Isabella una casa a pigione in Siviglia riscontro al monastero di Santa Paola, nel quale era una cugina di detta Isabella la miglior cantatrice del mondo, dimodoché tanto per esser vicini a' parenti, quanto perché aveva detto Isabella a Ricaredo che in Siviglia lo avrebbe aspettato, con i contrasegni del detto monastero vi si fermarono
e con li sudetti diecimilla scudi e con altri cavati d'alcune gioie che venderono ritornò il padre d'Isabella ad essercitare la sua mercatanzia con incredibile stupore di quelli che sapevano la sua perdita,
riscuotendo in breve tempo molti crediti ch'aveva ed Isabella racquistando le perdute bellezze, di maniera che, parlandosi di beltade, alla spagnuola inglesa (così li dicevano tutti) era concessa la palma della maggior bellezza di quella città.
Scrisse poi Isabella alla regina novelle del suo felice arrivo in Ispagna e della riscossa de' dinari e d'altre varie cose;
lo stesso fece a Clotaldo ed alla signora Caterina chiamandoli col nome di genitori suoi.
Dalla regina non ebbe risposta, da Clotaldo sì, avisandola in quella qualmente Ricaredo il seguente giorno doppo la di lei partita s'era medesimamente partito per Francia, dovendo andare a Roma per discarico di sua conscienza;
perloché s'imaginò Isabella non per altro essersi partito d'Inghilterra Ricaredo che per venire a ritrovarla in Ispagna, dimodoché vivea la più contenta donna del mondo, procurando sovr'ogni cosa che prima le pervenisse all'orecchio in arrivando la fama delle sue virtù che della sua casa.
Poche o nissuna volta usciva di casa, se non andava al monastero, non si curando d'acquistare altr'indulgenze che quelle della sua chiesa.
Già mai visitò il rio né passò a Triana né volle vedere le tante feste che il giorno di San Sebastiano si fano in piazza ed alla porta detta di Xerez, ove suole radunarsi tanta gente che appena vi può capire.
Finalmente essa non vide in Siviglia cosa alcuna di gusto, stando sempre ritirata in sua casa intenta all'orazioni e ad aspettare Ricaredo.
Questa sua tanta ritiratezza ed onestà aveva acceso non solamente tutti i zerbinetti della strada ma quanti una volta veduta l'avevano; e da questo s'incominciarono le serenate di notte e li passeggiamenti di giorno
e da questo crebbero molto le saccocchie dell'ambasciatrici, per non dir ruffiane, promettendo a tutti di fare sì che ella si lasciasse vedere né fosse tanto ritirata e continente;
né vi mancò di quelle che non la tentassero con fattucchierie, che infine non sono altro che inganni e sciempiezze,
restando sempre Isabella come scoglio nell'onde, aspettando non altro né ad altro pensando che al suo amato sposo.
Un anno e mezzo del termine prefissole era passato e la speranza maggiormente incominciava a travagliarle il cuore,
perché parevale che il suo sposo fosse venuto, che lo avesse davanti gli occhi, che lo interrogasse quali impedimenti tanto l'avessero trattenuto. Poi parevale ch'ascoltasse le di lei scuse, che le admettesse per buone, che lo abbracciasse e che nel mezzo dell'anima sua li dasse albergo. Stando tuttavia in queste considerazioni un giorno le fu recata una lettera di Londra scritta già cinquanta giorni:
era fatta in lingua inglese, però leggendola in ispagnuolo vide che così diceva:
Figlia dell'anima mia, ben conosci Guilarte il paggio di mio figlio;questi andò seco nel viaggio che nell'altra mia ti scrissi.Ora in capo di sedici mesi da che si partirono ieri entrò in nostra casa recandoci novelle che il conte Ernesto aveva amazzato Ricaredo in Francia a tradimento. Considera, figlia mia, a questa improvisa novella quali restassimo, poiché quasi venimmo a termine di disperarsi.Quello che Clotaldo ed io ti preghiamo è che nelle tue orazioni prieghi per l'anima di Ricaredo, che Dio l'abbia in cielo, poiché ben merita questo ufficio da te colui che in vita cotanto ti portò amore.Potrai anco insieme pregare nostro signore che a noi dia tanta pazienza che possiamo soffrire tanto infortunio, che noi pure per lo contrario lo pregheremo che dia a te ed a' tuoi genitori lunghissima vita.
Per la lettera e per il sigillo non mancò ad Isabella che credere la morte del suo sposo.
Conosceva Guilarte e sapeva che la signora Caterina non avrebbe finta la morte di suo figlio, non importandole molto il darle così triste novelle.
Finalmente nissun pensiero, nissuna considerazione fu bastante a farle credere il contrario;
pure con animo costante, letta ch'ebbe la lettera, senza sparger lagrime, si levò di donde era ed entrata in un suo oratorio e ginocchiatasi davanti un crocifisso si votò di farsi monaca.
Fece palese questo pensiero alli genitori, quali, invece di consolare la figlia, erano consolati da lei, ed essi glielo dissuasero almen fin tanto che affatto fossero passati li due anni del termine,
che così fece dispensando in questo mentre il tempo con essercizi religiosi ed in concertare le cose opportune per l'entrata sua nel monastero, quale aveva eletto quello di Santa Paola, ov'era la cugina cantatrice.
Venne finalmente il destinato giorno ch'ella doveva farsi monaca e, spargendosi di questo la nova per tutta la città, il concorso delle genti fu tanto grande che non poteva esser più.
Volle lo stesso governatore della città esservi presente, il vicario generale della chiesa, quello dell'arcivescovo, con tutte le signore e signori titolati della città tanto era il desio di vedere il sole della bellezza d'Isabella che tanti mesi nella casa sua propria era stato ecclissato.
Et come che l'ordinario delle donzelle nel farsi monache sia il comparire più pompose che sia possibile, essendo quello l'ultimo della lor bizzaria, così volle fare Isabella
vestendosi quel sì stupendo vestito ch'abbiamo detto allora che comparve dalla regina.
Vennero alla luce le perle, il famoso diamante ed il restante delle gioie di tanto valore.
Con questi adornamenti e con la sua dispostezza, dando a tutti occasione di lodar in essa Iddio uscì Isabella della sua casa a piedi, che per esser il monastero tanto vicino iscusò l'adoperare cocchi e carozze.
Il concorso delle genti, come abbiamo detto, fu grande,
fra' quali alcuni benedicevano li genitori che avessero prodotta al mondo cosa sì rara ed altri lodando il cielo che di tanta bellezza l'avesse dotata. Molti si rizzavano in punta di piedi per vederla ed altri, che di già veduta l'avevano, correvano avanti per vederla di novo; però fra quelli che per vederla correvano uno vestito da schiavo liberato da' turchi con una Trinità nel petto, segnale che sono stati riscattati con l'elemosina della confraternità detta della Redenzione, con maggior furia calpestando questo e quello si fece inanti
e, mentre che Isabella aveva di già posto un piede nella porta del monastero e la priora, com'usano di fare, con l'altre monache con la croce le erano venute incontro per riceverla, a gran voci incominciò gridare:
Fermati, Isabella, fermati, che mentre io sono in vita non puoi farti religiosa.
A questa voce si rivolse Isabella, ed insieme li suoi genitori, e viddero questo tale riscattato venire con gran fretta alla volta loro, il quale, sendoli caduto un berettino azuro tondo che in capo aveva, scoperse una chioma d'oro ed un volto tanto bello che pareva d'angelo.
Pervenuto infine con molta fatica da Isabella e presala per la mano le disse:
Isabella, non conosci tu Ricaredo tuo sposo?
Sì pur ch'io ti conosco rispose Isabella, se a sorte non sei fantasma venuta a turbare il mio riposo.
Ah ch'io non sono fantasma replicò Ricaredo, Isabella mia cara, mira che quest'abito non t'inganni, poiché in effetto io sono quello al quale già desti la parola di esserli moglie e sono doppo vari infortuni venuto, perché me l'abbi da mantenere; ben ti supplico a far sì che la bassezza dello stato nel quale io sono non sia bastante a potere in te negarmi quel bene che doppo il cielo non altro più bramo in questo mondo.
Isabella, non sapendo per sì improvisa venuta che risponderli, per un poco si tacque, pure, molto più credendo agli occhi propri che alla lettera scrittale da Londra, scacciò la prima impressione ch'egli fosse morto ed abbracciandolo strettamente li disse:
Voi senza dubbio, signor mio, sete l'anima mia, poiché sete il mio sì diletto ed amato sposo. Stampato vi ho nella memoria et conservato nell'anima.
Le novelle della vostra morte, che non mi levarono la vita, mi levarono il pensiero di più vivere al secolo ed in questo punto io entrava a vivere religiosa;
ma, poiché Dio con così giusto impedimento mi vieta il farlo, non voglio né voler devo per mia parte impedirlo.
Venite, sign. mio, alla casa di mio padre, ch'è vostra, che colà mi vi concederò con quei termini che comanda la nostra santa fede cattolica.
Rimase il governatore e li circonstanti stupidi di questo fatto; e, richiedendo come questo si fosse et che straniero fosse quello,
rispose il padre d'Isabella che et altro luogo et altro tempo richiedevasi per simile racconto;
pur, che se di ciò godeva, ed esso e gli altri potevano venire in sua casa che tanto era vicina, ove avrebbero sentito cosa di grandissimo stupore e maraviglia.
In questo uno de' circonstanti alzò la voce e disse:
Signori, questo è un gran corsaro inglese et è quello che due anni sono tolse a' turchi quella nave di Portogallo che veniva dall'Indie.
Io lo conosco molto bene, perché ed a me ed a molti altri diede la libertà ed insieme danari per ritornarsi alla patria.
A queste parole maggiormente s'accese il desio ne' circonstanti di sapere qual uscita aver dovesse così intricato laberinto;
però il governatore, li due vicari ed i principali della città accompagnarono Isabella a casa, lasciando le monache dolenti et triste, ov'altri contento n'avevano di questo fatto. Assentatisi poi tutti in una gran sala,
era per dar principio Ricaredo a raccontare li suoi avvenimenti, quando che, non fidandosi della lingua, poiché in ispagnolo non aveva troppo esperta la favella, ne lasciò la cura ad Isabella,
la quale con molta grazia diede principio a ragionare, pendendo tutti i circonstanti dalla sua bocca.
Raccontò primieramente come fu tolta da Clotaldo e condotta in sua casa, i trattamenti felici di sua moglie la sig. Caterina, poi raccontò il molto amore portatoli da Ricaredo, come la regina l'aveva voluta presso di sé, il veleno dattole dalla camariera sotto la cui custodia viveva, la venuta della donzella scozzese nella casa di Clotaldo, la fede datasi di esser marito e moglie fra Ricaredo et essa, la sua partenza di Londra per Spagna, l'arrivo a Cadiz e d'indi a Siviglia, la creduta morte di Ricaredo, il pensiero di farsi monaca et finalmente ch'egli era suo marito, essendo et egli e tutti quelli di sua casa cattolici;
e finì con dire che a lui si aspettava il raccontare ciò che li era avvenuto dalla sua partenza di Londra fin a quel punto.
Alla quale rispose Ricaredo che tanto avrebbe fatto sommariamente raccontando l'immensità de' suoi travagli e così incominciò:
Da che mi partii da Londra per ischifare lo sponsalizio con la scozzese narrata da Isabella tolsi Guilarte il paggio meco di compagnia e, passando per la Francia, pervenni a Roma, donde mi rallegrai nell'anima e mi fortificai nella fede.
Bacciai il piede al sommo pontefice, confessai li miei peccati al penitenziero maggiore, n'ottenni il perdono e mi diede li ricapiti necessari di detta confessione e della reduzione alla santa romana chiesa nostra universal madre.
Fatto questo visitai tutti li luoghi santi che sono in detta città e, di duemilla scudi che meco aveva, milla e seicento ne diedi ad un banchiere con che mi fossero pagati in questa città,
pensando che gli altri quattrocento rimastimi fossero bastanti per fare il viaggio di Spagna. Così mi partii per Genova avendo inteso che due galere di quella signoria dovevano partirsi per queste bande
e, pervenuto ad Acquapendente, ch'è un luogo ultimo della chiesa andando da Roma a Fiorenza, in un'osteria ritrovai il conte Ernesto mio capitale nemico, accompagnato da quattro servi, quale per quanto intesi andava per curiosità a Roma.
Cresi ch'egli non mi avesse conosciuto
e così con il mio paggio riserratomi in una camera feci pensiero fatto notte di mutare alloggiamento
ma, considerando che non avendomi conosciuto era soverchio il mutare osteria, mi assicurai nell'animo,
tanto che vi cenai e, benissimo serrata la porta della camera, mi posi con la mia spada all'ordine invece di entrare in letto,
addormentandosi subito il paggio per la stanchezza. Era circa la mezzanotte quando che, sparandomi il conte e 'suoi servi quattro archibuggiate, mi lasciarono per morto e, avendo all'ordine le cavalcature, si andarono con Dio, dicendo all'oste che mi sepellisse essendo io persona principale.
Il paggio, destatosi al romore e tenendomi per morto, si precipitò, come poi mi disse l'oste, da una finestra che risguardava in un cortile, gridando: "Ohimè che mi hanno amazzato il padrone!" E di questa maniera egli deve esser andato fin in Londra a rapportare le novelle della creduta mia morte; né già so io come abbiano inteso questo esser accaduto in Francia.
Vennero i famigli dell'oste quali mi ritrovarono in terra steso, ferito con quattro palle e molte migliaruole, però non in luogo pericoloso.
Richiesi il confessore che subito venne e mi somministrò li sacramenti; fecimi curare con molta diligenza, dimodoché in capo di due mesi potei levarmi dal letto. Resi all'oste infinite grazie per la sua molta diligenza e mi partii andandomene a Genova, dove non ritrovai altro che due filucche, le quali con due altri spagnuoli principali furno incaparate, l'una perché andasse avanti a fare la discoperta e l'altra per imbarcarsici.
Con questa sicurezza navigassimo a terra a terra con pensiero di non ingolfarci molto;
ma, pervenuti in un certo luogo delle costiere di Francia detto le Tre Marie, da un picciolo seno di mare uscirono due galeotte de turchi, delle quali una restando a terra e l'altra allargandosi nel mare fossimo serrati in mezzo e ci fecero prigioni
spogliandoci d'ogni nostro avere.
Lasciarono che la nostra filucca investisse in terra senza darle fondo, dicendo che di quella maniera loro averebbe servito d'altra galima (che in nostra lingua vuol dire di nuove spoglie tolte a' cristiani).
S'io dico che fin nell'anima sentissi la mia cattività ben mi sarà creduto, facendola maggiore la perdita de' ricapiti avuti di Roma e della lettera di cambio delli milla e seicento scudi che dentro una picciola cassetta di stagno io portava,
benché la fortuna per allora non volle in tutto dimostrarmisi contraria, facendo che detta cassetta pervenisse nelle mani d'uno spagnolo cristiano schiavo, quale me la conservò, che, se per lo contrario fosse pervenuta nelle mani de' turchi, il mio riscatto non era meno del contenuto della lettera.
Fui condotto in Algieri, dove i padri della Trinità allora stavano riscattando li schiavi.
Loro parlai e da loro mi feci conoscere, per lo che, mossi a carità, ancorché straniero, mi riscattarono in questa forma: pagando per me trecento scudi, cento allora e ducento al ritorno del loro vascello, rimanendo il loro padre maggiore in pegno per quattromilla ducati spesi d'avantaggio di quelli ch'aveva portati,
estendendosi a tanto la misericordia e carità di questi padri che danno per l'altrui libertà la loro propria, facendosi schiavi invece di quelli che fanno liberi.
Si aggiunse a tanta grazia la contentezza d'aver ritrovata la picciola cassetta di stagno detta poco avanti, con la lettera di cambio; e così mostrai il tutto a quel benedetto padre, offerendoli per agiuto del suo riscatto cinquecento ducati più di quelli che per me aveva spesi.
Quasi un anno tardò in dar volta il vascello dell'elemosina, nel qual tempo mi accadettero cose che per narrarle richiederebbesi e nuovo tempo e nuova audienza;
dirò solo ch'uno de' turchi a' quali diedi libertà nella nave portughese mi conobbe e che tanto fu uomo da bene che sempre mi tenne celato,
poiché e lo scoprirmi ed il tormi la vita era una stessa cosa, essend'io quello che poco prima, avendo gittato a fondo li due loro vascelli, li aveva privati del guadagno della nave portughese;
e, per non più con la lunghezza del mio dire tediare così nobile udienza, vennero li padri dell'elemosina, riscattarono il loro maggiore lasciato in pegno e, con lui ritornato in Ispagna, insieme con altri cinquanta schiavi riscattati,
in Valenza facessimo la generale processione in rendimento di tanta grazia a nostro signore, togliendosi d'indi ciascuno per andare alla sua casa, seco portando il trionfo della sua libertà che sono questi abiti.
Oggi sono arrivato in questa città con tanto desio di vedere Isabella mia sposa che, appena fui entrato dentro le porte d'essa, che richiesi di questo monastero, succedendomi poi quanto hanno le signorie loro veduto.
Altro non resta che vedere questi miei ricapiti, acciò si dia fede a questa mia quasi miracolosa istoria.
Ed in dicendo questo cavò fuori la cassetta di stagno e trattone le fedi le appresentò al vicario, dal quale considerate non ritrovò che dubitare della verità;
anzi che per più confirmarla volle il cielo fosse al tutto presente quel mercante fiorentino al quale era indrizzata la lettera di cambio che, vedutala e per buona accettatala, disse che molto tempo fa avuto aveva aviso di questa lettera.
Questo non fu altro che un aggiungere maraviglia a maraviglia e stupore a stupore.
Abbracciò il governatore Ricaredo, li genitori d'Isabella ed Isabella, offerendosi a tutti con cortesi parole.
Fecero lo stesso li due vicari, pregando Isabella ponesse questa istoria in iscritto, affine che di essa gustasse la signoria del loro arcivescovo, il che promise ella di fare.
Il silenzio che fin allora s'era servato in ascoltare questo sì mirabile successo si ruppe col dar lodi a Dio ch'avesse tanto fuor di pensiero condotto a fine sì felice matrimonio ed in congratularsi con li due sposi della loro fortuna.
Le nozze si celebrarono d'indi ad otto giorni con la maggiore solennità e pompa che fu possibile ritrovandovisi presente i principali della città.
Di questa maniera li genitori d'Isabella ricuperarono la loro figlia ed accrebbero il loro avere;
ed essa, al dispetto di quanti inconvenienti le incontrarono, favorita dal cielo ed agiutata dalle molte sue virtù, si acquistò un marito tanto principale quanto è Ricaredo, in compagnia del quale si crede ch'ancora viva nella casa tolta a pigione riscontro a Santa Paola che poi comperarono dagli eredi di un tal signore burdigalese chiamato Fernando de Cifuentes.
Questa novella a noi può servire d'ammaestramento, considerando quanto possano la virtù e la bellezza, poiché sono bastanti congiunte insieme ed anco separate ad innamorare infino li stessi nemici ed a cavarci dalle maggiori nostre adversità mediante il divin favore senza il quale non è cosa potente in questa vita.