Una fanciulla di Calis, per nome Isabella, è rapita da Clotaldo gentiluomo inglese. Il costui figliuolo, chiamato Ricaredo, s'innamora di lei e nel punto ch'egli sta per isposarla, dopo molte prove da lui fatte nella guerra per ottenerla, ella vien ad essere avvelenata dalla contessa d'Arnesto; ma con rimedi è liberata da quel pericolo mortale; tuttavia, per la gran forza del veleno, la sua bellezza resta per un tempo bruttamente disfatta. Ella col padre e con la madre se ne ritorna alla patria, ove quel giorno ed in quell'ora ch'essa andava a farsi monaca sopragionge Ricaredo e la sposa.
Con le spoglie che gl'inglesi portaron via dalla città di Calis, un gentiluomo inglese, per nome Clotaldo, capitano d'una squadra di navi, condusse in Londra una fanciulla d'anni sette incirca
fuor della notizia e contra il volere del conte di Essessia, da cui querelandosi i parenti della figliuola per la perdita di quella il supplicarono che, poiché egli si contentava di tor loro la robba, lasciando libere le persone, non volesse che con restar poveri diventassero ancora più sfortunati privandoli della fanciulla ch'era la luce degli occhi loro e la più bella creatura della città.
Fece il conte con grandissima diligenza proclamare per tutta la sua armata che chiunque avesse la putta la dovesse rendere, sotto pena della vita.
Ma nessuno timore di pena fu bastevole a fare che Clotaldo ubbidisse, tenendola ascosa nella sua nave, tanto s'era innamorato, però cristianamente, della incomparabile bellezza d'Isabella (così era chiamata la fanciulla).
Infine, i suoi parenti restarono senza lei tristi, sconsolati; e Clotaldo allegro oltramodo se la portò in Londra ed alla moglie la diede per la più ricca spoglia ch'egli s'avesse guadagnata.
Volle la buona sorte che tutti di casa di Clotaldo eran catolici secreti, benché esteriormente ed in publico mostrassero di essere della religione della loro regina,
e principalmente fra essi un figliuolo di Clotaldo, di anni dodeci incirca, chiamato Ricaredo, insegnato da' suoi parenti ad amare e temer Dio e ad essere molto intiero nella catolica fede. Caterina, moglie di Clotaldo, nobile cristiana e prudente signora, prese tanto amore ad Isabella che, come se propria figliuola stata le fosse, l'allevava ed insegnava. Et era la fanciulla sì ben nata che con facilità imparava quanto l'era insegnato.
Il tempo, le carezze, il buon trattamento che se le faceva fecero ch'ella si scordò quello che i suoi padre e madre le avevano fatto, ma non tanto però che non si ricordasse di loro e per loro non sospirasse spesse volte. E con tutto che ella imparasse la lingua inglese, non si dimenticava la spagnuola, perché Clotaldo teneva cura di condurle a casa secretamente degli spagnuoli, acciò favellassino con lei;
a tal che, senza scordarsi, come abbiamo detto, la natia sua, ella parlava l'inglese come se nata fosse in Londra.
Dopo averla ammaestrata in tutte le cose di lavori che deve sapere una donzella nobile, le ferono anche insegnare a leggere e scrivere più che mezzanamente.
Ma sopra tutto riuscì mirabilmente in suonar d'ogni sorte di stromenti leciti ad una donna, con tanta perfezione di musica, accompagnata da una voce sì eccellente che incantava, quando cantava.
Tutte queste qualità e grazie acquistate e congionte con la natura a poco a poco accesero amore nel petto di Ricaredo ch'essa parimente amava come figliuolo del signore di lei.
Nel principio amore l'assaltò e s'introdusse nell'animo suo con un modo di dilettarsi e compiacere nel vedere ed ammirare la senza pari bellezza d'Isabella e nel considerare l'infinite sue virtù e doti, amandola come se gli fosse stata sorella e senza che i suoi desideri trapassassero i limiti dell'onesto.
Ma venendo la giovane a crescere e le sue perfezioni con gli anni, perché di già era gionta al duodecimo, quando che Ricaredo se n'invaghì, quella prima benevolenza e quel gusto di mirarla si cambiò in un ardentissimo desio di goderla e possederla. Non che a ciò egli aspirasse per altri mezi che per quelli di esserle sposo, poiché dalla onestà d'Isabella altra cosa sperare non si poteva, né anco lui l'averebbe voluto pretendere, ancorché fusse stato in suo potere di gionger a quel segno, perché la nobil sua condizione e la stima ch'egli faceva d'Isabella non consentivano che nell'animo suo alcuno mal pensiero potesse far radici.
Per mille volte egli determinò di voler dichiarare a' suoi parenti il suo intento; ma altretante mutò parere, perché sapeva ch'essi l'avean destinato ad essere marito d'una donzella scozese di nobilissima casata, e molto ricca, che come lui faceva professione d'esser catolica,
e gli pareva che non vorrebbono dare ad una schiava, se questo nome può convenire ad Isabella, colui ch'avevano già risoluto di voler dare ad una gentildonna.
Così perplesso e pensoso, senza sapere da che banda voltarsi per ottener il fine del desiderio suo buono, egli passava una vita sì angustiata che poco mancò ch'egli non la perdesse.
Ma, accorgendosi essere gran debolezza d'animo il lasciarsi morire senza tentare qualche sorte di rimedio al suo male, si rincorò e risolse di dichiarare ad Isabella il suo pensiero.
Tutti di casa erano mesti e conturbati per la malatia di Ricaredo, perché da tutti era amato e maggiormente più da' suoi parenti, tanto per non aver altro figliuolo, quanto perché le sue buone e virtuose qualità facevanlo comendevole molto.
Non sapevano i medici conoscere il suo male ed egli non osava né voleva scuoprirlo.
Alla fine, risoluto di farsi strada per mezzo alle difficoltà ch'egli s'imaginava, un giorno che Isabella venne a visitarlo, e veggendola sola, con voce tremola le disse:
Bellissima Isabella, le perfettissime vostre bellezze e virtù sono quelle che m'hanno condotto nello stato in che mi vedete. Se non volete che li maggiori tormenti che si possano imaginare mi tolgano di vita, abbiate pietà del mio penare e fatte che il vostro volere s'aggiusti col mio, il qual altro non è che di avervi per mia sposa, senza saputa de' miei parenti, perché io dubito ch'essi, non conoscendo sì intieramente i vostri meriti come gli conosco io, non siano per negarmi un bene di tant'importanza.
Se mi darete parola d'esser mia, io, insin d'adesso, come vero catolico e cavaliere vi do la mia d'essere vostro. E con tutto che non mi sia conceduto il godervi senza la lor licenza e della chiesa, che anco questa è la mente mia, l'imaginazione e lo sperare che sicuramente venghiate ad esser mia sarà bastante a ritornarmi la salute ed a conservarmi allegro e contento, sin che a quella maggior felicità io possa giongere.
Mentre questo diceva Ricaredo, stava ascoltando Isabella, con gl'occhi chinati a terra, mostrando in quell'atto che la sua discrezione non era manco della sua bellezza né la sua onestà manco della sua prudenza; e, veggendo ch'egli taceva, così rispose:
Da che il rigore o la benignità del cielo, che non so a quale di questi due estremi io debba attribuirlo, volle tormi a' miei parenti, signor Ricaredo, per darmi alli vostri, io, obligata alle molte cortesie ed agl'infiniti favori ch'essi m'hanno fatti, determinai che la volontà mia mai trasgredirebbe la loro; e così, senza quella averei non a buona, anzi a mala ventura l'inestimabil grazia che dite volermi fare.
Ma se col consenso di quelli sarò così felice ch'io possa meritarla, da quest'ora io mi vi offero e prometto di conformarmi col voler d'essi per esser fatta vostra.
E fra tanto ed aspettando che questo sia, trattenete i vostri desideri con isperanza che i miei sempre mai saranno puri e vi desidereranno dal cielo quanto bene egli vi possa dare.
Qui finirono l'oneste e discrete parole d'Isabella e da quelle cominciò la salute di Ricaredo e cominciarono a ritornar in vita l'isperanze de' suoi parenti, i quali nell'infermità di lui erano morti.
L'uno dall'altro cortesemente si partì, questo con le lagrime agl'occhi, quella con ammirazione di vederlo tant'accesso e vinto dall'amore di lei; et egli levatosi dal letto, il che pareva miracolo a tutti, non volle stare più lungo tempo a scuoprire l'animo suo a' suoi parenti.
Così un giorno manifestolo a sua madre, dicendole, in fine del suo assai lungo ragionamento, che se ricusassino ammogliarlo con Isabella, quello e dargli la morte sarebbe un'istessa cosa.
Infine, con tali parole ed attributi egli innalzò le lodi di quella spagnuola che parve alla madre di lui che più la sposa che lo sposo si troverebbe lontana dal suo conto ed essersi ingannata.
Nientedimeno, ella diede buone parole e speranza al figliuolo di far sì col suo padre ch'egli facilmente s'accordasse a voler ciò che tanto ei bramava.
Così dicendo al marito le medesime ragioni che 'l figliuolo li aveva detto, quello, senza mostrarsi punto duro, piegossi volentieri alle voglie di questo, con inventare scuse, acciò non si passasse innanzi nel parentado già poco men che concertato ed accordato con la donzella scozese.
Allora era Ricaredo in età d'anni venti ed Isabella di quatordici, però in quella primavera d'anni floridi pareva che fossero nel maturo autunno della discrezione e prudenza.
Solamente quattro giorni mancavano infin a quello nel quale i parenti di Ricaredo avevano stabilito che 'l figliuolo dovesse piegar il collo sotto il giogo del sacro matrimonio, stimandosi per prudenti e felici dall'aversi eletta la lor prigioniera per nuora, le cui virtù essi avevano in maggior considerazione e dote che le molte ricchezze della gentildonna di Scozia.
Già erano apparecchiati i vestiti da nozze, i parenti e gli amici invitati ed altro non ci mancava se non avvisar la regina di quel parentado e darne conto a sua maestà, perché in quel regno tra persone illustri non si può effettuare alcun casamento senza il consenso e la licenza del principe sovrano. Tuttavia, eglino non dubitando della licenza regia, non si fecero innanzi per domandarla. Dunque, essendo ogni cosa apparecchiata com'abbiam detto, ecco una sera delli quattro giorni venir un ministro della regina con comandamento a Clotaldo di dover la mattina dell'altro giorno condurre da sua maestà la prigioniera di Calis, il che turbò tutta l'allegrezza di quella festa.
Rispose Clotaldo che non mancherebbe d'ubbidire a quanto gli veniva comandato; ed il ministro, partendosi da lui con quella risposta, il lasciò, con tutti gl'invitati, pieno di confusione e di temenza.
Ah, meschina me! diceva la signora Caterina Che sarà di noi, se la regina saprà ch'io abbia allevata questa fanciulla alla catolica romana ed indi venga ad inferire che tutti di questa casa siamo di quella religione? E se sua maestà domanderà alla figliuola che cosa ella abbia imparato in otto anni ch'è stata prigione, ch'averà da rispondere la meschinella che non torni in nostra condannagione, per accorta e discreta ch'ella sia?
Questo sentendo Isabella, le disse:
Deh tal timore, signora mia, non v'affligga, perché spero in Dio ch'egli per sua misericordia mi darà parole in quello istante, le quali non vi condanneranno, anzi vi saranno d'utile.
Da paura tremava Ricaredo, quasi indovino di qualche sinistro successo.
Clotaldo cercava modo da far animo e non temere; ma questo non lo trovava se non nella molta confidenza ch'egli aveva in Dio e nella prudenza d'Isabella, alla quale ei raccomandò sopra tutto che cercasse ogni via possibile acciò eglino non fossero scoperti per catolici, perché, se ben avevano l'animo disposto a ricevere martirio, tuttavia la carne debole ricusava di venire a quell'amara prova.
Una e più volte gli assicurò Isabella, acciò che stessino sicuri e di buona voglia, che per causa sua non succederebbe quello ch'essi temevano, perché, quantunque ella non sapesse ancora che cosa avesse da rispondere alle domande che le verrebbon fatte, però aveva certa e viva speranza di rispondere in modo, come già aveva detto, che le sue risposte più ad utile che a danno le tornerebbono.
Passarono quella notte discorrendo circa molte cose e specialmente che, se la regina avesse saputo essi esser catolici, non averebbe mandato da loro sì benigno ministro e comandamento. Dal che si poteva inferire che solamente sua maestà volesse veder Isabella, la fama della cui senza pari bellezza e delle virtuose sue qualità, sparsasi per tutta la cittade, era pervenuta alla sua notizia.
Tuttavia, s'accorgevano dell'error loro e d'essere in colpa, per non averle da principio condotta davanti la fanciulla; da che pensarono non poter meglio scolparsi che con dire che, insin da quell'ora ch'ella venne in lor potere, l'avessero destinata per moglie di Ricaredo lor figliuolo.
Però venivan incolpati in aver concertato quel parentado e casamento senza della reina, ancorché per questo fallo paresse a loro non aversi meritato grave gastigo.
Poterono queste ragioni consolargli un poco; per lo che avvisarono che Isabella non dovesse esser presentata davanti a sua maestà vestita da prigioniera ma come sposa del lor figliuolo.
Risoluti in questo, il dì seguente la vestirono alla spagnuola d'una vesta di raso verde ricamata di perle, trinciata e foderata con una ricca tela d'oro, rapprese le trinciature con cappietti o botoni di perle, collana e cintura tempestate di diamanti, ed il ventaglio com'usano le dame spagnuole; i suoi propri capegli biondi e lunghi intrecciati e grandinati di diamanti e perle le servivano di scuffia.
Con questi adornamenti ricchissimi e con la sua meravigliosa bellezza ed aria gentile e graziosa, comparve quel giorno Isabella in Londra ed in carrozza, tirando a sé gli animi e gli occhi di quanti fissavano lo sguardo nel suo bel volto.
Clotaldo, la sua moglie e Ricaredo le andavano in compagnia nella medesima carrozza e, a cavallo dietro a quella, molti illustri suoi parenti.
Tutto questo onore Clotaldo volle fare alla sua prigioniera, affine d'inclinar la regina a trattarla come sposa del figliuolo di lui.
Gionti al palazzo regio ed in una gran sala di esso, ove la reina era, vi entrò Isabella con tanto e tale splendore di bellezza ch'egli avanzava ogni imaginazione.
La compagnia si fermò a due passi dentro della porta e come Isabella si fece innanzi sola apparve quasi stella od essalazione che si muove nella regione del fuoco, nel sereno d'una tranquilla notte, overo come raggio del sole che dallo spuntare si vede infra due monti.
Con tutto questo teneva somiglianza Isabella ed anche con una cometa che fu presagio e pronostico dell'incendio di più che d'un animo di quelli che la miravano.
Appressatasi dunque alla regina e con gran riverenza ed umiltà inginocchiata alli suoi piedi, in lingua inglese prese a dirle:
Madama, io supplico umilissimamente vostra maestà degnarsi porger la mano da baciarla a questa sua schiava, la quale infin d'oggi per sempre si chiamerà libera, poiché è stata sì felice di presentarsi al cospetto vostro e che vi siate degnata guardarla.
Per buona pezza stette la regina a contemplarla senza dir pur una parola, perché era come rapita dallo stupore di quella tanta beltade; e le pareva, che così dapoi ella disse, aversi davanti un cielo stellato e luminoso e che le sue stelle fossero i molti diamanti e perle ch'adornavano Isabella, il suo bel viso ed i suoi occhi il sole e la luna in una medesima sfera, e tutta in tutto ed in ciascuna parte di quello una nuova meraviglia di bellezza.
Le dame che con la reina erano volentieri averebbero voluto avere tutti gli occhi d'Argo, acciò non rimanesse in quella spagnuola alcuna particella che non la rimirassero. Chi lodava la vivezza de' suoi occhi, chi il colore del viso, chi la sveltezza della vita, chi la dolcezza del parlare; et in quella compagnia fu chi invidiosa delle perfezioni della forestiera trovò a dire solamente negl'abiti così:
È bella la spagnuola ma la foggia del vestire a me non piace.
Poi, passata alcun tanto la sospensione della regina, comandando ad Isabella che si levasse in piedi, le disse:
Parlate spagnuolo, donzella, ch'io l'intendo e n'averò gusto.
E voltatasi da Clotaldo:
Voi m'avete fatto torto, Clotaldo, in avermi sì lungo tempo ascoso questo tesoro; però egli è tale che avete avuto qualche ragione di tenervelo stretto. Sete obligato a restituirmelo, perché di ragione è mio.
Madama rispose Clotaldo, io confesso il mio errore, se pur è errore l'aver guardato questo tesoro sin a tanto ch'egli avesse quella perfezione che conveniva per comparire davanti alla maestà vostra. Ora ch'egli l'ha, ho pensato di farlo più ricco ancora col supplicare umilissimamente vostra maestà di voler permettere ch'Isabella sia sposa del mio figliuolo Ricaredo, affin di darvi, dandovegli amendue, quant'io posso dare.
Il nome, come la bellezza, mi piace e mi contenta disse la reina; non le mancava altro, se non chiamarla Isabella la Spagnuola, acciò niente più mi restasse da desiare nelle sue perfezioni.
Ma ricordatevi, Clotaldo, che senza mia licenza l'avevate promessa per isposa al vostro figliuolo.
Egli è vero, madama rispose Clotaldo; però fu questo confidandomi che i molti servizi dai miei antecessori e da me ancora fatti a questa corona otterrebbono da vostra maestà altre grazie di maggior momento che quella di questa licenza, la quale non abbiamo trasgredita, perché il mio figliuolo non è ancora sposato.
Neanche lo sarà con Isabella soggionse la regina sin tanto che non l'abbia meritata.
Voglio dire che i vostri servizi, e de' vostri antecessori, non varranno in questa occasione al vostro figlio, s'egli stesso non si dispone a servirmi e meritare questa bella prigioniera ch'io tengo come se fosse mia figliuola.
Appena ebbe Isabella udita questa ultima parola della regina che, inginocchiatasi di nuovo alli suoi piedi, così le disse in lingua castigliana:
Le disgrazie che tali sconci o mutazioni recano, serenissima e potentissima regina, debbono esser tenute per grazie, anzi che no.
Già vostra maestà s'è degnata darmi nome di figliuola sua, con questo pegno che mali ho da temere o che beni non potrò sperare?
Con tanta grazia proferiva Isabella quanto diceva che la regina le prese grandissima affezione e, ritenendola al suo servizio, la diede in custodia e governo ad una principal dama, ch'era sua cameriera maggiore, acciò la facesse capace per poterla meglio servire.
Ricaredo, che si vidde levar la vita nel vedersi tor Isabella, poco mancò che non perdesse il giudizio. Nondimeno tutto tremante e conturbato andò a gittarsi inginocchioni a' piedi della reina e così le disse:
Non è di bisogno, madama, che, perché io serva vostra maestà, io sia invitato con altre ricompense che quelle che i miei parenti ed antecessori hanno ottenute con l'aver serviti i suoi re. Tuttavia, poiché la maestà vostra comanda che con nuovi servigi io la debba servire, umilissimamente la supplico di chiarirmi in che modo potrò sodisfare all'obligo che le piace impormi.
Due delle mie navi rispose la regina sono in procinto di partirsi per andare in corso, delle quali ho fatto generale il barone di Lansacco; io vi fo capitano d'una di quelle, perché m'assicuro che 'l sangue da cui discendete supplirà i pochi anni dell'età vostra.
Et abbiate in considerazione il favore ch'io vi faccio, però che con quello vi do occasione che, nel servire la vostra regina, mostriate chi siete e facciate che il vostro valore non disdica dalla buona opinione che se ne ha e così possiate ottenere il maggior premio ch'io penso sapreste desiderare.
Io stessa sarò la guardia d'Isabella, benché ella dia assai ad intendere che la più sicura sia quella della sua onestà.
Andate, che Iddio v'accompagni; e perché sete innamorato, come m'imagino, voglio sperar gran cose delle vostre prodezze.
Felice quel re guerriere ch'avesse nel suo esercito diecimila soldati innamorati, a' quali fosse proposto per premio e trionfo di vittoria il godimento delle loro innamorate.
Levatevi, Ricaredo disse la reina, e vedete se qualche cosa avete da dire ad Isabella, perché domattina bisogna che partiate.
Egli baciò la vesta alla regina, tenendo a moltissima grazia quella che sua maestà gli faceva; ed alzatosi in piedi andò subito ad inginocchiarsi davanti ad Isabella, alla quale volendo parlare non potette, perciò che la lingua gli divenne com'annodata e le lagrime gli vennero sugl'occhi;
il che non puoté sì ben dissimulare che non se n'accorgesse la reina, onde gli disse:
Non abbiate a vergogna, Ricaredo, di piangere né vi crediate da manco per avere in questa estremità dato sì teneri e deboli testimonianze dell'animo vostro, perché sono due cose tra sé molto differenti il combattere con i nemici ed il partirsi ed allontanarsi dalla cosa amata.
Voi, Isabella, abbracciate Ricaredo e ditegli adio, che ben lo merita il suo sentimento.
Isabella, attonita e sospesa dal vedere l'umiltà e comprendendo il valore di Ricaredo, che come sposo ella amava, non intese quello che la reina comandato le aveva; anzi si mise a piagnere sì amaramente e non sapendo ciò ch'ella si facesse che, diventata quasi immobile, pareva una statua sudante o piangente di alabastro.
Cotali effetti, ed effetti così teneri ed innamorati, delli due amanti fecero sparger lagrime a molti degli astanti. Et in quel modo, senza che Ricaredo avesse detto parola alla sua dama né essa a lui, Clotaldo e quelli che l'accompagnavano, chinandosi e facendo riverenza alla regina, se n'uscirono dalla sala pieni di compassione, di disgusto e di lagrime.
Rimase Isabella come orfana che da pochissimi giorni ha veduto il funerale del padre e della madre; e stette con timore che la nuova sua signora le volesse far mutar i costumi nei quali dall'altra prima era stata allevata.
Indi a due giorni Ricaredo si fece alla vela combattuto, tra gli altri fastidiosi pensieri, da due ansiosissimi che lo tenevano fuori di sé.
L'uno si era che bisognava ch'egli facesse delle prove per meritare Isabella, l'altro che non ne poteva far nessuna se guardar volesse la sua religione che gli proibiva sfoderare la spada contro a' cattolici.
E se non la sfoderasse aveva da essere notato per catolico o codardo, il che portava rischio alla sua vita ed era di grand'ostacolo alla sua pretensione.
Ciò nonostante, egli determinò di anteporre al gusto dell'esser innamorato quello dell'essere catolico, fra sé pregando il cielo che gli porgesse occasioni nelle quali potesse colla riputazione dell'esser valoroso non aver da offendere la sua religione e di poter insieme sodisfare alla sua regina e meritare Isabella.
Sei giorni continovi veleggiarono i due navili con prospero vento alla volta dell'isole Terzere, dove mai mancano navi portoghese, ritornando esse dall'Indie Orientali od altre venendo dall'Occidentali.
In capo de' sopradetti giorni un gagliardissimo vento, che nel mar Oceano non ha il medesimo nome che nel Mediterraneo, dove lo chiamano Austro o vento di mezzodì, lor diede per fianco con tanta furia e sì lungamente che, senza lasciargli toccar terra nell'isole vicine, furono sforzati correre insin verso la Spagna, alle cui coste arrivati,
ed alla bocca dello stretto di Gibilterra, scuoprirono tre vascelli, uno de' quali molto grande appariva e gl'altri due piccioli.
Accostossi la nave di Ricaredo a quella del suo generale, per sapere da lui se volesse investire i tre legni scoperti. Ma nell'accostarsi viddero che piantavano sopra la gabbia maestra d'essa generale uno stendardo nero ed appressandosele più sentì suonare le trombette da sordina, segni chiari o che 'l generale era morto od alcun altro de' principali della nave.
Con quel turbamento accostatisi a poter parlar insieme, il che non avevano fatto da che si partirono dal porto,
quelli di essa generale gridavano, dicendo che 'l capitan Ricaredo entrasse in quella, perché il generale la notte inanzi era morto d'apoplessia.
Tutti gl'altri per cotal nuova se ne condolsero, però se ne rallegrò Ricaredo, non per la morte del suo generale, che gliene rincresceva, ma perché egli succedeva nel comandare le due navi, che così la regina aveva ordinato, che venendo a morire il generale, toccasse ad esserlo a Ricaredo. Et egli passato prestamente nella generale, ove gli uni piangevano il morto, gli altri si rallegravano col vivo.
Finalmente, tutti insieme lo ricevettero per loro capo e subito gli giurarono ubbidienza, con brevi cerimonie, non dando tempo di farle più lunghe i due de' tre legni ch'avevano scoperti, i quali partendosi dal grande venivano alla volta loro.
Di subito conobbero alle mezze lune de' suoi stendardi quegli essere galere turchesche; onde Ricaredo molto si rallegrò, parendogli che, se 'l cielo gli concedesse quella giustissima preda, nella quale non offenderebbe la sua coscienza, ella saria gran servizio e di non poca considerazione appo la sua reina.
Le due galere riconobbero le navi inglese, le quali non la bandiera d'Inghilterra ma quella di Spagna portavano, per ingannar coloro che gli volessero riconoscere e per non essere avuti per corsali. A tal che i turchi si pensarono che quelle fossero navi, le quali, maltrattate e scompigliate dal mare, venissero dall'Indie Occidentali e perciò facili da prendere.
Avvicinaronsi a poco a poco e Ricaredo a posta glielo permesse, insin a tanto che furono alla portata della sua artiglieria, la quale egli fece sparare sì a tempo che con cinque palle diede in mezzo ad una delle galere, con tanta forza che la spaccò tutta;
ed ella così maltrattata si fece subito dalla banda e cominciava ad affondarsi senza potersi aiutare.
L'altra veggendo il disconcio il più presto che potette la rimurchiò e la condusse in salvo, sotto ad una delle bande del gran navilio.
Ma Ricaredo, che teneva lesti e pronti i suoi, i quali volteggiavano come s'avessero avuto remi, fece caricare di nuovo tutta l'artiglieria e, dando caccia a' turchi, lor faceva tempestar addosso infinità di palle.
Quelli della galera spaccata l'abbandonarono, subito che puotero attaccarsi al loro gran navilio, nel quale procuravano con fretta salvarsi.
Ma, accortosene Ricaredo, investì con le sue due navi la galera ch'era intiera e, senza lasciarla voltare né valersi delli suoi remi, la strinse sì che i turchi furono sforzati ricoverarsi nel medesimo navilio, come gli altri, non con isperanza di difendervisi ma di camparsi la vita con la fuga.
I cristiani forzati di quelle galere, rompendo le lor catene e mescolandosi co' turchi, si salvarono nel gran navilio. Ma come vi montassero dalle bande, l'arcobuseria di Ricaredo tirava di mira contra i turchi; ed egli aveva proibito che non si tirasse contra i cristiani. In questo modo quasi tutti i turchi furon uccisi e la maggior parte di essi tagliati a pezzi dai cristiani liberati; questi valendosi delle proprie arme di quelli e col menar coraggiosamente le mani, credendo che i vascelli inglesi fossero spagnuoli, fecero delle maraviglie per ricuperare la perduta libertà, mercé che l'animo e la forza dei forti, quando casca o manca, passa ad invigorire la debolezza di quelli che risorgono.
Finalmente, avendo morti quasi tutti i turchi, alcuni spagnuoli si fecero sul bordo del navilio e, alzando le voci, chiamarono coloro ch'essi pensavano essere spagnuoli, invitandoli ad entrarvi, per godere il frutto della vittoria.
Dimandò loro Ricaredo in lingua castigliana che navilio fosse quello.
Risposero ch'egli veniva dall'Indie di Portogallo carico di specierie e di tanta quantità di perle e diamanti ch'esso valeva più d'un million d'oro. Che sopra quelle coste era stato gittato dalla tempesta e tutto rovinato e senz'artiglieria, per essere stati costretti di buttarla in mare; ed era la gente inferma e quasi morta di sete e di fame;
e che quelle due galere, ch'erano del corsale Arnauto Mami, il giorno innanzi l'avevano preso senza contrasto alcuno;
e, per quanto eglino avessero sentito dire, che non potendo trovar luoco a tanta ricchezza nei suoi due vascelli, lo rimurchiassero per condurlo nel canale della Rascia, indi non molto lontano.
Ricaredo lor rispose che se pensavano quelle due navi essere spagnuole s'ingannavano, perch'erano della regina d'Inghilterra. Nuova che diede da pensare e da temere a quelli che l'udirono, credendo, e con ragione, ch'essi fossin cascati da mal in peggio.
Tuttavia Ricaredo lor disse che non si temessero d'alcun danno e che gli assicurava della lor libertà, mentre che non stessero su la difesa.
Non è possibile risposero che ci poniamo in quella, perché, com'abbiam detto, in questo navilio non è artiglieria né teniamo arme;
così non possiamo altro se non ricorrere dalla gentilezza, cortesia e liberalità del vostro capitano,
essendo cosa giusta che colui che ne ha liberati dall'insopportabile schiavitù turchesca dia compimento a sì gran beneficio, per lo quale la fama annoncierà eroico il suo nome per tutto dove giongerà la nuova della sua vittoria e della nostra libertà.
Non parvero se non buone a Ricaredo le ragioni dello spagnuolo, per che chiamati a consiglio quelli della sua nave lor domandò che mezo ei dovesse tenere per mandar in Ispagna tutti quelli cristiani, senza porsi a pericolo ch'essi, veggendosi in assai gran numero, fessero animo e se gli voltassero contra.
Alcuni furono di parere che ad uno ad uno passassero nella sua nave e, così entrati sotto la coperta di quella, senza che l'un compagno sapesse dell'altro, gli facesse scannare, per in questo modo poter più sicuramente condurre quel gran vascello a Londra.
Ma Ricaredo, di petto più generoso e cristiano, rispose:
Poiché Iddio ci ha fatta tanta grazia in darne tante ricchezze, non voglio, in luogo di ringraziarnelo, usar sì fatta crudeltà e non staria bene che quello a che con l'industria posso rimediare io lo rimedi con la spada;
e così non voglio che per man nostre alcun catolico muora, non perch'io tenga loro affezione, ma perché voglio bene a me stesso. Né anco conviene ch'io e voi insieme, che in questa spedizione e fazione m'avete accompagnato, con la gloria dell'esser valorosi ci acquistiamo l'infamia dell'essere crudeli, perché mai la crudeltà stette bene col valore.
Dunque, quello che a me pare che dobbiamo far in questo si è che tutta l'artiglieria d'una di queste navi s'ha da mettere sopra il gran navilio portoghese e con quella tutte l'altre arme, lasciando solamente nella nave disarmata le vittovaglie necessarie e così sul gran navilio passeremo in Inghilterra e nell'altro gli spagnuoli si ritireranno in Ispagna.
Non fu alcuno che volesse contradire alla proposizione di Ricaredo, gli uni avendolo per uomo valoroso, magnanimo e di buon intendimento, gli altri giudicandolo negli animi loro per più catolico che non averebbero voluto.
Fatta questa risoluzione, Ricaredo passò con cinquanta arcobusieri nel gran navilio portoghese,
dove trovò da trecento uomini scappati dalle galere.
Allora, egli domandò il registro del vascello ma colui che la prima volta avea parlato seco dal bordo del navilio gli rispose che il corsaro delle galere l'aveva tolto e con quello era stato affondato.
All'istante fece metter il torno all'ordine e con gran prestezza, congiongendo la sua seconda nave al gran navilio, da quella in questo a forza di molinelli fece passare l'artiglieria.
Ciò fatto, con un breve discorso comandò agli spagnuoli che passassero nell'altra nave sgombrata, ove trovarono vittovaglie in abbondanza, per più di tempo e più gente di quello erano. E nell'imbarcarsi quelli lor donò a ciascuno quattro scudi d'oro, per sovenire in parte alle sue necessità, quando sarebbono smontati in terra, alla quale erano sì vicino che vedevano gli alti monti d'Abila e di Calpe.
Tutti insieme lo ringraziarono infinitamente della sua cortesia, e del beneficio ricevuto, e l'ultimo ch'entrava ad imbarcarsi, ch'era quel primo che con Ricaredo per tutti gli altri parlato aveva, così gli disse:
Valoroso cavaliere, mi sarebbe miglior ventura, e m'obligareste più, se vi piacesse menarmi con voi in Inghilterra che in rimandarmi in Ispagna, perché, se ben è patria mia e che solamente sono sei giorni ch'io manco da quella, non vi troverei altro ch'una dispiacevole occasione di languire in solitudine e tristezza.
Sappiate, signore, che nella presa di Calis, che succedette fa quindeci anni, io perdei una mia fanciulla che, com'io penso, i vostri inglesi dovettero condurre via nel lor paese. Perdendo quella, ho perduto insieme il sostegno della mia vecchiezza e la luce degli occhi miei, i quali da quell'ora che più non la viddero mai hanno veduto cosa che lor abbia piaciuto.
Il grave sentimento di cotal perdita, ed ancora della robba toltami, m'hanno condotto a tale che più non volli né potetti attendere alla mercatanzia, il cui esercizio m'avea dato nome del più ricco mercatante della nostra città.
Et era vero, perché oltre a' crediti ch'io avevo, che passavano molte centinaia di migliaia di scudi, il mio capitale dentro delle porte di mia casa valeva più di cinquantamila ducati d'oro. Il perdei tutto ma non avrei perduto niente, mentre io non avessi perduta la mia figliuola.
Con questa general disgrazia, ed a me particolarmente disgraziatissima, venne ancora la necessità a tormentarmi in così fatto modo che, non potendo star saldo né farle testa e resistenza, io e mia moglie, ch'è quella meschina che sta lì a sedere, ci risolvemmo d'andarcene all'Indie, comun rifugio dei poveri generosi,
ed essendoci imbarcati in una nave d'avviso, oggi sei giorni fa, all'uscire di Calis, fummo presi da questi due vascelli di corsali e così rinovellarono la nostra disgrazia e si confermò la nostra sventura,
la quale sarebbe stata maggiore, se detti corsali non avessero preso quel gran navilio portoghese che gli trattene, sin che succedette quello ch'avete veduto.
Domandogli Ricaredo come si chiamava sua figliuola
e, rispostogli ch'aveva nome Isabella,
ei cominciò a credere quello che già aveva sospettato, che colui che gli raccontava quella storia fosse il padre dell'amata sua Isabella
e, senza dargli alcuna nuova di lei, gli disse che molto volontieri condurrebbe lui e la sua moglie a Londra, dove per avventura potrebbono saper nuova della perduta figliuola.
Dunque avendoli fatto passare nella sua capitana e poste le guardie ed i marinari necessari nel navilio portoghese,
fece in quell'istessa notte alzar le vele e s'allargò lontano quanto potette dalle coste di Spagna, lasciando l'altra sua nave agli spagnuoli ch'ei aveva liberati, tra i quali erano ancor restati circa venti turchi, a cui, per mostrare alli suoi soldati che la sua cortesia procedeva più tosto da generosità d'animo che da zelo di religione catolica, donò la libertà
e pregò gli spagnuoli che alla prima occasione gli lasciassero andare dove volessero.
Il vento, che pareva essere gagliardo e prospero, cominciò a calmarsi alquanto ma quella calma fu gran tormento di timore negli animi degl'inglesi, i quali biasimavano Ricaredo e la sua liberalità, dicendogli che quelli ch'ei aveva liberati potrebbono dar avviso in Ispagna del succeso di quella presa e, se per caso si ritrovassero in quei porti galioni armati e che uscissero a seguitarli, v'era pericolo d'esser presi o morti.
Ben conosceva Ricaredo ch'essi avevano ragione; ma, vincendogli tutti con altre migliori, gli quietò e più ancora gli appagò il vento, perché egli tornò a rinfrescarsi ed a ringagliardire, talmente che, dandogli tutte le vele e senza che nascesse occasione di amainarle od allentarle, indi a nove giorni pervennero alla vista di Londra, di dove forniva il mese che s'erano partiti.
Non volle Ricaredo, a causa della morte del suo generale, entrar nel porto con allegrezza di vittorioso;
ma, mescolando i segni allegri della sua vittoria con i tristi di quella morte, fece suonare trombette e sordine, quelle di suono chiaro ed allegro, queste di suono rocco e lugubre. Et i tamburini trambustavano gagliardi all'arma e gli rispondevano con suonar tristo e pietoso i piffari. Da una gabbia pendeva al rovescio una bandiera disseminata di meze lune, da un'altra un lungo stendardo di zendano nero, le cui punte toccavano l'onde.
Con questi contrari estremi entrò il valoroso Ricaredo con la sua nave nel fiume Tamigi, avendo lasciato il gran navilio in mare, perché in quel fiume non averebbe trovato assai fondo.
Queste cose tra sé tanto contrarie tenevano sospeso il numeroso popolo che dalla riva le stava contemplando;
tuttavia, ben conobbero a certi segni che quella nave, sopra la quale veniva Ricaredo, era la capitana del barone Lansacco; ma non sapevano pensare in che modo egli cambiato avesse l'altra sua picciola nave con quel gran navilio che stava al mare.
Infine, cavogli di dubbio il vedere che nello schiffo era saltato armato tutto di ricche e splendenti armature il valoroso Ricaredo, il quale, così a piè come si ritrovava, senza altra comitiva che quella d'un gran numero di popolo che lo seguitava, andosene al palazzo, dove la regina già stava aspettando che se le portassero nuove dei suoi vascelli.
Con l'altre dame della reina Isabella non compariva manco vestita all'inglese che vestita alla castigliana;
e prima di Ricaredo gionse un altro gentiluomo, che avvisò la regina della tornata d'esso. Turbosi alquanto Isabella sentendo mentovare quel nome Ricaredo, perché tutta ad un tempo ella si vide tra la tema e la speranza di cattivi e prosperi successi del viaggio di lui.
Era Ricaredo alto di statura e ben proporzionato, gagliardo e forte e, come egli veniva armato d'una vistosa armatura milanese di tutta pezza, cioè petto, spalacci, goletta, bracciali e cosciali, il tutto intagliato ed indorato, faceva bella mostra di sé agli occhi de' riguardanti. Non aveva celata in testa ma un capello di falda larga lionato, con un pennacchio di varie piume alla vallona, la spada larga, i pendenti e la cintura ricchi, i calzoni alla francese.
In questo arnese e con la gagliardezza e baldanza del suo andare, alcuni furono che 'l compararono con Marte, dio delle battaglie, ed altri, per la bellezza della sua faccia, a Venere, la quale si fosse così travestita per dar la burla a Marte.
Infine, venuto davanti alla regina e posto inginocchioni, le disse:
Potentissima reina, essendo morto d'apoplessia il generale Lansacco ed io, per grazia di vostra maestà, succedendo nel suo luogo, la buona fortuna mi porse innanzi l'occasione di due galere turchesche che conducevano a rimurchio quel gran navilio che colà sta alla larga.
Io le assaltai ed i vostri soldati combatterono, come sempre sogliono, valorosamente, di modo che, con lo sforzo della vostra fortuna ed il caldo mio desiderio in secondarla, distruggemmo i corsali ed i loro vascelli mandammo a fondo.
Sopra uno dei vostri, a nome della maestà vostra, lasciai andare in libertà gli schiavi cristiani che stavano nelle catene di quei turchi. Solamente ho condotto meco uno spagnuolo con la sua moglie, i quali per curiosità sono venuti a vedere la vostra reale grandezza.
Quel gran navilio è di quelli che vengono dall'Indie di Portogallo; sbattuto dalla tempesta, egli venne a dare nelle mani dei turchi, i quali senza trovarvi resistenza lo presero. Le spezierie, le perle ed i diamanti, che sono dentro, passano la valuta d'un millione d'oro, come affermarono gl'istessi portoghesi che v'eran sopra.
Non ci abbiamo tocco niente, neanche i turchi, perché il cielo l'aveva riserbato ed io comandai guardarlo per la maestà vostra, alla quale con una sola gioia, ch'ella sarà servita donarmi, sarò in obligo di dieci altri vascelli simili. Quella gioia, madama, è Isabella che v. maestà già mi promise:
con quella sarò fatto ricco e premiato, non solamente per il servizio, quale ch'egli si sia ch'io vi rendo, ma ancora per quelli che spero rendervi, per farmi degno, se non del tutto, almen in parte d'un tanto dono.
Levatevi su, Ricaredo rispose la regina, e credete a me che, s'io dovessi darvi Isabella per qualche prezzo, secondo che la stimo, non la potreste pagare con tutto quello che porta quel navilio, neanche con tutto quello che resta nell'Indie.
Io ve la dono, perché ve la promisi.
E sì come ella di voi è degna, voi di lei sete degno. Solo il vostro valore l'ha meritata.
Per me avete riserbate le gioie del navilio, per voi questa ho guardata. E se vi pare ch'io v'oblighi poco, rendovi quello ch'è vostro; nulladimeno so che in questo da me ricevete grandissimo favore: perché le cose che coi desideri si comprano, e tengono la loro estimazione nell'animo di chi le compera, vagliono quello che vale un'anima che non ha prezzo in questo mondo che la possa pagare.
Isabella è vostra, eccovela; potete pigliarne il possesso quando vorrete; ed io credo che le sarà di gusto, però che è discreta e saprà ponderare e conoscere quanto vaglia l'amore che le tenete.
Andate a riposare e domattina ritornate da me a darmi conto più particolarmente di quel vostro combattimento e menate con voi quelli due spagnuoli ch'avete detto esser di proprio moto venuti a vedermi, che ringraziarneli io voglio.
Inchinossi Ricaredo alla regina
ed ella se n'entrò in una stanza e tutte le dame attorniaronlo ed una d'esse, tenuta per la più bella, leggiadra e graziosa, chiamata la contessa di Tansi, la quale aveva contratta stretta amicizia con Isabella, gli disse:
Che cosa è questa, signor Ricaredo? Che arme sono queste? Pensate voi di venir a combattere con i vostri nemici? Sappiate che tutte noi qui vi siamo amiche, dalla signora Isabella in poi, la quale come spagnuola è obligata a non volervi punto di bene.
Signora rispose Ricaredo, pur ch'ella si contenti di volermene un poco, so che, vivendo io nella sua memoria, non potrà essere ch'assai, poiché tante rare virtù e tanta perfetta bellezza non possono aver congionta l'ingratitudine e la crudeltà.
A questo rispose Isabella:
Posciaché, signor Ricaredo, ho da essere vostra, a voi tocca di pigliare tutta quella sodisfazione che desiderate da me in ricompensa delle lodi che fuor d'ogni mio merito vi compiacete darmi e dell'onore che mi fate volendomi per vostra sposa.
Questi ed altri ragionamenti passarono tra Ricaredo, Isabella e le dame, fra le quali era una fanciulla di pochi anni, la quale non levava gli occhi d'adosso a Ricaredo, mentre ivi egli stette;
alzavagli le scarselle per vedere che cosa egli avesse sotto, gli tastava la spada e con semplicità fanciullesca si rimirava nella sua armatura, come se quella fosse stata uno specchio.
Poi, quando egli si fu partito, voltatasi alle dame con natia grazia lor disse:
Adesso, signore, io m'imagino che la guerra dev'essere bellissima cosa, poiché gli uomini armati compariscono così bene, massimamente fra le donne.
Ma come comparire? rispose la contessa Guardate Ricaredo, egli rassembra il sole disceso in terra, per in quell'abito passeggiar per la strada.
Tutte ebbero da ridere di ciò che la fanciulla aveva detto e della stravagante comparazione della contessa. E non mancarono invidiosi che giudicarono per una impertinenza e vanità l'esser venuto Ricaredo tutt'armato al palazzo, benché da altri fosse scusato con dire che come soldato poteva farlo e dar mostra di sé in quella bizarria.
Finalmente ei si ritirò da' suoi parenti et amici che lo ricevettero con dimostrazione di grande amore.
Si fecero in quella notte per tutta Londra allegrezze con fuochi e luminarie, per il felice successo del suo viaggio.
Già il padre e la madre d'Isabella erano gionti a casa di Clotaldo, a cui Ricaredo aveva detto chi eglino fossero, pregandoli di non voler loro dar nuova alcuna della figliuola sin tanto che lui stesso non gliela portasse.
E questo avviso l'ebbero ancora la signora Caterina di lui madre e tutta la famiglia.
In quella medesima notte con molti burchi ed altre barche si cominciò a scaricare il gran navilio con concorso di popolo che veniva a vedere durando otto giorni che si stette a votare esso vascello.
Il dì seguente, Ricaredo venne al palazzo, menando seco il padre e la madre d'Isabella, vestiti di nuovo all'inglese, e lor aveva detto che la regina gli voleva vedere.
Arrivato con quelli davanti a sua maestà che stava in mezo alle sue dame e che, per favorirlo, accanto a lei avea fatto mettere Isabella, vestita de' medesimi vestiti ch'ella portava la prima volta, mostrandosi non essere men bella allora di quel che l'era innanzi,
il padre e la madre, stupiti di vedere tanta grandezza e magnificenza insieme,
con tutto che la riguardassino e che un batticuore non affannoso, ma che lor faceva sentire una certa allegrezza che non potevano intendere, lor presagisse il bene ch'avevan appresso, non la conobbero.
La regina non acconsentendo che Ricaredo stesse inginocchioni davanti a lei, gli comandò non solamente levarsi su ma anche lo fece sedere sopra uno scabello ch'ella per questo ivi fatto portar aveva, favor inusitato all'animo altiero della regina;
il che diede da dire ad alcuni:
Ricaredo oggi non siede sopra lo scabello che gli hanno dato ma sopra le spezierie e le gioie ch'ha guadagnate.
Un altro vi aggionse:
Adesso si verifica il comun proverbio che dice che i presenti spezzano le pietre, poiché quelli di Ricaredo hanno fatto simil effetto nell'animo indurito della regina.
Insomma, da quel nuovo onore che gli fu fatto, l'invidia si prese occasione di mormorare negli animi di molti, che ivi stavano presenti, perciò che non è favore che 'l prencipe faccia al suo favorito che non sia una lancia che trafigge il cuore dell'invidioso.
Volle la regina sapere da Ricaredo i particolari del combattimento con i corsali;
ed egli di nuovo gli raccontò, attribuendo la vittoria a Dio, alla felice sorte di sua maestà ed al valore de' suoi soldati, lodandogli tutti insieme e segnalando alcune prove particolari d'alcuni che s'erano portati meglio degli altri; il che fece che la regina gli ricompensasse in generale ed in particolare, secondo il merito di ciascuno. E quando egli venne a toccar della libertà che a nome di sua maestà aveva donata a' cristiani ed ai turchi disse:
Quell'uomo e quella donna là mostrando il padre e la madre d'Isabella sono quelli di chi ieri io dissi a vostra maestà che con grandissima istanza m'avevano pregato ch'io gli volessi condurre con esso meco, per il desiderio ch'hanno di veder lei e la magnificenza della sua corte.
Eglino sono di Calis e, per quello che m'hanno raccontato ed ho osservato in essi, sono persone d'onorata qualità e di valore.
La regina se gli fece appressare
ed Isabella stava guardando attentamente quelli che si diceva essere spagnuoli, e particolarmente di Calis, con desiderio di sapere se conoscevano i suoi parenti;
e rivolgendo gli occhi addosso a sua madre, che per mirarla più fissamente stava ferma senza moversi punto, ella sentì nella sua imaginazione una confusa rimembranza che le voleva ricordare altre volte aver veduto quella spagnuola che le stava davanti.
Si ritrovava il padre nella medesima confusione e non osava risolversi a creder alla verità che si mostrava ai suoi occhi.
Stava Ricaredo attentissimo a considerare gli affetti ed i moti di quelli tre animi sì dubbiosi e perplessi tra il sì ed il no del conoscersi.
S'accorse la regina della sospensione d'entrambi ed anco della turbazione d'Isabella, perché la vidde sudar fuor di modo e spesse volte portar la mano a rassettarsi i capegli.
Era bramosa Isabella di sentir parlare colei ch'ella pensava esser sua madre, sperando che potria essere che i suoi orecchi la trarrebbono fuora della confusione nella quale i suoi occhi l'avevano immersa.
Volle la buona sorte favorir il suo desiderio, quando che la regina le comandò di domandare in lingua spagnuola a quell'uomo e quella donna perché non avevano voluto goder la libertà che Ricaredo lor aveva donata, essendo quella la più amata e cara cosa, non solamente agli uomini ma anche ai brutti.
Tutto questo domandò Isabella a sua madre, la quale, senza risponderle una sola parola e quasi inciampando, s'accostò alla figliuola e, senza più guardar rispetto né legge di corte, mettendole la mano nell'orecchia destra, vi trovò un neo nero, il quale chiarì ogni suo dubbio.
Così veggendo chiaramente che quella era sua figliuola Isabella, abbracciola strettamente, prorompendo in queste parole:
Oh, cara vita mia!
E senza poter dir altro, cascò tramortita in seno ad Isabella.
Il padre, non manco tenero che prudente, diede ad intendere il suo dolore, non con parole ma con lagrime che gli bagnavano la faccia.
Congionse Isabella la sua con quella della madre e, rivolgendo gli occhi al padre, di modo tale il guardò ch'egli comprese i diversi effetti del gusto e del disgusto ch'ella sentiva in vedergli.
Di tal successo stupì la reina e disse a Ricaredo:
Io penso, Ricaredo, che dalla vostra discrezione proceda questa congiontura e non vale il dire ch'ella sia a caso, perché sappiamo che così può far morire una subita od impensata allegrezza, come una tristezza.
E dicendo questo voltosi ad Isabella e l'appartò da sua madre, la quale, essendosi un poco riscossa a forza d'acqua spruzzatale nella faccia e ritornata in sé, gittossi ai piedi della regina e così le disse:
Io prego umilissimamente la maestà vostra a perdonar al mio ardire e considerare che non è da meravigliarsi che si perda i sentimenti dall'allegrezza del ritrovare questo caro pegno.
Risposele la regina ch'aveva ragione, servendo d'interprete Isabella ai suoi parenti, ai quali sua maestà comandò che stessero in palazzo, acciò avessero più agio di vedere e parlare con la lor figliuola e rallegrarsi con lei.
Perloché Ricaredo sentì grandissimo contento e di nuovo supplicò la regina che le volesse compire la promessa, che le aveva fatta, di dargli Isabella, se tanto fosse ch'egli la meritasse; o, se non la meritasse ancora, la supplicava che senza indugio l'impiegasse in occasioni che 'l facessero degno di ottenere quello ch'ei desiderava.
Ben intese la regina che Ricaredo restava sodisfatto di sé medesimo, per il suo molto valore, e che non bisognava altre prove,
per che gli disse che di lì a quattro giorni gli darebbe Isabella.
Con questa promessa si partì Ricaredo, contentissimo per la propinqua speranza di possedere la cosa amata ch'è il fine del desiderio degli amanti.
Corse il tempo, però non con quella prestezza che Ricaredo desiava; ed è così che quelli che vivono con isperanza di promesse sempre s'imaginano che 'l tempo non voli, se non ch'egli camini con i piedi della pigrizia.
Tuttavia gionse il giorno nel quale non solamente pensava Ricaredo dar fine ai suoi desideri ma trovar nuove grazie in Isabella che lo portassero a volerle ancor più bene, se più egli potesse.
Ma in quel breve spazio di tempo ch'ei pensava che la nave della sua buona fortuna corresse con prospero vento verso il porto dei suoi desideri, la contraria sorte nel suo mare concitò tanta fortuna che mille volte egli si vidde in sul punto di naufragare; e fu in questo modo.
La di sopra mentovata cameriera maggiore della regina, nella cui custodia era Isabella, aveva un figliuolo d'anni ventidue, per nome il conte Ernesto.
La grandezza dello stato suo, la chiarezza del suo sangue ed il molto favore di sua madre appresso la regina il facevano oltramodo arrogante, altiero e prosontuoso.
Divenne questo Ernesto sì fattamente innamorato d'Isabella che pareva che il cuor suo s'andasse distruggendo al fuoco degli occhi di lei.
E quantunque, mentre era stato assente Ricaredo, egli le avesse significato i suoi desideri, ella nondimeno mostrò quelli non esserle grati.
E dato che i disdegni opposti al nascente amore sogliono rimovere gl'innamorati dalla lor impresa, però in Ernesto operarono il contrario le ripulse d'Isabella: perché facevano maggior incendio nell'animo di lui.
Ma com'egli vidde che Ricaredo, secondo la sentenza della reina, s'aveva meritata Isabella e che in sì breve tempo gliela dovevano dare per moglie, poco mancò che non si disperasse. Tuttavia, innanzi che venire a sì infame e codardo rimedio, parlò con sua madre, pregandola di voler domandare alla regina Isabella per sua sposa; e se gliela negasse, senz'altro da quell'ora la morte avrebbe il possesso della vita di lui.
Fortemente maravigliata restò la madre delle parole del figliuolo e, come quella che conosceva l'aspera condizione dell'umore di quello e la tenacità ed ostinazione con che i desideri se gli attaccavano nell'animo, temé che i suoi amori venissero a dare in qualche infelice successo.
Ma come madre, a cui è cosa naturale il procurare il bene de' figliuoli, ella promise al suo di parlare con la regina, non con isperanza di ottenere l'impossibile, cioè di farle rompere la sua promessa, ma per non lasciar di tentare i più disperati ed ultimi rimedi.
Et essendo quella mattina Isabella vestita, per comandamento della reina, sì riccamente che non basta la penna a scriverlo ed avendole sua maestà di propria mano adornato il collo d'una filza di perle delle migliori che 'l navilio dall'Indie portate avesse, quelle stimate in ventimila scudi, e postole in dito un diamante in un anello di valuta di seimila scudi, e tutte le dame della corte in bisbiglio per la festa delle prossime nozze, ecco entrare la cameriera maggiore sopradetta della reina, madre del conte Ernesto, la quale, gettandosi ai piedi di sua maestà, la supplicò di voler sospendere lo sponsalizio d'Isabella per ancora altri dui giorni, che con questo favore ella si terrebbe per sodisfatta e ricompensata di tutti i suoi servizi.
Prima volse sapere la regina perché con tanta caldezza le domandasse quella sospensione, la quale tanto dirittamente andava contra la promessa ch'aveva fatta a Ricaredo.
Ma la cameriera non glielo volle dire se non dopo che la regina le ebbe concessa la domanda, per lo gran desiderio ch'aveva d'intendere la causa di quella.
Questo ottenuto, ella raccontò alla reina gli amori del figliuolo con Isabella e come ella temeva che, se non gliela dessero per moglie, egli venisse in qualche disperazione od a qualche atto scandaloso, dicendole
che quei due giorni di sospensione ch'ella domandati aveva era acciò sua maestà avesse tempo di pensare che mezo saria a proposito, e conveniente, per dar rimedio all'innamorato figliuolo.
Rispose la regina che, se la parola data non l'impedisse, ch'ella troverebbe esito a sì intrincato laberinto, ma non poteva disdirsi né voleva defraudare le speranze di Ricaredo, per quanto avesse il mondo.
Questa risposta riferì la madre al figliuolo, il quale senza fermarsi un momento, ed ardendo d'amore e di gelosia, armossi di tutta pezza e, montato sopra un poderoso cavallo, si presentò davanti alla casa di Clotaldo e ad alta voce chiamò Ricaredo, acciò si affacciasse alla finestra. Era allora Ricaredo pomposamente vestito da sposo ed all'ordine per gire al palazzo alle sue nozze, con la compagnia che quell'azione richiedeva;
ma avendo udita la voce, ed essendogli detto chi fosse quello che lo chiamava ed in che arnese veniva, con qualche poco di commozione si fece alla finestra; e come Ernesto il vidde disse:
Ricaredo, sta' a sentire quello che voglio dirti. La regina, signora nostra, ti comandò che tu andassi a servirla in mare e far prove che ti facessero meritare la senza pari Isabella.
Tu v'andasti e ritornasti col vascello carco d'oro, col quale tu ti pensi averla acquistata;
e con tutto che sua maestà te l'abbia promessa, è stato credendo che non vi sia nella sua corte alcuno che meglio di te possa servirla e meritare Isabella, in che facilmente potrassi esser ingannata.
E così stando io in questa opinione, anzi in questa verità, dico che tu non hai fatto prove che ti possano fare degno d'Isabella né mai potrai farne alcuna ch'a tanto onore ti possa innalzare. E se vuoi dire in contrario, io ti sfido a mortale battaglia meco.
Tacque il conte. E Ricaredo gli rispose:
Signor conte, in quanto a me è vana la vostra disfida e non mi tocca, perché io confesso che non solamente son indegno d'Isabella ma anche nissun uomo, che viva oggidì nel mondo, non la merita.
Di modo che, confessando io quello che dite, vi torno a dire che la vostra disfida non può toccarmi; ciò nonostante, io l'accetto per castigare la temerità vostra in isfidarmi.
Detto questo, si levò dalla finestra e dimandò che prestamente gli portassero le sue arme.
Si conturbarono i parenti e tutta quella compagnia che era venuta con esso lui;
e della molta gente ch'aveva veduto il conte armato, ed udita la disfida, non mancò che andasse ad avvisarne la regina, la qual comandò al capitano della sua guardia che andasse a prendere il conte.
Usò tanta diligenza il capitano ch'ei arrivò in quello che Ricaredo di casa usciva, sopra un gran cavallo ed armato con le medesime arme ch'egli aveva indosso quando sbarcossi.
Non sì tosto il conte vidde il capitano ch'ei si imaginò a che fosse venuto; e, risoluto di non lasciarsi prendere, ad alta voce disse a Ricaredo:
Tu vedi l'impedimento che ne vien dato;
s'hai voglia di vedermi, tu mi cercherai ed io cercherò te, per quella ch'ho di castigarti; e poi che due uomini che s'odiano l'un l'altro facilmente s'incontrano, rimettiamo l'esecuzione del nostro disegno alla prima occasione che ci rivedremo.
Me ne contento rispose Ricaredo.
In questo gionse il capitano co' suoi soldati e disse al conte che in nome di sua maestà lo faceva prigione.
Pregollo il conte che non lo menasse se non davanti alla regina.
Il capitano gli concesse questa grazia e, toltolo in mezo alle guardie, lo condusse al palazzo davanti a sua maestà, la quale già era informata dalla cameriera dell'amor grande che 'l suo figliuolo portava ad Isabella ed era stata supplicata con lagrime di voler perdonar al conte, il quale, come giovine ed innamorato, s'era lasciato trasportare da' sensi ed era sottoposto a maggiori errori.
Presentatosi Ernesto davanti alla regina, la quale senza con lui entrare in ragioni comandò se gli levasse la spada e fosse cacciato in prigione.
Tutte queste cose angustiavano in gran maniera l'animo d'Isabella e delli suoi parenti, i quali in sì poco di tempo vedevano turbato il lor riposo.
La cameriera consigliò alla regina che, per evitare il male che potesse nascere da quella differenza tra i parenti di Ricaredo ed i suoi, che si levasse la causa, ed era quella Isabella, rimandandola in Ispagna e così cesserebbono gli effetti ch'erano da temere, aggiongendo ch'ella era sì catolica che nessuna delle sue persuasioni, che erano state molte, avevano potuto distorla dalla sua credenza.
A che rispose la regina che per questo l'aveva in maggiore stima, perché stava bene guardar la legge insegnata da' padri; e del mandarla in Ispagna non occoreva trattare, perciò che saria privarla del gusto che la presenza della sua bellezza, le sue virtudi e la sua grazia le davano, e che senz'altro, in quel giorno od il seguente, la daria per isposa a Ricaredo, secondo gli aveva promesso.
Con questa risoluzione della regina restò sì sconsolata la madre del conte che non potette replicarle parola. E credendosi, come creduto aveva, che altro rimedio non era al male del figliuolo che di levargli d'innanzi Isabella, poiché non v'era speranza di ottenerla, determinò usare una delle maggiori seleratezze e crudeltà che mai potesse venire in pensiero a gentildonna della sua qualità
e fu di farla morire con veleno.
Con ciò sia che della maggior parte delle donne sia l'esser determinate e pronte ad eseguire ciò ch'hanno risoluto, quella medesima sera ella le diede il tossico in una conserva, o confezione, ch'essa le fece pigliare per forza, persuadendole ch'era salutifero rimedio contra quella ambascia, ed angoscia, che le tormentava il cuore.
Poco tempo dapoi che Isabella l'ebbe pigliato, se le cominciò ad enfiare la lingua e la gola; le labbra le diventarono livide, la voce rauca, gli occhi appannati ed a mancarle la respirazione, tutti segni sicuri ch'era stata avvelenata.
Subito andarono le dame ad avvisare la regina di ciò ch'era passato, assicurandola che la madre del conte Ernesto aveva commesso quell'atto:
cosa che facilmente credé la regina, la quale andò a visitare Isabella e la trovò aver quasi perduti i sentimenti;
e mandando per i suoi medici, le diede fra tanto buona quantità di polvere di lioncorno ed altri antidoti, de' quali i prencipi grandi sogliono esser proveduti per cotali accidenti.
Venuti i medici, raddoppiarono i rimedi e pregarono la regina che volesse far domandare alla cameriera che genere di veleno le avesse dato; il che avendo dichiarato ed i medici fatti più certi del male vi applicarono tanti e sì efficaci rimedi che, mediante quelli e con l'aiuto di Dio, restò Isabella in vita o per lo manco con qualche speranza di vivere.
Fece la regina prender la madre del conte e metterla in una prigione, con intenzione di farla castigare, benché per discolpa sua ella allegasse che in far morire Isabella saria sacrifizio grato al cielo, levando dalla terra una catolica e con lei l'occasione delle differenze col suo figliuolo.
Intese da Ricaredo queste cattive nuove, egli venne in termine di perdere il senso, tante e tali erano le cose ch'ei faceva e le ragioni con che si querelava.
Finalmente per quella volta non morì Isabella ma se le spelarono le ciglia e le palpebre dalla gran forza del veleno ed i capegli le cascarono tutti; diventò il viso enfiato, il colore squalido, la pelle tutta rovinata e gli occhi lippi.
Insomma, rimase sì brutta che, come per l'innanzi era stata un miracolo di bellezza, era allora un mostro di deformità,
di modo tale che quelli che la conoscevano stimavano la disgrazia esser maggiore in avere perduta così la sua bellezza che se il veleno le avesse tolta la vita.
Non per questo lasciò Ricaredo di domandarla di nuovo alla regina e la supplicò che gli permettesse di portarsela a casa, perché l'amore, che le teneva, non solamente era pel corpo ma allo spirito passava, e che, se Isabella la sua bellezza avea perduta, però non aveva perdute le doti dell'animo e l'infinite sue virtudi.
Così è disse la regina, portatevela a casa, Ricaredo, e fate conto di portarvi una preziosissima gioia in uno scatolino guasto.
Sallo Iddio ch'io vorrei darvela come voi me la rimetteste ma, poiché non è possibile, abbiate pazienza. Potrebbe essere che il gastigo, che farò dare alla colpevole di questo delitto, sarà di qualche sodisfazione al danno vostro, overo al dispiacere che ne avete.
Molte cose disse alla regina Ricaredo, scusando la madre del conte e supplicando sua maestà di voler perdonarle, posciaché le discolpe ch'ella dava bastavano a fare che si perdonasse maggior peccato.
Alla fine Isabella ed il padre e la madre furono consignati a Ricaredo, il quale gli menò a casa de' suoi parenti;
e la regina aggionse alle perle, al diamante ed alle vesti, che già le aveva donate, tanti altri presenti che ben si potette comprendere il grand'amore che le portava. Stette Isabella due mesi con quella bruttezza, senza dar indizio alcuno di potere ricuperare la pristina sua bellezza; poi, passato questo tempo, cominciò a cascarle la pelle contaminata ed a rischiararsele il sangue.
Ma i parenti di Ricaredo, non pensando che fosse cosa possibile che Isabella mai ritornasse nella primiera sua bellezza e grazia, deliberarono di ripigliar a trattare il parentado di Ricaredo, senza ch'ei lo sapesse, con la gentildonna scozese, con cui l'aveva accordato innanzi che con Isabella, non dubitando essi che la bellezza presente della nuova sposa non facesse scordare al figliuolo la bellezza passata della sventurata Isabella, la quale pensavano rimandare in Ispagna, insieme coi suoi parenti, e dar loro tanta ricchezza e comodità che potesse ricompensare i patiti danni.
Non era ancor trascorso un mese e mezo, quando che, senza esserne avvisato Ricaredo, venne a casa de' parenti di lui la nuova sposa, accompagnata da sua pari e così bella che dalla bellezza, che soleva aver Isabella in poi, non era in tutta Londra un'altra simile.
Commossesi fortemente Ricaredo per l'improvisa presenza della donzella e temé che l'impensato arrivo di lei avesse da levar di vita Isabella; ma per prevenire questo male, andossene a trovarla che stava in letto e, presenti i suoi parenti, così le disse:
Isabella cuor mio, i miei parenti, per significarmi il grand'amore ch'essi mi tengono e non essendo ben informati del grandissimo ch'io ti porto, hanno condotta qui in casa una donzella scozese, con la quale, innanzi ch'io conoscessi il tuo valore e merito, avevan concertato ammogliarmi;
e questo, credo, con intenzione che la bellezza della donzella scancelli la tua che nell'anima impressa eternamente io portarò.
Dal principio ch'io t'amai, il mio amore non fu di quelli ch'hanno il lor fine nel sodisfare al sensuale appetito, perché, se le bellezze del tuo corpo vinsero i miei sensi, l'infinite tue virtudi non ebbero manco potere per fare che l'anima mia loro restasse schiava; di sorte che, se quando eri bella io t'ho amata, ora, ancorché brutta fatta sei, io t'adoro; e per confermare questa verità, dammi, ti prego, la tua mano.
Allora, porgendogli la mano destra ed egli con la sua pigliandola, seguitò a dire:
Per quella fede che i miei parenti m'hanno insegnata, dico, per quella fede catolica romana, nella qual credo e confesso esser la vera, e per il vero iddio che n'ode, ti prometto Isabella, anima mia, d'esserti sposo e da quest'ora io lo sono, se tu vuoi innalzarmi a cotanta felicità.
Alle parole di Ricaredo restò sospesa Isabella ed i suoi padri attoniti e confusi.
Ella non seppe altra cosa che dir né fare, se non baciare molte volte le mani a Ricaredo e dirgli con voce fievole, ed interrotta da sospiri, ch'ella l'accettava per suo e si donava a lui per sua schiava.
Baciola Ricaredo in quel viso imbruttito, al quale mai aveva avuto ardire di accostarsi, mentre fu bello.
I parenti d'Isabella solennizarono la festa con assai lagrime;
e Ricaredo disse loro ch'egli ritarderebbe il matrimonio con la scozese nel modo ch'essi vedrebbono.
E se fra tanto il di lui padre volesse rimandargli tutti tre in Ispagna, non v'opponessino dificoltà alcuna e l'aspettassero due anni in Calis o in Siviglia, nel qual tempo prometteva esser con loro, se 'l cielo il favorisse di tanta vita.
E se passato questo termine nol rivedessino, fossero certi che qualche grave impedimento, overo la morte, l'avesse ritenuto.
Gli rispose Isabella che non solamente due anni ma mentre ella vivesse l'aspettarebbe; e sin a tanto che sapesse di non esser più vivo, perché il momento nel quale le venisse sì infelice nuova sarebbe quell'istesso della sua morte.
A queste teneri parole si rinuovarono le lagrime in tutti; ed uscendo Ricaredo dalla camera d'Isabella passò in quella de' parenti di lui a dir loro che a patto nessuno era per dar la mano alla scozese, né con lei accasarsi, senza primieramente essere stato a Roma ad assicurare la sua coscienza.
Sopra tante e tali ragioni egli fondava la necessità di quel viaggio che suoi parenti, e quelli di Clisterna (che così si chiamava la scozese) ch'eran venuti con essa lei, come catolici le credettero tutte e furono astretti di concedergli quello che non potevan impedire. E Clisterna si contentò di starsene in casa del suocero, sin che tornasse Ricaredo in termine d'un anno.
Questo conchiuso e stabilito, disse Clotaldo a Ricaredo ch'ei era risoluto di rimandare Isabella in Ispagna, e 'suoi parenti, se la regina gliene desse licenza, perché potrebbe essere che l'aria della natia patria le agevoleria la sanità che già cominciava a tornarle.
Ricaredo, per non iscuoprire i suoi disegni, rispose freddamente al padre ch'egli facesse quello che meglio gli paresse;
solamente lo supplicò che non volesse levare ad Isabella niente di ciò che la regina le aveva donato.
Promesseglielo Clotaldo ed indi a poche ore andò a domandar licenza a sua maestà, sì per ammogliare il figliuolo con Clisterna, come per rimandare in Ispagna Isabella e 'suoi parenti.
Se ne contentò la regina e le parve a proposito la risoluzione di Clotaldo.
Et in quel medesimo giorno, senza parere di giudici e senza far formar processo contra la madre del conte, la condannò in diecimila scudi d'oro per riparazione ad Isabella e che perdendo il suo uffizio fosse scacciata dalla corte; e per la sfida del conte Ernesto, lo bandì per sei anni fuor d'Inghilterra.
In capo a quattro giorni il conte sfrattò il paese ed i denari della condanna furon pagati.
Mandò la reina a chiamar un ricco mercante francese, che stava in Londra ed aveva corrispondenza in Francia, Italia e Spagna, al quale fece dare i diecimila scudi e gli comandò farne lettera di cambio, acciò fussero pagati al padre d'Isabella in Siviglia od in altra piazza di Spagna.
Promise alla reina il mercatante che, scontati gl'interessi della rimessa di essa somma, la darebbe sicura sopra un altro mercatante francese suo corrispondente in Siviglia, in questa forma: ch'egli scriverebbe a Parigi, acciò li si facesse la lettera di cambio da pagarla ad un altro suo corrispondente, perché si vedesse essere fatta in Francia e non in Inghilterra, a causa del commerzio bandito tra i due regni, e che bastava portare una sua lettera d'avviso, senza data di luogo, con i suoi contrasegni, acciò ch'a lettera vista pagasse il denaro il banchier di Siviglia, il quale da quel di Parigi già sarebbe avvisato.
Insomma la regina si contentò di queste sicurtà e non dubitò niente della partita.
Oltra di ciò mandò sua maestà per un patrone d'una nave fiamenga che 'l dì seguente stava di partenza per Francia, per solamente ire a pigliarvi attestazione d'essersi partito da quella e non da Inghilterra, affin di poter entrare in Ispagna, al quale ella comandò e raccomandò strettamente di portarvi con sicurezza e buon trattamento Isabella ed i suoi padri in quel porto che a loro piacesse.
Il patrone, che desiava contentar la regina, rispose che tanto farebbe e che gli sbarcheria in Lisbona, Calis o Siviglia.
Avendo dunque la regina ricevuta dal mercatante la lettera di cambio, ella mandò a dire a Clotaldo che non levasse ad Isabella cosa alcuna dei vestiti e delle gioie che le avea donate.
L'altro giorno venne Isabella ed i suoi padri a pigliare licenza da s. m. che la lor diede con dimostrargli segni di molto amore. Di più della lettera di cambio, donò loro ancora assai altri presenti, sì di denari, come di rinfrescamenti per il lor viaggio, di che Isabella ringraziò la reina, con parole tanto giudiziose e discrete che sua maestà restò per volerle continovare i suoi favori e farle del bene.
Licenziossi anche dalle dame, le quali non averebbono voluto ch'ella si partisse poiché, diventata sì brutta, erano risanate dall'invidiosa gelosia ch'esse avevano alla passata sua bellezza.
Abbraccioli la reina tutti tre e, raccomandandogli a Dio ed al patrone della nave e pregando Isabella che l'avvisasse del suo felice arrivo in Ispagna e sempre mai della sua salute per via del mercante francese, gli lasciò ire ad imbarcarsi quella medesima sera, non senza lagrime di Clotaldo e della moglie e di tutta quella famiglia, da chi era benvista.
Non volle a questa partenza ritrovarsi presente Ricaredo, il quale per non mostrare alcun segno di sentimento fece che quell'istesso giorno lui e certi amici suoi andarono a caccia.
I regali che la signora Caterina donò ad Isabella pel suo viaggio furono molti, gli abbracciamenti infiniti, le lagrime in abondanza, i prieghi che le volesse scrivere senza numero ed i ringraziamenti d'Isabella e de' suoi padri corrisposero di maniera a tutte quelle cortesie che, benché gli lasciarono piangenti, gli lasciarono anche sodisfatti.
Quella notte il vascello fecesi alla vela, ed avendo con prospero vento tocca la Francia e pigliate le attestazioni necessarie per poter sbarcare in Ispagna, di lì a un mese se n'entrò nella riviera di Calis, ove nel suo porto Isabella ed i suoi padri smontarono in terra;
ed essendo conosciuti da tutti quelli della città, da loro furono ricevuti con molta allegrezza e maggiormente perché avevano ritrovata Isabella, nella quale già appariva grande speranza di ritornarle la pristina bellezza, ed anche per la ricuperata libertà, tanto nell'essersi salvati dalle mani de' mori, quanto nell'averla ottenuta dagl'inglesi, come avevano saputo dagli schiavi, i quali da Ricaredo furono lasciati andare liberi.
Poco più di un mese stettero in Calis a rifarsi dalla fatica della navigazione, poi se n'andaron a Siviglia, a riscuotere i loro diecimila scudi dal mercante francese.
Due giorni doppo esservi gionti, lo trovarono e gli mostrarono la lettera di cambio che 'l mercante francese di Londra gliene scriveva; egli la riconobbe e disse che non poteva pagare quella somma, sin tanto che da Parigi non gli venissero le lettere d'avviso, le quali di giorno in giorno ei stava aspettando.
I padri d'Isabella presero ad affitto una bellissima casa dirimpetto a Santa Paula, perché in quello monasterio era monica una loro nipote, a cui volevano stare vicino, ed anco perché Isabella aveva detto a Ricaredo che dalla monaca sua cugina, la qual per contrasegno fra tutte l'altre del monasterio era quella ch'aveva la miglior voce e cantava meglio, gli sarebbe insegnata la casa dove si fossero stanziati.
Stettero gli avvisi quaranta giorni a venir da Parigi e due giorni dapoi il mercatante contò ad Isabella ed a' suoi padri gli diecimila scudi; e con quelli, e con altri che cavarono dalle molte gioie d'Isabella che vendettero, tornò suo padre ad esercitare il commercio di mercatante, non senza meraviglia di quelli che sapevano le grandissime perdite ed i danni ch'avevano patiti.
Infine, pochi mesi passarono ch'egli si vide ritornato il credito perduto e la bellezza d'Isabella rifiorì come prima, di modo tale che fra le belle si dava il lauro alla spagnuola inglese che, tanto per questo nome, quanto per quello della sua bellezza, era conosciuta da tutti della città.
Per mezo del mercante francese di Siviglia, Isabella e 'suoi padri scrissero alla regina d'Inghilterra, dandole avviso del loro arrivo in Ispagna e ringraziando con ogni sommissione sua maestà delli moltissimi favori e benefici ricevuti da lei.
Scrissero ancora a Clotaldo e sua moglie, chiamandoli padri Isabella ed i propri padri signori.
Dalla regina non ebbero risposta ma da Clotaldo e dalla moglie sì, i quali rallegrandosi con essi gli avvisavano come, il giorno seguente a quello che s'erano partiti, Ricaredo, anche lui, s'era messo in viaggio per Francia e di là verso Roma, aggiongendo a queste nuove per testimonianza d'amore molti cortesi offerimenti.
Alle quai lettere risposero con altre non men piene di cortesia e complimenti.
E subito Isabella s'imaginò che l'aver Ricaredo lasciata l'Inghilterra era per in Ispagna venire a trovarla; e con questa speranza ella viveva la più contenta di questo mondo e procurava vivere e comportarsi di modo che, quando Ricaredo giongerebbe in Siviglia, anzi venisse alla sua notizia la fama delle virtù sue, e del suo valore, che la cognizione dell'abitanza sua.
Non ne usciva mai, se non quando che rarissime volte ella andava al monasterio e mai pigliava perdonanza che quella che ivi si dava.
Dall'oratorio di sua casa giva con il pensiero, i venerdì della quaresima ed i sette seguenti dello spirito santo, alla santissima stazione della croce.
Mai andò sin al fiume, non passò a Triana né mai vidde la festa e commun allegrezza nel campo di Tablada e nella porta di Xeres in giorno di San Sebastiano, celebrato da tanta gente ch'appena si può dirne il numero.
Insomma, ella non andò mai a festa né a bagordo publico che si facesse in Siviglia; ma se ne stava ritirata in casa alle sue orazioni ed onesti trattenimenti in aspettando Ricaredo.
Questa sua ritiratezza accendeva i desideri non solamente delli zerbinotti del vicinato ma anche di quelli ch'una volta l'avevano veduta, dal che nacquero serenate nella sua contrada e di giorno corsi di cavalli.
Oltre che da questo non lasciarsi ella vedere e dal gran desiderio che n'avevano molti, crebbe l'utile delle mezzane che promisero mostrarsi esser le prime e l'uniche in sollecitar Isabella.
Ma Isabella a tutto questo stava salda, quasi scoglio battuto e dai venti e dall'onde, non però mosso.
Già un anno e mezo era trascorso, quando che la prossima speranza del ritorno di Ricaredo, in capo delli due anni da lui promessi, cominciava a travagliare in gran maniera, e più che mai, l'animo d'Isabella.
E quando le pareva che giongesse lo sposo e ch'avendoselo davanti gli domandasse quali impedimenti l'avessero ritardato tanto. Quando ancora che agli orecchi suoi fossero pervenute le scuse d'esso e che le perdonasse, lo ricevesse ed abbracciasse come altra metà di lei, ecco capitarle in mano una lettera della signora Caterina, scritta in Londra, cinquanta giorni innanzi,
ed era in lingua inglese e diceva così:
Cara figliuola mia, ben conoscesti Ghigliardo, il paggio di Ricaredo:costui se n'andò con lui nel viaggio per Francia ed Italia, come con altra mia t'ho avvisato e ch'egli si fosse partito il giorno dopo che tu ti partisti da noi.E passato un anno e quattro mesi che non avevamo avute nuove del figlio nostro, il medesimo Ghigliardo ritornò ieri, con avviso che 'l conte Ernesto l'avesse morto a tradimento in Francia.Pensa, figliuola, con che risentimento restiamo suo padre ed io e la sua sposa.Ti preghiamo, anima mia, che tu prieghi Iddio per quella di Ricaredo, la quale da te ha meritato questo pietoso ufficio, per l'amor che tu sai ch'ella ti ha portato.Pregherai anco il medesimo signore che ne dia pazienza e buona morte e noi lo supplicheremo che a te voglia dare ed a' tuoi padri lungo e prospero corso di vita.
Al carattere ed alla sottoscrizione credette Isabella essere morto il suo sposo;
ella riconosceva molto bene Ghigliardo il paggio e sapeva ch'esso non era bugiardo e che da sé non averebbe voluto fingere quella morte; manco aveva soggetto di fingerla neanche la signora Caterina, a cui tal finzione di così fatta nuova non poteva importare.
Finalmente, niun discorso ch'ella facesse, nissuna cosa ch'ella s'imaginasse non puoté fare che non credesse purtroppo vera la nuova della sua disgrazia.
Finito ch'ebbe di leggere la lettera, senza spargere lagrime né dar segni esteriori del suo dolore, con faccia costante e petto in apparenza non turbato, alzossi in piedi da sopra uno strato in che sedeva ed entrò in un oratorio, ove inginocchioni davanti ad un crocifisso fece voto di monacarsi, posciaché lo poteva fare, tenendosi per vedova.
I suoi parenti con gran discrezione e segretezza ressero all'angustia che sì cattiva nuova lor aveva causato, per poter meglio consolar quella d'Isabella, la quale, come quasi sodisfatta del suo dolore e temperandolo con la santa e cristiana risoluzione ch'ella aveva fatta, consolava i suoi padri. Poi avendo loro dichiarato il suo intento, eglino le consigliarono di non mandarlo ad effetto sin che non passassino i due anni che Ricaredo aveva limitati pel suo ritorno. E che in questo tempo si saprebbe il certo s'egli fosse o morto o vivo; e così s'ella avesse da mutare stato lo potria fare con maggior sicurrezza.
S'attenne Isabella a questo buon consiglio ed i sei mesi e mezo che restavano ancora per compire i due anni gli spese in esercizi di pietà quasi religiosa e, per entrare nel monastero, ebbe ad eleggere quello di Santa Paola, ove stava la sua cugina.
Trascorse il termine delli due anni e gionse il giorno di vestir l'abito, di che, sparsa la voce per tutta la città, il monastero e la distanza dalla casa d'Isabella insin a quello furono pieni di persone che conoscevan lei per vista ed altre n'avevano notizia per solamente averne udito parlare.
I suoi parenti pregarono i loro amici e questi altri menarono a fare l'accompagnamento ad Isabella, il quale fu uno dei più onorati che in simile occasione si fosse veduto in Siviglia.
V'intervennero il vicarico dell'arcivescovo, l'assistente ed il proveditore, con tutti i signori e le signore principali della città, tant'era il desiderio di tutti di rivedere quel bel sole che per sì lungo tempo lor era stato eclissato.
E perché è usanza delle donzelle quando vanno a vestirsi da monache andarvi adornate delle più ricche e pompose vesti che possibile sia, per isvaporare l'ultima vampa dello splendore mondano, di cui la vanità, quasi doppiere acceso, risplende via più quando s'estingue, volle Isabella comparire il meglio adornata e più vistosamente ch'ella potesse.
Per questo, ella si vestì gl'istessi panni ch'aveva indosso quando andò a fare riverenza alla regina d'Inghilterra, de' quali già s'è detto quanto fossero belli;
ed anco vennero fuora alla luce le ricche perle ed il prezioso diamante, con la collana e la cintura che similmente erano di molta valuta.
Questi adornamenti, e la di lei propria bellezza e leggiadria, cavavano di bocca al popolo mille benedizioni, lodando il fattore nella sua fattura. Così se n'uscì Isabella di casa e, senza che fosse bisogno di carrozze o cocchi, andossene a piede al monasterio, perché egli era poco lontano;
ma il concorso e la calca della gente fu tale che appena se gli poteva appressare, per che la compagnia si pentì non esservi andata in cocchio.
Chi benediva i padri che l'avevano ingenerata e chi il cielo che di tanta bellezza l'aveva dotata; gli uni s'alzavano in punta di piedi per vederla, gli altri, avendola veduta già una volta, correvano davanti per rimirarla un'altra. E fra quella turba molta, che così si spingeva innanzi, quello che più sollecito si mostrava in questo, e sì importuno che molti se n'accorsero, fu uno vestito da schiavo che portava sul petto un abito della Trinità, segno ch'egli era stato riscattato con la limosina de' frati della Redenzione.
Già Isabella aveva un piede dentro la porta del monastero e già la badessa di quello e le suore con la croce innanzi erano uscite a riceverla, com'è la lor usanza, quando che lo schiavo ad alta voce così le disse:
Fermati, ferma, Isabella, che mentre sarò vivo non puoi esser religiosa.
A quella voce Isabella ed i suoi padri rivolsero gli occhi e viddero che quello schiavo, penetrando per mezzo della folla, veniva alla volta loro e ch'essendogli caduta in terra una berretta turchina, ch'egli portava in testa, si scuoprì una capegliatura d'oro negletta, e mescolatamente innanellata, ed un viso bianco e vermiglio, come gigli e rose, segni da' quali subito si conobbe lui esser forastiere.
Il quale ora cascando, ora levandosi, tanto fece ch'ei arrivò dov'era Isabella e, pigliandola per la mano, così le disse:
Mi conosci tu, Isabella? Guardami bene, io sono Ricaredo tuo sposo.
Ti conosco rispose lei, se non è che tu sii qualche fantasma che venga a turbare il mio riposo.
I suoi parenti pigliaronlo ed avendolo attentamente contemplato conobbero infine che quello schiavo era Ricaredo, il quale con le lagrime agli occhi, inginocchiatosi davanti ad Isabella, la supplicò che la bassezza della sua fortuna né la stranezza dell'abito non disturbasse l'effetto della parola che scambievolmente s'erano data.
Dando Isabella più fede alla verità ch'ella vedeva e toccava con mano che all'impressione che nell'animo suo aveva fatta la lettera della madre di Ricaredo, quando le diede nuova della sua morte, gli disse abbracciandolo:
Voi, signore, senza dubbio sete quel solo che possa rimovermi dalla mia risoluzione.
Voi sete la metà dell'anima mia, poi che siete il mio sposo e quello v'ho tenuto e tengo scolpito nella memoria.
Le nuove della vostra morte che la signora madre vostra mi scrisse, avendo a mio malgrado lasciatami in vita, mi fecero risolvere di doverla finire rinchiusa in questo monastero;
ma, poiché Iddio con sì giusto impedimento mostra di voler altrimenti, non posso né mi conviene far contra il suo santo volere.
Andianne, signor mio, a casa de' miei padri, la qual è vostra, ed ivi con la licenza di santa madre chiesa io vi darò il possesso intiero della mia persona e di ogni mio bene.
A questo dire il vicario, l'assistente ed il proveditore e tutti quelli che v'erano presenti stettero oltramodo meravigliati e vollero quelli superiori saper allora che storia fosse quella di quello schiavo e di che parentado o matrimonio essi trattavano.
Al che il padre d'Isabella disse che quel discorso voleva altro luogo ed altro tempo
e supplicava tutti quelli ch'avevano la curiosità di udirlo volessero venire a casa sua indi poco lontana ed ivi lor saria racconto di modo tale che dalla verità non sarebbon men sodisfatti che meravigliati di quel successo.
In questo uno degli astanti alzò la voce dicendo:
Signori, questo giovine è un gran corsaro inglese, ch'io lo conosco, ed è quello medesimo che poco più di due anni fa prese ai corsali d'Algieri la nave di Portogallo che veniva dall'Indie.
Non v'ha dubbio, è quello stesso, e so ben di conoscerlo, perché egli mi diede la libertà e denari per venirmene qua e non solamente a me ma a più di trecento schiavi che noi eravamo.
Queste parole commossero gli animi degli astanti e lor crebbe il desiderio di veder la chiarezza di così intricata storia.
Finalmente, i principali andarono a riaccompagnar Isabella sino a casa sua, lasciando le moniche triste, confuse e piangenti, perché perdevano la compagnia di lei. La qual avendo fatto sedere in una gran sala quelli che l'avevano ricondotta
ed essendo paruto a Ricaredo, che voleva pigliar l'assonto di raccontare quella storia, che stesse meglio fidarla alla lingua e discrezione d'Isabella che a quella di lui, perché ei non parlava espeditamente la lingua castigliana,
stettero zitti tutti e, stando gli animi pendenti dalle parole d'Isabella,
ella cominciò il racconto di quanto le era successo dal giorno che Clotaldo la tolse via da Calis sino ch'ella vi ritornò. E raccontò ancora il combattimento di Ricaredo con i turchi, la liberalità ch'egli aveva usata con i cristiani, la parola datasi l'un l'altro di sposarsi, la promessa delli due anni, la nuova ch'ella aveva avuta della sua morte, al parere di lei sì certa ch'ella l'aveva condotta nel termine in cui l'avevano trovata d'esser religiosa.
Lodò la liberalità della regina, il cristianissimo petto di Ricaredo e dei suoi parenti; e finì di dire, pregando Ricaredo che raccontasse quello gli era succeduto da ch'egli si partì di Londra insino a quell'ora, nella quale lo vedevano in abito di schiavo e con il segno sopravi d'essere stato riscattato con elemosina.
Egli è vero disse Ricaredo ed in poche parole io vi rappresenterò l'immensità de' miei travagli.
Da ch'io mi partii da Londra per iscansarmi dall'ammogliarmi con Clisterna, quella donzella scozese catolica, la quale, com'ha detto Isabella, i miei parenti volevano ch'io sposassi, menando meco Ghigliardo, quel paggio il quale mia madre scrive esser lui ch'ha portata in Londra la nuova della mia morte, e traversando la Francia, io gionsi a Roma, onde si rallegrò l'animo mio e si fortificò la mia fede.
Baciai i piedi al papa; confessai al maggior penitenziere i miei peccati; di quegli ei m'assolse e mi fece in iscritto le necessarie fedi della mia confessione e penitenza.
Fatto questo, io visitai i luoghi santi, i quali sono in grandissimo numero in quella città santa. E di dumila scudi in oro ch'io aveva, milleseicento ne diedi a cambio per essermi pagati poi in questa città da un certo Rocchi Fiorentino
e con i quattrocento restanti mi partii per Genova, dove io aveva inteso star di partenza due galere alla volta di Spagna.
Pervenni col mio Ghigliardo ad una terra chiamata Acquapendente ch'è l'ultima ch'abbia il papa nel venir da Roma a Firenze; et in un'osteria ove smontai trovai il mio mortal nemico il conte Ernesto, con quattro servitori travestiti, e lui ancora. Credo ch'andasse a Roma anzi per curiosità che per divozione;
e non pensando ch'egli m'avesse conosciuto,
serraimi in una stanza col mio paggio e con pensiero di passar in un'altra subito che la notte cominciasse ad imbrunire.
Però, mutai parere, perché lo stare sopra pensier il conte, ed i suoi servidori, m'assicurò che non m'avevan conosciuto.
Cenai in camera mia, serrai la porta, apparecchiai la mia spada, raccomandandomi a Dio, e non volli andar a letto;
addormentossi il mio paggio ed io in una sedia stetti mezzo dormendo. Ma poco doppo la mezzanotte, il conte ed i suoi uomini, come io seppi poi, mi svegliarono per farmi dormire un sonno eterno, sparando contra di me quattro pistole; e lasciandomi per morto, montarono a cavallo (che già gl'avevano fatti metter in ordine) dicendo all'oste che mi facesse sepellire, ch'io era persona di conto, e fuggirono via.
Il mio servidore, per quel che poi mi disse l'oste, si svegliò al romore, sì fattamente spaventato ch'egli si buttò giù da un balcone nel cortile e si mise a fuggire, gridando ch'avevano assassinato e morto il suo padrone, con tanta paura ch'io credo che non si fermasse sin tanto che non arrivasse in Londra, ove in questo modo portò la nuova della mia morte.
Vennero suso alla mia stanza quelli dell'osteria e mi trovarono la vita passata da quattro palle e molti pallini, però in parti che le ferite non furono mortali.
Io domandai da confessarmi, come catolico, e ricevetti i sacramenti; mi feci medicare e stetti lì due mesi, in capo de' quali seguitai il mio viaggio diritto a Genova, ove altro passaggio non trovai, se non sopra due felucche che con dui altri gentiluomini spagnuoli pigliammo a nolo, l'una perché andasse innanzi a fare la scoperta e l'altra per portarci.
Con questa sicurezza ci imbarcammo, navigando terra terra, con intenzione di non ingolfarci;
tuttavia arrivando alle Tre Marie, ch'è un porto nella costa di Francia, ed andando la nostra prima felucca scuoprendo innanzi, uscirono all'improviso da una cala due galeotte turchesche e, pigliandoci l'una il mare, l'altra la terra, in quello che pensavamo arrivarla a smontarvi, ci tagliarono la strada e ne presero.
Nell'entrar nelle galeotte ci spogliarono ignudi,
svalegiarono le felucche di quanto v'era dentro e le lasciarono investir in terra senza mandarle a fondo, dicendo che quelle un'altra volta servirebbono per portar loro altra galima (così chiaman essi le prede che fanno sopra i cristiani).
Ben mi si potrà credere, s'io dirò che sin all'anima mi toccò il dolore di vedermi fatto schiavo e sopra tutto la perdita delle mie fedi di Roma, le quali, con la lettera di cambio delli milleseicento scudi, io portavo in una cassetta di lata;
ma volse la buona sorte ch'esse vennero nelle mani d'uno schiavo cristiano spagnuolo che le guardò, che, se fossero venute in cognizione ai turchi, m'averebbero per lo manco fatto pagare per il mio riscatto quanto era portato nella mia lettera di cambio, dalla quale avrebbono inteso chi io fossi.
Fummo condotti ad Algieri, ove trovai i padri della Trinità riscattando gli schiavi.
Parlai con essi e, avendo lor detto della mia qualità, mossi da compassione e carità, benché straniere, mi riscattarono in questo modo. Sborsarono per me trecento ducati, cento contanti e gl'altri dugento quando il vascello della limosina verrebbe a liberare il padre della Redenzione, che si ritrovava impegnato in Algieri per quattromila ducati, da lui pigliati in prestenza e spesi di più di quelli che seco portati aveva,
perché la misericordia e carità di questi padri si stende sin a questo, ch'essi danno la propria libertà per quella d'altri e rimangono schiavi per riscattar gli schiavi.
Per accrescimento di bene a quello della mia libertà, ritrovai la mia cassetta, con dentrovi le fedi e la lettera di cambio, ch'io credeva aver perdute, mostrandola al buon padre che m'aveva riscatato, e gli offerii cinquecento ducati di più del mio riscatto per aiutare a dispegnarlo.
Poco meno d'un anno indugiò a venire il vascello della limosina e, a racontarvi adesso ciò che mi succedette in quello spazio d'anno, sarebbe un cominciare un'altra nuova storia.
Solamente dirò che, dei venti turchi a' quali diedi la libertà con i cristiani che liberai, uno di quelli mi riconobbe, il quale fu tanto gradito, ed uomo da bene, che non mi scuoprì punto,
perché, se i turchi avessero saputo essere io quello ch'aveva mandato a fondo i loro due vascelli e toltogli il gran navilio che veniva dall'Indie, m'avessero fatto morire o presentato al gran signore e questo m'averebbe per sempre mai levata la speranza di ritornar in libertade.
Infine, il padre redentore ed io ed altri cinquanta cristiani riscattati venimmo in Ispagna.
In Valenza facemmo la processione generale ed indi ciascuno di noi andossene dove gli piacque col segno di libertà, qual è questo ch'ho sopra il petto.
Oggi son gionto in questa città, con tanto desiderio di veder Isabella mia sposa che, senza indugiar niente, ho domandato di questo monastero, dove io sapeva dover averne nuova.
Quello che mi vi sia succeduto voi l'avete veduto,
quello che resta da vedere, queste testificazioni, fanno fede che non è manco vera la mia storia, come ve l'ho racconta, di quello ch'ella sia meravigliosa.
Questo dicendo, egli cavò dalla casetta mentovata quelle sue fedi e le dette in mano al vicario maggiore, il quale insieme con l'assistente le vidde e non vi trovò cosa perché avesse da dubitare che non fosse la verità quello che Ricaredo gli aveva racconto.
E per maggior confirmazione di ciò volle il cielo che a tutto questo discorso si trovasse presente il mercatante fiorentino che doveva pagare la lettera di cambio, il quale domandò che gliela volesse mostrare e, avendola riconosciuta, l'accettò per pagarla a lettera vista, perché da molti mesi innanzi disse aver avuto quelle d'avviso, per dovere pagare quella partita.
Fu tutto questo un aggionger ammirazione ad ammirazione e stupore a stupore.
L'abbracciò il vicario con cortesi offerimenti a lui, alli parenti d'Isabella ed a lei similmente.
Fecero altretanto gli altri due prelati e la pregarono che volesse mettere in iscritto tutta quella storia, acciò che la leggesse l'arcivescovo lor signore.
Il gran silenzio, che tutti i circostanti guardato avevano stando ad udire sì strano caso, fu interrotto col dar grazie ad Iddio per le stupende sue meraviglie. Et insin dal minimo al più grande si congratularono con Isabella, Ricaredo e 'suoi parenti e si partirono da loro, questi avendo invitato e pregato il vicario di voler con la sua presenza onorare le nozze, le quali fra otto giorni volevano celebrare.
Contentossene il vicario ed al giorno determinato, in presenza de' principali della città, solennemente gli sposò.
Per via di questi aggiramenti e rivoluzioni, i padri d'Isabella si ricoverarono la figliuola e rimessero in piedi le cose loro;
et essa favorita dal cielo ed aiutata dalle sue molte virtù, malgrado a tanti inconvenienti, trovò la persona di Ricaredo, acciò che le fosse sì buon marito e di tanta importanza, nella cui compagnia anche oggidì ella vive, in quella medesima casa che già innanzi avevano affittata rincontro a Santa Paula e che comprarono dapoi dagli eredi d'un gentiluomo burgalese che si chiamava Fernando di Zifuentes.
Può insegnarci questa novella quanto possano la virtù e la bellezza, poiché, od insieme congionte o separate, possono innamorare sino ai loro nemici, e quanto il cielo meravigliosamente sappia cavare dalle nostre maggiori avversità i nostri maggiori vantaggi.