Due giovanetti, Diego di Cariazo e Tomaso d'Avendagno, mossi da picaresca inclinazione, per andare alla pesca dei tonni abbandonano la patria; ed ingannati i padri pervengono in Toleto, ove Tomaso in un'osteria, divenuto amante d'una fantesca, divien famiglio di stalla ed è cagione che Diego per tenerli compagnia fa l'acquatore. Alla fine Tomaso doppo vari avvenimenti, conosciuta la fantesca per certi contrasegni sorella di Diego, con contento delli due genitori la prende in moglie.
In Burgos, città illustre e famosa, non ha molti anni vivevano due cavalieri principali e ricchi: l'uno de' quali chiamavasi don Diego di Cariazo e l'altro don Giovanni d'Avendagno.
Don Diego ebbe un figlio che lo chiamò con lo stesso nome e similmente don Giovanni un altro che addimandò Tomaso.
Ora questi due cavalieri giovani, come quelli che più devono nominarsi in questa novella e sono soggetti principali d'essa, per risparmiare parole li chiamaremo con li soli cognomi di Cariazo e d'Avendagno.
Tredeci anni o poco più doveva avere Cariazo quando che, levato da una certa inclinazione picaresca, senza che a questo fosse sforzato da maltrattamento che li suoi genitori li facessero ma solo per suo gusto e capriccio, scampò, come dicono i fanciulli, dalla casa del padre ed andò per il mondo, tanto contento della vita libera che, nel mezzo delle calamità e miserie ch'ella trae seco, stimava meno l'abbondanza della sua casa; lo andare a piedi non lo stancava; il freddo non l'offendeva ned il caldo lo molestava;
per lui tutte le stagioni dell'anno erano una dolcissima e temperata primavera. Tanto dormiva su la paglia quanto sui materassi, con tanto gusto che si sotterrava in un pagliaio d'un'osteria come se si fosse posato in due lenzuola d'olanda.
Finalmente egli riuscì così perfetto nell'arte picaresca che poteva leggere in catedra in quella facoltà al famoso Gusmano d'Alfarage;
in tre anni che tardò in dar di volta e ritornare alla patria, apprese a giuocare a diversi giuochi ed in Madrid e nelle bettole di Toleto.
Però, come che d'ordinario vadi a questa sorte di vita annessa la miseria e la necessità, mostrava Cariazo nell'opere sue di esser un prencipe: a tiro di arcobugio dimostrava in mille modi di esser ben nato e figlio di gente di qualità, essendo generoso e garbato con suoi compagni.
Di rado visitava gl'eremi di Bacco e, benché bevesse vino, era così poco che già mai poté esser annoverato nel numero di quelli sgraziati che, bevendo un tantino più di quello che comporta la loro complessione, subito li diviene il volto come che tinto l'abbino di cinabro o di lacca.
Infine vidde il mondo in Cariazo un guidone virtuoso, polito, ben creato e più che mediocremente discreto.
Passò per tutti li gradi della guidoneria fino a graduarsi di maestro nella pesca di Zahara, dove è il finibusterrae di tutte le furfantarie.
O guidoni da brodo, sporchi, grassi e bisunti, poveri finti, storpiati falsi, ladroncelli da piazza e da ceretani, cantatori d'orazioni, sportaiuoli di Siviglia, bertoni, sgherri, con tutta la caterva innumerabile che si comprende sotto questo nome di guidone, bassate l'alterigia, calate l'orgoglio ned ardite chiamarvi tali, se prima non avete fatto due corsi nell'accademia della pesca dei tonni! Perché in quella evvi in suo centro il travaglio con la poltroneria, la sporchezza netta, la grassezza tonda, la fame pronta, la sanità abbondante, il vizio conosciuto, il giuoco sempre, le differenze per momento, la morte per punto, la burla ad ogni passo, li balli come a nozze, le frottole come in stampa, li sonetti per le poste, e la poesia senza regole.
Qui si canta, colà si riniega; da questa parte si contrasta e da quella si giuoca e per tutto si rubba.
Quivi campeggia la libertà e risplende il travaglio; quivi vengono o mandano molti padri principali a cercare li loro figliuoli e li ritrovano, che poi in levarli da quella vita tanto sentono come se si conducessero alla morte.
Però tutte queste dolcezze che ho dipinte hanno congiunte con aloè che le innamarisce; e questo è il non poter dormire sonno sicuro, essendo sempre oppressi dal timore che in un istante non siano traslatati dalla pesca in Barberia.
Per questo la notte si ritirano a certe torri della marina, dove hanno le loro difese e sentinelle, in confidanza delle quali chiudono gl'occhi per riposarsi, avegna che molte volte è accaduto che le sentinelle, le diffese, li capi di squadra, le barche, le reti ed ogni cosa hanno fatto la notte in Ispagna e la mattina in Tetuan.
Questo timore però non fu bastante a fare che il nostro buon Cariazo non vi concorresse tre estati a darsi buon tempo,
essendoli così favorevole l'ultima che li disse la sorte nel giuoco delle carte più di settecento reali, con li quali volse vestirsi e ritornare a Burgos.
Tolse commiato da' suoi amici, che n'avea molti, promise loro di ritornare a farli compagnia la seguente estate, se morte od infirmità non lo disturbasse.
Parveli al partirsi di lasciare dietro la metà dell'anima, compiacendosi tanto in quelle secche arene come che fossero state erbe freschissime de' Campi Elisi; et come che egli era solito caminare a piedi, tolto il viaggio sulle dita con due scarpe di corda, si trasferì da Zahara a Vagliadolid sempre cantando.
Quivi si fermò quindici giorni, affine di levarsi dal volto il color brutto ed il sigillo dalla persona di guidone e mettersi in abito di cavaliere;
ciò fece con la commodità che li diedero li cinquecento reali con i quali venne a Vagliadolid, avendone spesi ducento nel camino, servandone però delli cinquecento cento per prendere una mula a vettura ed un paggio che lo servisse, comparendo di questa maniera avanti li suoi genitori onorato e contento.
Lo ricevettero essi con molta allegrezza ed amore, e così li parenti e gli amici, fra' quali venne don Giovanni di Avendagno e suo figlio don Tomaso.
È d'avvertire che nel tempo di questa peregrinazione Cariazo si mutò il nome facendosi chiamare Urdiale da' compagni della pesca.
Don Tomaso, figlio del signor don Giovanni, per essere d'una stessa età con Cariazo, fece una stretta amicizia seco,
dimodoché sentiva le lunghe e magnifiche bugie ch'egli raccontava a suo padre ed agli altri tutti, dando loro ad intendere gran cose di questa sua peregrinazione,
non parlando però mai dell'almadrava, avegna che ad esse sole fossero indrizzati i suoi pensieri, in particolare lo stimolava la vicinità del tempo che a' compagni promesso aveva di andare a rivederli, non trattennendolo punto la caccia nella quale suo padre lo essercitava ned essendoli di gusto li molti conviti che in quella città si usano; ogni passatempo gli era di noia ed ogni solazzo di disgusto, anteponendo ad ogni cosa il contento che ricevuto avea nelle pesche.
Avendagno che, come abbiam detto, gli era divenuto strettissimo amico, vedendolo molte volte melanconico e pensativo, confidato nella molta amistà si arrischiò a chiederli di questo la causa e li fece essibizione di darli rimedio, se fosse stato bisogno, con il proprio sangue.
Non volle Cariazo nasconderli alcuna cosa, per non fare agravio alla molta amicizia che professavano, e così li contò punto per punto la vita della pesca e come tutte le sue malinconie da altro non nascevano che dal pensare in essa ed al desio che aveva di ritornarvi. Di modo gliela dipinse che, quando Avendagno finì di ascoltarlo, anzi lodò che biasimò il suo gusto.
Infine questo altro non fu che un disporlo a provare un'estate sì felice vita, della qual cosa rimase molto contento Cariazo parendoli di aver acquistato un testimonio di fede bastante a qualificare la sua bassa determinazione.
Discorsero del modo di ridurre insieme dinari ed il migliore fu che d'indi a tre mesi, dovendo Avendagno andare a Salamanca, dove tre anni era stato per suo gusto studiando la lingua greca e latina, ed ora suo padre ve lo mandava perché proseguisse in quella facoltà che più bramava, pensava che tutto il danaro che datto gli avesse per questo effetto sarebbe stato oportuno per fare quello che desiavano.
Propose questo Cariazo a suo padre e che bramava di andare con Avendagno,
del che ne ebbe tanto gusto don Diego che subito parlò a don Giovanni perché li mettessero una casa insieme con tutti li requesiti necessari.
Venne il tempo della partita; li providero de dinari e mandarono seco un aio che li governasse, il quale molto più aveva dell'uomo da bene che del prudente.
Li due genitori diedero molti documenti a' figli insegnando loro come si avevano da governare, perché le scienze e le virtù fossero d'utile, essendo questo il frutto che dalle loro vigilie e fatiche devono pretendere li studianti, ed in particolare i nobili.
Si dimostrarono li due figli umilissimi, ricevendo con molte lagrime la benedizione dalle loro madri e dagl'altri parenti; ponendosi poi in camino con proprie cavalcature, accompagnati da due servi e dall'aio, che per dimostrarsi in quel carico di autorità si lasciò crescere la barba tanto che si fece lunghissima,
pervennero a Vagliadolid ove dissero al loro signor aio che bramavano fermarsi due giorni almeno per essere alla loro vista città nova e di gusto;
ma furno in aspra guisa da lui ripresi dicendo che, dovendo andare a studiare, non era di lode che si stessero un'ora sola per viaggio rimirando fanciullezze e bagatelle, e che se pure pertinaci avessero voluto rimanere egli ne formava scropolo all'anima e ne bramava discolpa: fino a qui si estendeva la abilità del loro aio;
ma li due garzonzelli, che di già avevano fatto il loro agosto e la loro vendemmia, poiché avevano rubbato alli loro padri quattrocento scudi d'oro che l'aio portava, lo pregarono che almeno fosse contento di lasciarli vedere la fontana di Argales che nella città allora con spaciosi acquedoti si conduceva.
In effetto, benché con dolore che lo sentì fino all'anima, li concesse licenza, avendo egli pensato di risparmiare la spesa di quella notte e farla in Valdestiglia, compartendo le diciotto leghe che sono da Valdestiglia a Salamanca in due giornate, e non le vintidue che vi sono da Vagliadolid.
Però, come che una cosa pensa il cavallo ed un'altra chi li pone la sella, li successe tutto al contrario di quello che egli avrebbe voluto.
Li due giovani benissimo a cavallo, con un solo servo andarono a vedere la sì famosa fonte di Argales per le sue antiquità e per le sue mirabili acque. Al cui paragone possono cedere la Castigliana, la Corpa e la sì nominata Pizarra della Mancia.
Vi arrivarono infine; e quando che il servo pensava che Avendagno cavasse fuori alcuna cosa per bevere, vide ch'era una lettera serrata, la quale a lui consignò, dicendo che subito si ritornasse alla città e la dasse al loro aio e che, doppo di avergliela data, li aspettasse alla porta del Campo.
Ubbidì il servo; prese la lettera e ritornò alla città, rivolgendo essi il loro camino in altra parte. Dormirono quella notte in Mogiado e d'indi a due giorni in Madrid, dove venderono in publica piazza le cavalcature e vi fu chi per loro servì di malevadore, mediante il premio di sei scudi che li promisero, e chi li sborsò il dinaro d'oro in oro per la loro presenza e compitezza.
Si vestirono alla leggiera con casachette di due falde, calzoni di tela e calzette di panno bigio.
Venderono li loro vestiti ad uno che la notte li tramutò di guisa che la seguente mattina non li avrebbe conosciuti, per dir così, la stessa madre che li fece.
Di questa maniera sodisfatti e contenti, a piedi e senza spada, che medesimamente l'aveva comprata, benché non fosse spettante alla sua professione, lo stesso ch'aveva comperati li panni, si misero in camino alla volta di Toleto.
Il servo intanto arrivò alla città e, data la lettera, come li avevano ordinato, all'aio, era per ritornarsi alla porta del Campo, quando l'aio lo ritenne, perché, aperta la lettera e lettala, pensò condurlo seco a Burgos; diceva la lettera di questa maniera:
Signor Pietro Alonso v. s. sarà servito d'aver pazienza e ritornarsi a Burgos e dire a' nostri padri che, avendo fra noi fatta considerazione che molto più si appartiene a cavalieri come siamo noi l'uso dell'armi che delle lettere, pertanto abbiamo tramutata la città di Salamanca in Bruselles e la Spagna in Fiandra.Li quattrocento scudi gl'abbiamo con noi e le cavalcature pensiamo di venderle.La nobile nostra intenzione ed il lungo camino ch'abbiamo intrapreso è bastante discolpa del nostro errore, avegna che non sia alcuno che lo giudichi tale, se non è un codardo.La nostra partenza è adesso, il ritorno sarà quando piacerà al cielo, il quale conservi v. s. di quella maniera che noi suoi umili discepoli li bramiamo. Dalla fonte di Argales, posto già il piè nelle staffe per andare in Fiandra. Cariazo ed Avendagno.
Rimase come stupido l'aio in leggendo questa lettera e, per maggiormente chiarirsi del fatto, corse alla valigia e, ritrovandola vuota, si confermò nell'opinione di essere burlato; così, sopra la cavalcatura che li era rimasta, con il servo corse a Burgos ad avisarne li padroni, affine dessero modo di trattenere li due loro figliuoli e divertirli da quel pensiero d'andare in Fiandra.
Pervenuti li due compagni intanto a Igliesca, nell'entrarvi alla porta incontrarono due famigli di stalla, andalogiesi con calzoni di tela larghi, giubboni di canovaccio tagliati e colletti di ante, con pugnali torti e spade senza pendagli, che per quanto dimostravano l'uno veniva di Siviglia e l'altro vi andava.
Quello che vi andava diceva all'altro:
Se tanto innanzi non fossero li miei padroni, mi tratterrei un poco più per chiederti mille cose che bramo sapere, avendomi molto maravigliato il dirmi che il conte ha fatto impiccare Alfonso Genis ed il Rivera, senza volerli concedere l'appellazione.
Peccatore di me replicò il sivigliano, li machinò contro e li prese sotto pretesto ch'erano soldati e per contrabando dispose di loro senza che l'audienza potesse impedirlo.
Ha un Belzebù nel corpo questo conte che sempre ci affligge nell'anima.
È tutta netta e spacciata Siviglia e dieci leghe all'intorno; non si ferma ladro ne' suoi contorni, perché tutti lo temono come il fuoco;
ben è vero, per quanto si dice, che presto lascierà il carico, per non aver occasione tutto il giorno di far contrasto con quelli dell'audienza.
Vivano mille anni soggiunse quello che andava a Siviglia perché sono padri de' miserabili e rifugio de' sventurati. Quanti poveretti sono miseramente sentenziati, non per altro che per la collera di un giudice assoluto o di un governatore male informato o bene appassionato? Più veggono molti occhi che due; né s'impadronisce tanto facilmente il veneno dell'ingiustizia di molti cuori quanto fa di un solo.
Sei fatto predicatore disse quel di Siviglia e per quanto comprendo dal tuo discorso non sei per finire così presto né io ti posso aspettare. Questa notte non andare ad albergare dove sei solito ma va dal sivigliano, che in sua casa vedrai la più bella fantesca che imaginar si possa.
Marinella, quella dell'osteria del Sole, è una cosa schifa in sua comparazione; non ti dico altro, se non che corre voce che il figlio del governatore spasima per lei; et uno de' miei padroni, che colà vanno avanti, giura che nel ritorno in Andalogia è per fermarsi due mesi in Toleto, e nello stesso albergo, solo per satollarsi di mirarla.
Io già li diedi un pizzicotto e n'ebbi in contracambio un mostaccione.
È dura come un marmo, dispettosa come una mula ed aspra come un'ortica; però ha una faccia di pasqua ed un volto di buon anno: in una guancia ha il sole e nell'altra porta la luna; quella fatta di rose e questa di viole, essendo in ambidue e gelsomini e gigli.
Non ti dico altro se non che la vedi e poi allora vedrai esser nulla quanto ho detto, rispetto quello che potrei dire della sua bellezza.
Nelle due mule rosse, che sai che son mie, più che volontieri l'adoterei se me la volessero dare in moglie; però so che non me la daranno, essendo una gioia per un conte o per un marchese;
et altra volta torno a dirti che colà la vedrai e adio, ch'io vado.
Con questo si accommiatarono ambidue, lasciando muti li due amici che li erano stati ad ascoltare, specialmente Avendagno che alla semplice relazione di tanta bellezza se li destò un desio di vederla tanto intenso ch'avrebbe voluto aver l'ali per correre colà dove aveva inteso ch'ella era. Desiò anco Cariazo lo stesso ma non però di modo che più non bramasse di pervenire alla sua almadrava alla pesca che in trattenersi in vedere le piramidi d'Egitto o le sette maraviglie del mondo tutte unite.
In ripetere le parole ch'aveva dette il mozzo di stalla, in imitare e contrafare i gesti con che le diceva, s'intratennero fino a Toleto, dove arrivati, essendo la guida Cariazo, ch'altra volta v'era stato, passando per mezzo la città, pervenne all'albergo del sivigliano; però non ardirono di chiedere alloggiamento, stando che la loro presenza non lo comportava.
Era di già fatto notte e, benché Cariazo importunasse molto Avendagno di andare in altra parte per aver albergo, pure mai poté levarlo dalla porta del sivigliano, aspettando se a caso fosse comparsa la tanta celebrata fantesca.
Più si faceva notte ned usciva la fantesca; disperavasi Cariazo ed Avendagno si rimaneva. Alla fine per vedere quanto poteva fare, con iscusa di chiedere d'alcuni cavalieri di Burgos che andavano a Siviglia, entrò dalla porta fino in corte; et appena fu entrato quando da una sala terrena vidde uscire una giovane di età di quindici anni incirca, vestita come che fosse contadina, con una candela accesa in un candeliere.
Non pose gl'occhi Avendagno al vestito o garbo della giovane ma solo al viso, parendoli in esso di vedere quello di un angelo. Rimase a tanta bellezza attonito e stupido ned ardì chiederle cosa alcuna, tale era la suspensione ch'egli aveva.
La giovane vedendosi davanti un omo li disse:
Che cerchi, fratello, sei per aventura servo di alcuno di questi che sono quivi albergati?
Non sono servo d'altro che di voi rispose Avendagno tutto pieno di alterazione.
Lei che di questa maniera sentì rispondersi li disse:
Va' in buonora, che chi serve non ha bisogno de servi.
E chiamando il suo padrone li disse:
Guardate che cerca questo giovane.
Uscì il padrone e li richiese che comandava,
al quale rispose Avendagno che, inviato da certi cavalieri uno de' quali era suo padrone ad Alcalà di Henares per suo negozio, li aveva commandato che in Toleto lo stasse aspettando nell'albergo del sivigliano e che quella notte, od almeno il giorno seguente, non poteva far di meno che non fosse arrivato, e smontasse dove li aveva ordinato.
Tal colore diede Avendagno a questa bugia che il padrone li credé e li disse:
Resta pure, amico, nell'albergo mio, che quivi potrai aspettare il tuo signore fin che venga.
Molte grazie li rese Avendagno aggiungendo fosse servito darli una camera per lui e per altro suo compagno, ch'era fuori in istrada, poiché avevano sì bene dinari da pagare essi quanto altro.
In buonora rispose l'oste.
E rivoltosi alla giovane che prima aveva veduto li disse:
Costanza, di' ad Argueglio che conduca questi due giovani nella camera del cantone e che li dia lenzuola nette.
Tanto farò rispose Costanza, che tale era il nome della giovane, e, fatta una riverenza al padrone, se li levò davanti, che non fu altro in Avendagno che quando si leva il sole al passaggiero e li sopraviene la notte tenebrosa e oscura.
Con questo però uscì in istrada per dar conto a Cariazo di ciò che fatto aveva e di quello che aveva veduto; dal che venne in cognizione che non poco egli era preso d'amore, però non volse dirli per allora cosa alcuna, finché cogli occhi propri non avesse veduto la cagione di tante lodi, e delle tante iperboli con che la bellezza di Costanza innalzava al cielo.
Entrarono infine dove la Argueglio, donna di forsi quarantacinque anni sopraintendente dei letti e delle camere, li condusse in una che non era per cavaliere ma neanco per persona infima, dimodoché poteva esser mezzo fra li due estremi.
Richiesero da cena ma la donna lor rispose che a persona alcuna non davano da mangiare, poiché solamente avevano per uso di cucinare le robbe da' forastieri comprate fuori, pure che non molto lontane vi erano molte bettole, in una delle quali avrebbero potuto andare e senza scrupolo di conscienza mangiare quanto avessero voluto.
Presero il consiglio che li diede Argueglio; ed in una di dette bettole, entrati, cenarono, Cariazo di quello che li portarono in tavola ed Avendagno di quello che aveva portato seco che furno pensieri ed imaginazioni.
Stava con molta attenzione Cariazo osservando quanto poco mangiava Avendagno;
e, per chiarirsi qual ne fosse la cagione, in ritornando all'albergo del sivigliano li disse:
Conviene che di mattina si leviamo per tempo, affine che prima che il sole entri in forza siamo in Orgaz.
Son molto lontano da questo rispose Avendagno perché prima di partirmi da questa città penso di vedere quanto dicono in essa esservi di famoso, come il sacrario, l'artifizio di Gioanello, li giardini del re e la vega.
Bene soggiunse Cariazo, queste cose si potranno vedere in due giorni.
Invero rispose Avendagno che li ho da vedere con agio e commodità, poiché non andiamo a Roma in questo nostro viaggio per avere alcun beneficio vacante.
Oh, oh, oh replicò Cariazo, possa io morire se voi non avete più desio di rimanervi in Toleto che di proseguire la nostra incominciata peregrinazione.
Dite il vero rispose Avendagno e tanto possibile è il levarmi ch'io non veda il volto di questa donzella, quanto è il salire in cielo senza l'opere buone.
O bella cosa disse Cariazo, determinazione degna di un così generoso petto quanto è il vostro; come quadra bene un don Tomaso d'Avendagno, figlio d'un don Gioanni, cavaliere onorato, ricco a sufficienza, giovane di grande aspettazione, con l'essere innamorato et perduto dietro una fantesca che serve nell'osteria del sivigliano.
Lo stesso pare a me rispose Avendagno perché quanto è indegna cosa il considerare un don Diego di Cariazo, figlio di un cavaliere dell'ordine di Alcantara, unico suo erede, non men gentile nel corpo che nell'animo, e pure con questo vederlo innamorato. In chi? Forsi nella regina Ginevra? Signor no; ma nell'almadrava di Zahara, cosa tanto obbrobriosa ed indegna che è uno stesso vituperio.
Il colpo va del pari, amico rispose Cariazo, con le stesse armi ch'io ti ferii tu m'hai ucciso. Abbia fine qui la nostra lite ed andiamo a dormire, che poi domani divisaremo di quello che più ti piacerà.
Vedi, Cariazo disse Avendagno, ancora non hai veduto Costanza, veduta che l'abbi, ti do licenza di ingiuriarmi e di riprendermi a tua posta.
Ben so io in che ha da terminare questo disse Cariazo.
In che? soggiunse Avendagno.
In che io mi anderò per la mia almadrava et tu ti resterai con la tua fantesca disse Cariazo.
Non sarò io tanto avventurato disse Avendagno.
Ned io tanto balordo rispose Cariazo che per seguire il tuo malgusto lasci di conseguire il mio bene.
Con queste ragioni arrivarono all'alloggiamento nel quale passarono la metà della notte in altrettante simili;
et avendo dormito a loro parere poco più d'un'ora furno destati dal suono di molte cornamuse che nella strada si sonavano.
Si levarono ed assentati sopra il letto disse Cariazo:
Giuocherei che già si è fatto giorno, e che queste cornamuse che sentiamo devono essere nella chiesa qui vicina del Carmine, che vi deve essere alcuna solennità.
Non può essere questo rispose Avendagno, poiché non ha tanto che dormiamo.
Così dicendo sentirono chiamarsi di fuori, dicendo:
Giovani, se bramate di ascoltare una buona musica levatevi ed andate ad una finestra che guarda in istrada in quella sala che avete a fronte, che non vi è altra persona.
Si levarono ambidue ed apersero la porta della camera ma non ritrovarono persona alcuna né seppero chi si fosse che li aveva chiamati. Ma perché sentirono sonare un'arpa credettero fosse il vero di ciò che li era stato detto; et così, in camicia com'erano, entrarono nella sala, nella quale erano venuti ancora per lo stesso effetto di sentire la musica da tre o quattro altri forastieri; fattosi far luogo si posero per ascoltare e d'indi a poco, con mirabile voce, al suono dell'arpa e d'una viola sentirono cantare questo sonetto che non così facilmente passò dalla memoria di Avendagno:
Raro soggetto umil, che la bellezza
inalzi al ciel con non intesi modi,
et avanzi te stesso in le tue lodi
e le lodi ti son gradi all'altezza,
perché con aspra e cruda rigidezza
sotto povero tetto ohimè ti godi
dell'empio vecchio alato all'empie frodi
semplice esporti, non al fasto avezza?
Lascia che gl'occhi tuoi sian scorno al sole
e l'auree chiome sian dispregio all'oro
e le guancie a le rose, a le viole,
ch'allor vedrai qual più potrà di loro,
o 'l guardo o 'l viso; e come più si suole
l'esser vista prezzar d'ogni tesoro.
Non fu di mestieri che alcuno lor dicesse che a Costanza fosse fatta quella serenata, poiché molto gliel'aveva dato ad intendere il sonetto che di maniera suonò all'orecchie d'Avendagno che per bene avrebbe dato, affine di non averlo sentito, esser nato sordo e così rimanersi tutto il tempo di sua vita, poiché da quel punto incominciò di maniera a sentirsi trafiggere dalla dura lancia della gelosia che ben si pareva quanto in lui avesse operato amore; ed era il peggio non sapere chi li cagionasse questa gelosia,
benché di questo in un subito lo cavò uno di quei forastieri che alla finestra similmente avevano sentita la musica, dicendo:
Che sia tanto semplice questo figlio del governatore che si perda dietro una fantesca? Vero è ch'ella è una delle più belle fanciulle ch'io m'abbia veduto, che sono state molte, ma non però per questo dovrebbe tanto all'aperta solicitarla.
Al che soggiunse un altro:
Tanto più ch'ho sentito dire ch'ella ne fa quella stima come che se non fosse al mondo. Giuocherei che si sta ella adesso dormendo nella camera sua dietro quella della padrona, dove dicono ch'ella dorme, senza arricordarsi di musica o di canzoni.
Questo è il vero replicò l'altro poiché ella è la più onesta donzella che si sappia; ed è una gran maraviglia che con lo stare in questa osteria di tanto traffico, nella quale sempre hai gente nuova, e con l'andare per tutte le camere, pure non si sente di lei un minimo fallo.
Con queste parole ritornò Avendagno a vivere ed a ripigliar fiato per sentire molte altre cose che contarono nelli stromenti tutte indrizzate a Costanza, la quale, come detto aveva colui, si stava dormendo senz'alcun pensiero.
Finì la musica
ed ambidue si ritornarono alla loro camera, dove dormirono quel poco che li avanzò della notte fino alla mattina, la quale venuta si levarono tutti due con desio di vedere Costanza; però quello dell'uno era desio curioso ma quello dell'altro innamorato;
pure ad ambidue sodisfece Costanza, la quale, uscendo dalla sala del suo padrone, fece di sé agl'occhi delli due che la guardavano bellissima mostra, per lo che vennero in cognizione che quante lodi le aveva date il mozzo di stalla erano nulla rispetto alla sua bellezza.
Il vestito era una saia con busto di panno verde, orlata dello stesso;
il busto era basso ma la camicia alta, con colaro lavorato di seta negra, ed una gargantiglia ripiena ed adornata di certe pietruccie nere risplendenti, che parevano stelle, le cingeva il collo che pareva una bellissima colonna d'alabastro; per cinto aveva un cordone di San Francesco e da una parte le pendeva un gran mazzo di chiavi. Non aveva pianelle ma in sua vece un paio di scarpe colorate, con calzette medesimamente, per quanto si poteva comprendere, colorate,
li capelli erano accolti ed intrecciati con cinte di bindello bianco, il color de' quali era come che di castagno, però chiaro, che dava in rosso, tanto belli, tanto eguali e tanto pettinati che nissuna cosa, fuor che l'oro, se li poteva paragonare.
Pendevanli dall'orecchie due zucchette di vetro che parevano perle; e li stessi capelli le servivano di cuffia e di velo.
Nell'uscire della sala si fece il segno della croce e davanti l'imagine della madonna, che appesa al muro in una parte della corte si stava, fece una profondissima riverenza; poi alzando gl'occhi si accorse delli due che la stavano mirando e, ritornata dentro, cominciò a chiamare Argueglio, che si levasse.
Resta ora di dire ciò che parve a Cariazo della bellezza di Costanza, poiché ciò che era paruto ad Avendagno di già l'abbiam detto. Parve dunque a Cariazo che il suo compagno non tanto male avesse fatto quanto egli si era imaginato in aver preso amore a quella serva, essendo tanto bella; ma pure non passò più avanti, poiché la notte seguente non averebbe voluto fermarsi in quella stessa osteria ma partirsi verso la sua almadrava.
Intanto alle voci di Costanza venne sopra la loggia Argueglio con due altre giovanotte galleghe medesimamente serve di casa, poiché, essendo l'albergo del sivigliano uno dei migliori di Toleto, non vi si richiedeva manca servitù.
Vennero ancora molti famigli dei forastieri alloggiati a chiedere la biada per le cavalcature ed il padrone uscì a dargliela, maledicendo quelle due giovani ch'abbiam detto, poiché per loro cagione era andato dalla sua casa un famiglio che soleva darla con molta cura e risguardo, senza commettere errore a suo parere di un solo grano.
Avendagno, che sentì questo, li disse:
Non vi lamentate, signor padrone, perché quei giorni che io mi fermerò qui la darò di modo che non avrete occasione di lamentarvi; datemi pure il libro dei conti e vedrete che io non mi lascierò fare invidia da questo vostro primo che la dava.
Vi resto obligato disse il padrone poiché io non posso attendere a questo, avendo molte altre cose che m'importano da fare fuori di casa; venite a basso, che vi darò il libro; e guardatevi da questi famigli, perché sono il diavolo, rubbandoci li quarti di biada con manco conscienza che se fossero paglia.
Scese Avendagno e preso il libro incominciò a spacciare quarti di biada come acqua, aggiustando di modo le partite che il padrone, che lo mirava, ne rimase molto contento e tanto che disse:
Piacesse a Dio che il vostro padrone non venisse e voi aveste voglia di rimanervi in questa casa, come io so quello che dico, perché l'altro, che si è andato, avrà otto mesi che venne in mia casa tutto ruinato e rotto, porta seco ora due vestiti buonissimi ed è grasso come una londra, essendo che oltre il salario hanno li miei famigli molti altri utili con forastieri per le ben andate.
Poco risguarderei al guadagno rispose Avendagno perché d'ogni poca cosa mi accontenterei per istare in questa città che dicono essere la migliore di Spagna.
Almeno soggiunse il padrone è una delle più abbondanti; ella sia al nome di Dio; altro non mi manca adesso che provedermi d'un garzone che vadi per acqua al fiume, che similmente l'altro se n'è andato che mi faceva questa casa un lago con la sua diligenza.
Et una delle cause principali perché li vetturini si conducono volontieri al mio albergo è il non mancarvi mai acqua, schifando essi la fatica di condurre le cavalcature a bevere, essendone ripieni certi vasi grandi di marmo tutto il giorno.
Udiva il tutto Cariazo e, vedendo accommodato il suo compagno e posto in ufficio, pensò di non starsi a festa, tanto più pensando al gusto che darebbe all'amico, seguendolo nella sua opinione; così disse all'oste:
Consegnimisi l'asino, signor mio, che tanto saprò porli le cingie e caricarlo, quanto il mio compagno mettere le partite sul libro.
Sì, sì, signore, il mio compagno Lope Asturiano disse Avendagno servirà in provedere d'acqua come un prencipe ed io ne faccio sicurtà.
La Argueglio, che dalla loggia stava attenta in sentire questi discorsi, disse:
Eh signor mio? E chi farà la sicurtà per voi, poiché invero mi pare più siate bisognoso d'averla che di farla per altri.
Taci, Argueglio rispose il padrone, che io fo la sicurtà a me stesso per ambidue, né tu per vita tua ti intricare dove non sei chiamata, stando che per tua cagione tutti li famigli mi si vanno di casa.
Affé, poiché si restano ambidue in casa disse una delle due giovani, che caminando con loro non li fiderei il fiasco.
Lasci le burle la signora Gallega, per vita sua soggiunse il padrone, e faccia li fatti suoi, non intromettendosi con li famigli, se non che saranno bastonate quelle che a forza le faranno fare quello che non vuole per amore.
Certo sì replicò la Gallega, guardate che gioie da bramare, guardate che cose da perdervisi dietro. Invero, invero, che il signor padrone mi fa ingiuria in tenermi nella mala opinione che mi tiene, poiché già mai credo m'abbia scorta tanto burlona con li famigli di casa, o con quelli di fuori, che abbia adesso da dire queste parole; non procede da noi che si partano dall'albergo, perché non li diamo molestia, ma sì bene procede perché sono vigliacchi e si regolano conforme li loro capricci; che gente appunto da incitare a dar un cantone alli loro padroni. Il cielo me ne guardi.
Molto parlate, o Gallega sorella replicò il padrone alquanto alterato, punto in bocca ed attendete a quello che vi si appartiene.
Aveva intanto Cariazo imbastato il suo asino e montatovi con un salto sopra si incaminò al fiume, lasciando il compagno più che contento di sì fatta determinazione.
Ecco ora Avendagno fatto mozzo di stalla con nome di Pier Tomaso e Cariazo fatto acquatore con quello di Lope Asturiano, trasformazioni degne da anteporsi a quelle del nasuto poeta.
La Argueglio che, ripresa dal padrone quando aveva moteggiato Avendagno, aveva poi sempre tacciuto, appena vidde che rimanevano ambidue in casa che fece disegno sopra l'Asturiano e lo marcò per suo, determinando regalarlo di modo che, se bene di condizione schiva e ritirata egli si fosse, pure di renderlo molle e pieghevole più di un guanto.
Lo stesso pensò la schizzignosa Gallega sopra Avendagno; e come che ambidue, e per il conversare e per il dormire insieme, fossero grandissime amiche subito palesarono l'una all'altra l'amorosa loro determinazione e quella notte pensarono dar principio alla conquista de' loro spasionati amanti. La prima cosa che pensarono chiederli era che non avessero sorte alcuna di gelosia per quanto le vedessero fare, perché malamente ponno regalare le fantesche quelli di dentro se prima non fanno tributari quelli di fuora.
Tacete, fratelli dicevano, come se presente li avessero e fossero fatti li loro vaghi e li loro bertoni, tacete e chiudete gli occhi, lasciando sonare il cembalo a chi sa farlo; e tenetevi sicuri che non sarà in questa città un paio de canonici meglio regalati di quello che sarete voi da queste vostre tributarie.
Queste e simili cose dicevano la Gallega e la Argueglio, caminando intanto il nostro bon Lope Asturiano alla volta del rio, per la strada del Carmine, tutto intento all'almadrava ed in pensare alla subita mutazione del suo stato;
né so se per questo o pure che così volesse la sorte, calando non so che smontata s'abbaté in un altro acquatore che dal fiume ritornava. E come che il passo fosse stretto e difficile, l'asino dell'altro carico e stanco, lo urtò di maniera che lo fece cadere a terra, rompendosi li vasi e spargendosi l'acqua di ch'erano pieni. L'acquatore, per questa disgrazia dispettato ed in colera, andò sopra Lope, ch'anco era a cavallo, e prima che smontato potesse diffendersi lo caricò con una dozzina di buone bastonate.
Si disbrigò infine Lope tanto arrabbiato che, prendendo con ambo le mani il suo nemico per la gola, li fece dare della testa sopra una pietra in sì fatta maniera che gliela ruppe da due parti e n'uscì il sangue in tanta abbondanza che pensò di averlo amazzato.
Molti altri acquatori, che per essere quella la strada ordinaria similmente passarono, vedendo il loro compagno per terra tutto involto nel sangue furno sopra l'Asturiano ed a furia de mostaccioni e di bastonate lo fermarono gridando ad alta voce:
"Giustizia, giustizia, che questo vituperoso ha amazzato un uomo".
Altri fattisi dal caduto viddero che aveva spezzata la testa e che quasi stava spirando,
perloché, spargendosi la voce di bocca in bocca, pervenne in piazza del Carmine e, sentendo questo fatto un capo de' birri, con due compagni in un subito si fece dov'era il romore e vide il ferito posto attraverso il suo asino e quello di Lope legato e lo stesso Lope circondato da più di venti acquatori che, e con pugni e con bastoni, lo avevano acconcio di modo che più era da dubitarsi della sua vita che di quella del ferito.
Fecesi il bargello fare largo dalla gente e prendendo l'Asturiano lo consignò alli due birri, dando il di lui asino da condurre ad un altro che al suono della presa li era sovragiunto. Di questo modo si inviò alle carceri, concorrendo tanta gente per le strade, affine di sapere la causa di questo, che a fatica potevano caminare.
Concorse ancora al romore Pier Tomaso ed il suo padrone sopra la porta e viddero Lope fra li due birri tutto lordo di sangue. Rimirò che fosse dell'asino e similmente lo vide condur prigione.
Richiese che di questo si fosse la causa e li fu raccontato il successo. Spiacqueli il danno del nuovo suo famiglio ma molto più li spiacque il proprio per l'interesse dell'asino, sapendo molto bene quanto li aveva da costare per riaverlo.
Lo seguì Pier Tomaso fino alla prigione, non potendo mai per istrada dirli una parola tanto era il concorso delle genti e la cura che ne avevan li due birri.
Vide metterlo alle strette ed all'oscuro con ceppi e catene ed il ferito similmente a porre in infermeria, dove intese dal cirugico essere la ferita pericolosa,
et vide il bargello condurre a sua casa li due asini, governando di più cinque reali da otto che i birri levati avevano a Lope.
Perloché tutto confuso né sapendo che fare ritornò all'albergo e, rittrovato il padrone non men pensieroso di lui, li diede conto del modo in che restava il suo compagno, del pericolo in che stava il ferito e di quanto si era fatto dell'asino.
Aggiunse di più che per maggior sua disgrazia aveva per istrada incontrato un grande amico del suo padrone, il quale li aveva per sua parte dato dodeci scudi con ch'egli si andasse a Siviglia dove lo stava aspettando, avendo lui per iscortare il camino passato in una nave, e che quella stessa notte dormiva in Orgaz,
ma che non aveva da essere la cosa di quella maniera, non essendo di dovere ch'egli lasciasse il compagno in periglio
e tanto più che essendo il suo padrone persona discreta non avrebbe riputato male qualunque mancamento li facesse purché fosse per simile effetto,
pertanto ch'egli prendesse que' dinari e si ingerisse in quel negozio, perché avrebbe scritto al suo padrone raguagliandolo del bisogno e così sapeva di certo non avrebbe mancato di inviarli altri dinari fino a tanto che si fossero agiutati.
Il padrone, che sentì questo, aperse gli occhi un palmo, rallegrandosi di vedere in parte pagarsi la spesa del suo asino.
Prese li dinari e consolò Pier Tomaso dicendogli di aver persone tali in Toleto che potevano molto con la giustizia, et in particolare una signora monaca parente del governatore, la quale aveva tanta potenza che li comandava, come si dice, con li piedi, et che una lavandaia del monasterio della tal monaca aveva una figlia, grande amica di una sorella di un frate ch'era molto famigliare e conosciuto dal confessore di detta monaca, e che la lavandaia lavava le robbe in casa.
Sì che, ordinando lei alla figlia, come lo avrebbe fatto più che volontieri, che parli alla sorella del frate, acciò che ella parli al confessore, che dica alla monaca li faccia piacere di scrivere un biglietto al governatore, perché li sia in piacere di considerare la causa di Lope, che senza dubbio n'aspettasse buonissimo successo, con che però il ferito non muoia, e che non manchi unguento per unger li ministri della giustizia che altrimenti stridono sempre, peggio che le carrette da buoi.
Reseli grazie Pier Tomaso delle tante favorevoli essibizioni e, benché vedesse più tosto quelle sciocche derivazioni de favori tanto intricati nascere da soverchiamente astuto, pure non mancò di consignarli il dinaro, pregandolo che non mancasse dell'opera, che non ne sarebbero mancati di mano in mano, confidandosi di tanto nel suo padrone.
La Argueglio, che vidde il suo nuovo imaginato Narciso fatto prigione, andò subito alle carceri a portarli da mangiare; ma, non lasciandoglielo vedere, tutta malinconica e confusa si ritornò alla casa, non desistendo però punto dal suo buon proposito.
In risoluzione, nel termine di quindeci giorni fu fuor di pericolo il ferito e nelli venti dichiarò il cirugico ch'egli era del tutto sano, ed in questo tempo aveva Avendagno finto di scrivere a Siviglia e che di là li fossero venuti cinquecento scudi, li quali tutti diede al padrone, mostrandoli lettere e scartabelli falsi, che come che il padrone fosse, com'è l'ordinario delli osti, rozzo d'ingegno, il tutto li credé, non cercando più oltre.
Con sei ducati annullò la querela il ferito, con altri dieci, e nell'asino, con le spese fu sentenziato per uscire di prigione, li quali dinari pagati
e fatto libero non volse più ritornare nell'albergo portando per iscusa che nel tempo della sua prigionia lo era stato a visitare Argueglio e che l'aveva richiesto d'amore, cosa che più tosto egli si lascierebbe impiccare che mai acconsentirle, pensando di comprare un asino de' propri dinari, poich'egli voleva proseguire nell'incominciato ed essercitare lo stesso mestiero di acquatore, potendosi di quello far coperta, affine di non essere preso per vagabondo, tutto il tempo che si fermassero in Toleto, potendo con una sola carica di acqua andare attorno tutto il giorno vedendo le donne e prendersi spasso e ricreazione.
E come le vedrai belle soggiunse Avendagno poiché questa città ha fama d'essere la più copiosa di tutta Spagna in bellezza di donne; che ciò sia vero risguarda Costanzetta che non che bella bellissima sarebbe bastante co' suoi raggi ad abbellire non solo queste donne ma quelle del mondo tutto.
Piano, signor Tomaso replicò Lope, andiamo a poco a poco con le lodi di questa signora fantesca, se non vuole che, come lo tengo per pazzo, lo tenga da qui avanti per eretico.
Fantesca hai chiamato Costanza? rispose Tomaso Dio te lo perdoni e ti dia grazia che conoschi l'errore.
E come ch'ella non è fantesca?
Perché neanco l'ho veduta lavare il primo piatto.
Forse non vuoi ch'ella sia tale replicò Lope.
E quando l'avessi veduta lavare ed il secondo ed il centesimo disse Tomaso che importerebbe questo? Benché invero ella non attende a questo ma sì bene a' suoi lavori ed in curare l'argenteria di casa che è molta.
E come vien chiamata da tutta la città con questo nome di fantesca nobile, se è vero che non lava piatti? Se non fosse che lavando argento e non stoviglie le danno questo nome di nobile. Ma lasciando questo a parte, dimmi, Tomaso, come stanno le tue speranze?
Nello stato di perdizione rispose Tomaso, perché in tutti questi giorni che sei stato prigione mai ho potuto dirle una parola; ed a' forastieri che l'interrogano, conforme il bisogno, con altro non risponde che con il bassare gl'occhi e non aprire la bocca; tale è la sua onestà e gentilezza che non meno con questo innamora che con la tanta sua bellezza.
Quello che con pazienza mi fa sopportare ogni cosa è il sapere qualmente il figlio del governatore, giovane bizzarro e galante, si muore per lei; né passa notte che alle finestre non si faccino per sua parte serenate, tanto alla scoperta che in quello che cantano la nominano, la lodano e la solennizano;
però lei mai le sente, che dall'avemaria fino al giorno mai esce della camera della padrona, scudo che vieta il colpirmi nell'anima la dura lancia della gelosia.
Che pensi dunque fare con l'impossibile che ti si offerisce disse l'Asturiano nella conquista di questa Porcia, di questa Minerva o di questa nuova Penelope che in figura di donzella e di fantesca ti innamora, ti impoltronisce e ti fa andar pazzo?
Burlami pure quanto sai e vuoi rispose Tomaso, che io so di essere innamorato del più bel volto che mai formasse natura e della più incomparabile onestà che imaginar si possa.
Costanza si chiama e non Porcia, Minerva o Penelope; serve sì in un'osteria, che negare nol posso; ma come debbo io oppormi a quella occulta forza con la quale il destino m'inclina e la elezione giudiziosamente fatta mi move a che io l'adori?
Non so propriamente dirti la maniera con la quale amore questa, come dici, fantesca mi fa parere oggetto tanto alto che mi sembra divino.
Non è possibile, benché io mi sforzi di farlo, considerare Costanza nello stato umile in che ella è posta, perché apena incomincio a considerare questa essere osteria, e tutti quelli che vi stanno essere servi, che mi si rappresentano la bellezza, la grazia, il sossiego, l'onestà e ritiratezza di lei e mi danno ad intendere che sotto quella rustica corteccia altro non vi può essere che una preziosa miniera ed una inestimabile gioia.
Insomma sia quello che si voglia, l'amo; e non di quello amore volgare ed ordinario col quale tant'altre donne ho amate ma con amore tanto onesto quanto imaginar si possa. Non procurando altro che servendola di essere contracambiato da lei in quella guisa che gl'onesti miei pensieri meritano.
A questo diede un terribilissimo grido Lope, dicendo:
O amore platonico, o fantesca nobile, o felicissimi nostri tempi, ne' quali l'onestà innamora senza malizia, l'onestà accende senza abbruggiare, la grazia dà gusto senza incitamento e la bassezza dello stato umile obliga e sforza ad innalzarsi e signoreggiare della stessa fortuna. O poveri miei tonni, e come passa quest'anno senza ch'io possa visitarvi, che ben sapete quanto io vi sono affezionato; ma pazienza fino a quello che viene, che spero farne di maniera l'emenda che li maggiorenghi delle mie bramate almadrave non abbino occasione di lamentarsi di me.
Tomaso allora li rispose, dicendo:
Già veggo, Lope, quanto alla scoperta ti facci la burla di me; quello che puoi fare è l'andarti a questa tua pesca, che io mi resterò nella mia caccia; e se la tua parte de dinari vuoi teco ne sei padrone, rimanendo ciascuno in pace e seguendo quel camino che il cielo ci avrà destinato; nel ritorno mi ritroverai dove sono, pensando di non partirmi in nissuna maniera.
Per uomo più giudizioso ti tenevo, Tomaso replicò Lope, e come non vedi che quanto dico lo dico in burla? Però, già che veggio tu parlare da dovero, da dovero anch'io ti servirò in tutto quello che sarà possibile e che ti fia di gusto.
D'una sol cosa in ricompensa delle tante che in tuo servigio penso fare ti prego ed è che mi levi l'occasione di sollicitarmi l'Argueglio e rompermi il capo con amorose preghiere, essendo io più per rompere l'amicizia teco che mettermi in periglio di farla seco.
Per vita mia, ch'ella parla più di un relatore e le puzza il fiato lungi una lega; tutti li denti di sopra sono postizzi; e quanto a me tengo che il simile fia de' capelli, perché dall'ora che mi ha scoperto il suo mal pensiero ho osservato che si liscia il volto, impastricciandolo tutto di biacca, che non pare altro che un mascarone di gesso.
Il tutto è vero rispose Tomaso né la Gallega, che mi va martirizando, è tanto mala. Quello che si può fare è stare per questa sola notte nell'albergo e dimani comprerai l'asino che dici e buscherai alloggiamento, fuggendo di questa maniera l'incontri della Argueglio, restando io solo soggetto a quelli della Gallega ed ai raggi irreparabili della vista di Costanza.
Con questo si accordarono li due e di compagnia andarono all'osteria, dove dall'Argueglio fu ricevuto con straordinaria ciera l'Asturiano.
Ballarono quella notte alla porta dell'albergo li famigli da stalla ed altri.
Lope toccò la ghitarra, le ballatrici, oltre le due galleghe e la Argueglio, vi vennero altre tre fantesche d'altre osterie.
Si congregarono ancora molti con il viso coperto, più per brama di vedere Costanza che il ballo, però ella non uscì mai, di modo che lasciò burlati molti.
Lope intanto con la sua ghitarra faceva maraviglie, perché di maniera la suonava che dicevano ch'ella parlava. Le giovani e con molto più instanza la Argueglio lo pregò cantasse alcuna canzone ed egli rispose che ballando a modo che si usa nelle comedie le avrebbe sodisfatte, che pertanto si mettessero all'ordine ed affine che non fallassero disse che ciò ch'egli cantava facessero, e non altrimenti.
Fra li famigli erano alcuni ballarini e similmente fra le fantesche, sì che risposero ch'egli cantasse né si dubitasse punto.
Si purgò il petto Lope, sputando due volte, ed in questo mentre pensò che avesse a dire, che, essendo di facile e pronto ingegno, con una felicissima corrente all'improviso cantò una canzonetta al meglio che seppe.
Mentre cantava Lope, la turba de' famigli e delle fantesche si dileguava ballando, essendo arrivati fino al numero di dodeci li ballarini. Era ormai pervenuto al fine della sua canzone e si apparecchiava di cantare altre cose di miglior tuono e di maggior sostanza, quando uno degl'incamuffati ad alta voce incominciò dirli:
Taci, imbriaco, taci, porco, taci, asino, poeta ciabattino e musico da cento.
Dietro questo si sollevarono una moltitudine d'altri inquieti che li dissero tante ingiurie, e tanto lo tacciarono, che egli tolse per bene il non darli risposta. Però li famigli ballarini erano per far quella notte del male, se il sivigliano non li rappacificava; ma ned anco erano per quietarsi affatto, se non si abbatteva a caso passare per di là la giustizia che li fece tutti ritirare nelle loro case;
ed appena questo ebbero fatto quando si sentì una voce di un tale che, assentatosi sopra una pietra rincontro l'osteria, cantava tanto dolcemente che lasciò tutti sospesi e li pose in obligo d'ascoltarlo fino al fine.
Però chi più d'ogn'altro li prestasse attenzione fu Pier Tomaso, come quello che a lui più che ad altro toccava non solo sentir la musica ma intendere le note, che per lui quanti furno li versi, tanti furno chiodi che li passarono l'anima. La canzone ch'egli cantò fu questa:
Dove, o bella, ti stai,
che agl'occhi miei ti togli?
Ove nascondi i rai,
per cui di libertà mi privi e spogli?
Perché il nodo non sciogli
che l'alma al corpo unita
tien la misera vita,
se rimirar m'è tolto
il tuo celeste volto?
Cielo, che cielo sei
se la bellezza miro,
ond'è ch'infausti e rei
produce in me gl'influssi ogni tuo giro?
Lasso, ben io sospiro,
piango e prego ma invano,
che tu mi stai lontano
e fra le mura chiusa
da te pietate è esclusa.
Deh che non lasci a pieno
non fra le nubi ascoso
del tuo volto sereno
chiaro godere il sole e luminoso?
Che l'altro in ciel non oso
fora contender teco
di luce in tutto cieco
se tu co' tuoi bei raggi
non lo illustri ed irraggi?
Care mura beate,
felice vostra sorte,
che non vi son negate
le bellezze, per cui torrei la morte;
quantunque acerbo e forte
mi sia il pensar ch'in voi
chiudete i lumi suoi,
pur vi gradisco e onoro,
non v'invidio, v'adoro.
Solo mi duole, ahi lasso,
di te, che agl'occhi tolta
in stato umile e basso
meni la vita semplicetta e stolta;
né quella luce molta
che l'alme tiranneggia
lasci che 'l mondo veggia;
e pur sai che bellezza
non vista non s'apprezza.
Folle, che dico? Il sole
quanto più occulto stassi,
tanto più grato fassi.
Il finire questo ultimo verso ed il volare due mezzi mattoni fu tutto una cosa, che, sì come li cadettero a' piedi lo avessero percosso nel capo, con facilità li levavano in uno stesso punto e la musica e la poesia.
Levossi il musico e, dandosi a fuggire per quella strada, incominciò di modo a correre che non l'avrebbe giunto un levriere: infelice stato de' musici che quasi pipistrelli e nottole sempre sono soggetti a simili pioggie ed a simili tempeste.
Parve a tutti che sentito l'avevano molto virtuoso e molto più lo parve a Tomaso che notato aveva con grandissima attenzione e la voce e la canzone, benché da altra cagione che da Costanza avrebbe egli voluto fosse nata così bella musica.
Contrario a questo parere fu Barrabas, mozzo di stalla che similmente il tutto sentito aveva, perché vedendo fuggire il misero musico disse di questa maniera:
Va' pure, pazzo che sei, poeta ciabattino, che li pulci ti mangiano gl'occhi, e chi diavolo ti insegnò cantare a una fantesca cose di cieli, di sfera e d'influssi?
Lo dicesti in malora tua e di chi giudicasse mai buona questa tua invenzione di verseggiare, perché se detto le avessi ch'è forte come uno sparagio, gonfia come un penacchio, bianca come il latte, onesta come un frate novizio, schizzignosa e dispettosa come una mula da nolo e più dura dello smalto ti avrebbe inteso e si sarebbe rallegrata; ma il dirle quanto l'hai detto, credimi che fora stato più decente il dirlo ad un fanciullo della dottrina che ad una fantesca.
E veramente vi sono certi poeti nel mondo che scrivono cose tanto spropositate che neanco il diavolo le intende;
et io che sono Barrabas, almeno queste che ha cantate questo musico, non le posso capire, ora vedete che farà Costanzetta;
ma ella le intende meglio, poiché si sta nel suo letto, facendosi burla dello stesso Prete Giani dell'Indie.
Costui non è di quelli del figlio del governatore, poiché quelli sono molti ed una volta o un'altra si lasciano intendere, cosa che questo mi ha lasciato per rabbia tutto instizzato.
Quelli che ascoltarono Barrabas ne presero gran gusto, dimostrando che la sua censura loro fosse piacciuta; e così ciascuno si andò a dormire; ned appena fu entrato Lope in letto che sentì picchiare pian piano all'uscio della camera e, richiedendo chi era, li fu risposto:
La Argueglio e la Gallega siamo, apri presto, che ci moriamo di freddo.
E come questo, che siamo alla metà de' giorni caniculari? disse l'Asturiano.
E lascia le burle, Lope soggiunse la Gallega, levati ed apri, che veniamo fatte due arciduchesse.
Arciduchesse a quest'ora rispose lui non le credo, anzi penso che siate due streghe od almeno due grandissime vigliacche. Levatevi di costì subito, che altrimenti, s'io mi levo, giuro al diavolo che con li ferri del mio centurino voglio farvi divenire le natiche rosse come un fuoco.
Esse, che di questa maniera tanto fuori del loro primo pensiero si viddero rispondere, temettero la furia dell'Asturiano e, defraudate le loro speranze, scancellati li loro dissegni si ritornarono scontente e triste ne' loro letti, benché prima che si partissero la Argueglio, posto la bocca al pertuggio per donde si pone la chiave, le disse:
Non è il miele per la bocca dell'asino.
E come che detto avesse una gran sentenza, o presa una gran vendetta, si andò nel letto, come abbiam detto.
Sentì Lope che si erano andate e rivoltosi al compagno li disse:
Vedete, Tomaso, ponetemi a combattere con due giganti, o pure in vostro servigio commandatemi ch'io sbrani mezza dozzina di leoni, che con più facilità che bevere una tazza di vino me lo vedrete fare; ma il mettermi a rischio di fare alle braccia con Argueglio non lo consentirò mai, benché fossi assaettato.
Vedete di grazia che donzelle di Danimarca ci aveva questa notte offerite la nostra buona sorte. Non importa; si farà giorno e faremo del bene.
Già ti ho detto rispose Tomaso che puoi fare quello ti gusta, tanto nell'andar alle tue almadrave, quanto in comprare l'asino et fare l'acquatore, come hai detto.
Nel farmi acquatore sono risoluto; però dormimo quello ci avanza della notte, avendo la testa più grossa di una botte ned essendo atto adesso a questionar teco.
Dormirono, venne il giorno, si levarono e Tomaso andò a dare la biada e Lope al mercato delle bestie per comprare un asino che avesse tanto del buono quanto del bello.
Accadé poi che un giorno Tomaso, levato da' suoi pensieri e dalla commodità che li concedevano l'ore di riposo doppo il desinare, aveva composti non so che versi amorosi e scrittoli nello stesso libro dove teneva il conto della biada con intenzione di trascriverli netti e stracciare dal libro que' fogli imbrattati
ma, prima che ciò facesse, essendo fuori di casa e smenticatosi il libro sopra il cassone della biada, lo prese il padrone ed aprendolo vide li versi che non poco lo turbarono e lo insospettirono.
Andò subito da sua moglie e, chiamata Costanza, e con preghiere e con minaccie le richiese se mai in alcun tempo Tomaso le avesse parlato amorosamente o detto alla sua presenza parole sconcie, dimodoché potesse venire in cognizione che l'amasse.
Giurò Costanza che già mai li aveva parlato e che neanco cogli occhi le aveva dato mai segno di mal pensiero.
Credettero li padroni come quelli che usi erano sempre sentirla dire veritadi
e le diedero licenza perché si andasse a fare suoi fatti.
Non so che dirmi circa questo fatto disse il padrone, dovete sapere, moglie mia, che Tomaso ha scritto sopra questo libro della biada non so che canzone amorosa, la quale mi pone il cervello a partito facendomi a credere ch'egli sia innamorato di Costanzietta nostra.
Lasciate vedere la canzone rispose la moglie e vi saprò dire ciò che ne sia.
Certo sì soggiunse il marito, che essendo voi una poetessa nissuno meglio di voi potrà dare nel segno.
Non sono poetessa disse la moglie, però ben sapete che ho qualche cognizione e che so recitare le quattro orazioni in latino.
Meglio sarebbe le recitaste in volgare replicò il marito, che già vi disse vostro zio il prete ch'erano spropositi e non orazioni le vostre.
Questo colpo è uscito dalle mani della figliaccia di sua nipote, invidiando il vedermi prendere in mano l'ore di n. signora in latino e trascorrere per esse come per vigna vindemiata.
Sia come si voglia rispose il padrone. State attenta che li versi sono questi:
Chi d'amor gode la pace?
Quel che tace.Chi trionfa di sua asprezza?
La fermezza.Chi d'amor si fa beato?
L'ostinato.Dunque puote avventurato
farmi il tempo amato amante
essendo in amar costante,
muto, fermo ed ostinato.Con che si sostenta amore?
Con favore.Con che si scema sua furia?
Con l'ingiuria.Con li sdegni va crescendo?
Dicrescendo.Da quest'io chiaro comprendo
che 'l mio amor sarà immortale,
poiché il fonte del mio male
grato e ingrato ognor mi rendo.Scoprirolli il mio tormento?
Lo consento.S'occasion non avrò mai?
L'averai.Mi verrà la morte intanto.
Venghi a tanto.La tua fede e la constanza
che sapendolo Costanza
torni in riso ogni tuo pianto.
Evvi altro? disse l'ostessa.
No rispose il marito ma che vi pare di questi versi?
Parmi replicò lei che la prima cosa sia di necessità assicurarsi che siano di Tomaso.
Oh, oh, in questo soggiunse il marito non occorre dubitare, poiché il carattere della biada e quello de' versi è lo stesso né vi accade replica.
Vedete, marito tornò a dir la moglie, benché li versi dicano di Costanza, ad ogni modo non potiamo noi assicurarsi siano fatti per lei, stando che non sola la nostra Costanza è al mondo; e quando anco fossero fatti per lei poco importa, non dicendoli cosa che la disonori o le chieda qualche impossibile.
Stiamo noi su l'aviso e di questo facciamone consapevole la fanciulla, che s'egli innamorato sarà di lei sicurmente farà altri versi e glieli darà, venendo noi in cognizione della verità.
Non sarebbe meglio rispose il marito per levarci questi sospetti cacciarlo di casa?
A voi sta il farlo disse la moglie ma invero che, servendo così bene come dite, sarebbe carico di conscienza il mandarlo per così lieve cagione.
Ora bene replicò il marito, staremo all'erta come dite ed il tempo ci dirà quello dovremo fare.
Restarono in questo concerto ed il padrone rimise il libro donde tolto l'aveva.
Ritornò intanto Tomaso ansioso di trovare il libro; e perché più non avesse a temere ricopiò li versi e stracciò li fogli, proponendo di aventurarsi a scoprire l'amor suo a Costanza con la prima occasione.
Però come che ella sempre andasse co' piedi nel piombo circa la sua onestà, non solo non concedeva ad alcuno commodità di parlarle, ma neanco di rimirarla, aggiungendosi a questo la moltitudine de forastieri sempre albergati che e l'occupavano e li erano sempre sopra cogl'occhi tesi, di modo che si disperava il misero innamorato;
ma uscendo Costanza quel giorno con una guancia gonfia e bendata, richiesa che di questo si fosse la cagione e rispondendo che un grandissimo dolore de denti, Tomaso, che i desiri maggiormente li avvivavano l'intelletto, pensò di approfittarsi con una invenzione, la quale fu questa. Se le appressò e le disse:
Signora Costanza, io vi darò un'orazione in iscritto, la quale recitata due volte se li leverà il dolore come che si levasse con la mano.
Sia in buonora rispose Costanza, io la reciterò più che volontieri, sapendo leggere.
Con che però disse Tomaso non la mostri a persona vivente, stimandola io molto, perché in mostrandola perderebbe di divozione.
Tanto farò replicò la giovane e per vita vostra datemela presto, poiché molto mi travaglia il dolore.
La scriverò soggiunse Tomaso e subito gliela darò.
Queste furno le prime parole ch'ebbero insieme in ventiquattro giorni ch'egl'era in quella casa.
Ritirossi Tomaso, scrisse l'orazione e senza che alcuno vedesse la diede a Costanza, la quale con molto gusto e molto più divozione, entrata soletta nella sua camera, aperse la carta e vidde che diceva di questa maniera:
Signora dell'anima mia, io sono un cavaliere di Burgos che, avanzando, come spero, doppo i giorni di mio padre, sarò erede d'un'entrata di seimilla ducati.A la fama della vostra bellezza, che molto lontano si estende, lasciai la patria, mutai vestito e nell'abito che vedete sono venuto a servir il vostro padrone. Se vorrete esser mia, con quei modi che più alla vostra onestà sono convenienti, vedete quai prove debbo fare per assicurarvi di questa verità, che, di quanto vi dico fatta certa, se vi compiacerete ch'io sia vostro sposo, mi terrò per lo più avventurato del mondo.Quello che per adesso vi prego è che non gittate questi amorosi ed onesti pensieri alla strada, che se pervenissero all'orecchie del padrone, che il contrario forsi crederebbe, mi darebbe bando dalla vostra presenza, che altro non sarebbe che il darmi la morte.Concedetemi, signora, il vedervi, considerando che sì rigoroso castigo, quanto è il levarmi il modo di contemplarvi, non merita chi altro errore non ha commesso che l'adorarvi.Con gl'occhi potrete farmi risposta, a dispetto di quelli che tutto il giorno ci stanno osservando, essendo loro tali che adirati amazzano e pietosi risuscitano.
Stette Tomaso in questo mentre ch'ella lesse la lettera con timore e speranza, aspettando la sentenza della sua morte, overo la ristorazione de' suoi travagli.
Uscì dalla camera Costanza tanto bella, benché mascherata col velo, che, se la sua bellezza avesse potuto aumentarsi, non altro creder doviamo causato l'avesse che l'aver veduto il contenuto della lettera di Tomaso;
aveva nelle mani la stessa carta, ma tutta fatta pezzi, ed appressatasi a Tomaso che tutto tremante si stava li disse:
Fratello, questa tua orazione più tosto parmi una fattucchieria ed incanto che altra cosa; non ho voluto servirmi d'essa, né gli ho dato credito alcuno, avendola stracciata come vedi, affine che altra più di me credula non li presti fede. Impara altre orazioni più facili, perché questa sarà impossibile ti sia di giovamento.
Appena ebbe ciò detto che, entrando nella camera della padrona, lasciò Tomaso tutto sospeso, però alquanto consolato, vedendo che il segreto de' suoi desiri sola sapeva Costanza, perché, in sapendolo il padrone, dubitava, come n'aveva occasione, l'avesse cacciato di casa.
Parveli che il primo colpo che dato aveva per espugnar la rocca di Costanza lo avesse fatto dare in un monte d'impossibilità; ma pure confidavasi, sapendo che li principi sono difficili.
Intanto che questo nell'osteria successe, Lope, arrivato al mercato delle bestie, vidde molti asini, però alcuno non li piacque, ancorché un cingano si affaticasse molto per attaccargliela d'uno che più tosto caminava per l'argento vivo postoli nell'orecchie che per sua leggerezza e bontà. Cercava egli un asino grande di corpo, atto alla fatica, pensando fosse carico o no quanto li fosse in piacere saltarli sopra e farsi portare;
però li venne all'orecchio un garzonetto e li disse:
Giovane, se cercate bestia per fare l'acquatore n'ho io una bellissima, che la migliore non si può desiderare in tutta questa città, e vi consiglio a non comprare asini da' cingani, che, se bene paiono buoni, ad ogni modo sono ripieni di magagne; se volete comprare cosa a proposito venite meco né fate parola.
Credé l'Asturiano e postoseli dietro pian piano
arrivarono ai giardini del re, dove all'ombra d'una gran ruota da acqua vidde molti acquatori, gl'asini de' quali pascevano in un prato poco indi lontano.
Mostrò l'asino il venditore a Lope ed a lui sommamente piacendo, oltre il sentirlo lodare dagl'altri di forte, di trottante e mangiatore perfetto,
senza sicurtà od informazione, sborsò sedeci scudi d'oro del prezzo, intendendovisi però anco tutti li utensili necessari per il mestiere.
Si congratularono seco gl'altri tanto della compra quanto dell'esser fatto loro compagno, dicendoli non poteva fare con quel asino altro che bene, stando che il padrone che lo lasciava, senza affaticarsi troppo od amazzarsi con la fatica in due anni che l'aveva adoperato, oltre l'essere onoratamente vivutosi, aveva avanzati due vestiti e li sedeci scudi da lui pagati, co' quali pensava di andarsene alla patria, dove l'avevano maritato con una sua mezza parente.
Oltre li acquatori che gli avevano fatto il sensale, erano altri quattro da un canto stesi per terra giocando alla primiera, servendoli il terreno per tavolino e le loro cappe per tapeto,
li quali ponendosi a rimirare l'Asturiano, vide che non giocavano come acquatori ma sì bene come prencipi, avendo ciascuno di loro davanti per resto più di cento reali, in buona moneta d'argento.
Finì in questo uno di perdere e quello che venduto gli aveva l'asino, levatosi in piedi, soggiunse che, non essendo quattro, non intendeva giocare per essere nemico di giocare in terzo,
il che sentendo l'Asturiano, che era della natura del zuccaro che mai guastò minestra, disse ch'egli farebbe quarto.
Lo accettarono volontieri; si assentò e la cosa andò di modo che, volendo più presto perdere li dinari che 'l tempo, in poco d'ora perdé sei scudi che aveva; vedendosi poi senza un quattrino, disse che, se avessero voluto giuocare sopra l'asino, volontieri lo averebbe fatto.
Risposero che sì et alla prima carta fece di resto un quarto di asino, volendolo giocare a quarti;
la sorte li andò tanto contraria che in meno di mezz'ora perdé tutti li quattro quarti et glieli vinse lo stesso che venduto lo aveva, il quale, levandosi per prenderlo, li disse Lope che avvertisse l'asino non essere ancora suo, poiché solo aveva vinto li quattro quarti e non la coda, che pertanto gliela levasse e si prendesse l'asino in tanta buonora.
Causò in tutti li altri grandissimo riso la sproporzionata dimanda di Lope e vi fu che disse la coda in ogni modo essere del vincitore, poiché quando si vende qualche castrato, od altro animale, la coda per ragione va congiunta con uno delli quarti di dietro;
al che replicò l'Asturiano che li castroni di Barberia per l'ordinario hanno cinque quarti e che il quinto è quello della coda e che, quando detti castrati si fanno in quarto, tanto vale la coda quanto uno delli altri; che, circa l'andare la coda con gli altri quarti, nella bestia viva che lo concedeva, però che la sua non fu venduta ma sì bene giocata e che egli già mai ebbe intenzione di giocare la coda, sì che gliela dasse immantinente, con tutto quello che di ragione andava insieme, ch'era tutto il filo della schiena, con gli ossi attaccati fino al cerebro dond'ella aveva principio e fino all'ultimo pelo di essa, donde aveva fine.
Presuppongo che abbiate ragione disse uno ma a questa volta convienvi aver pazienza, che non ve la vogliono fare.
E come soggiunse l'Asturiano, venghi la mia coda dunque adesso adesso, altrimenti non conosco chi sia buono a levarmela, se bene fossero congiunti tutti gli acquatori del mondo per farmi superchieria, ch'io sono un uomo che saprò appressarmi ad un altro e metterli due palmi di pugnale per la pancia senza sapere donde o come li venga; e tanto più che non voglio mi sia pagata detta coda per rata degli altri quarti ma sì bene sia levata dall'asino nella maniera che ho detto.
Al vincitore ed agli altri non parve bene dar fine a quel negozio per forza giudicando Lope di tal capriccio che non avrebbe acconsentito gliela avessero attaccata. Egli intanto come che essercitato nelle almadrave, dove si essercita ogni sorte di rumore, di fracasso, di giuramenti e di stridi, impugnato il pugnale che sotto il picciolo ferraiuolo portava ed acconciatosi in una postura straordinaria, infuse in tutti timore e spavento di tal sorte che giudicarono bene il rappacificarlo.
Finalmente uno di loro, che di maggior giudizio e più sano discorso pareva, li concertò di questa maniera: che si giuocasse la coda contro un altro quarto, alla primiera o alla bassetta, come più lor fosse piacciuto.
Di questo modo accontentatisi, si assentarono et giuocando guadagnò Lope la primiera, disperandosi l'altro di sorte che ostinatosi nel giuoco perdé ogni ragione che sopra l'asino aveva.
Non voleva l'Asturiano giuocar altro ma, importunandolo il contrario, giuocò e li vinse ancora tutti li dinari, lasciandolo schernito senza un solo quattrino. Il che fu cagione che si gettasse per disperazione a terra percuotendo come pazzo della testa ne' sassi.
Lope, come ben nato e liberale ch'egli era, avendoli compassione lo fece levare, ritornandoli quanto li aveva vinto e di non so che altra moneta avanzatali ne fece divisione fra gli altri, per la qual liberalità e generosità d'animo infuse negl'acquatori stupore e maraviglia di sorte che, se fossero stati que' tempi e l'occasioni del Tamborlano, l'averebbero gridato per loro re e signore.
Ritornò poi Lope alla città, seguendolo tanti che maggior corte non avrebbe condotto un gran prencipe; e subito si diede a raguagliare Tomaso del successo, il quale non tacque a lui quanto gli erra accaduto con Constanza.
Non vi fu taverna, non vi fu bettola né vi fu ridotto od accademia de guidoni che non sapesse il gioco dell'asino ed il contrasto della coda, con la liberalità ed ardire dell'Asturiano;
però, come che il volgo per l'ordinario sia insolente e maledetto, smenticossi la liberalità e generosità di Lope tenendo a memoria solamente la coda, dimodoché, appena fu andato due giorni attorno per la città con l'acqua che, divenuto noto a' fanciulli, lo dimostravano a dito, dicendo:
"Asturiano, dammi la coda, Asturiano, dammi la coda".
Lope, che di questa maniera vide essersi fatto bersaglio all'impertinenze de' fanciulli, tacque da prima pensando col silenzio di prevenirli
ma vedendo essere vano questo rimedio incominciò a percuoterli instizzandoli, dimodoché, se prima lo travagliavano a dozzine, ora lo importunavano a migliaia.
Egli pertanto pensò di ritirarsi nell'albergo che lontano da Tomaso per ischifare li incontri della Argueglio si aveva tolto; e questo fino a tanto che fosse passata la trista influenza della coda.
Sei giorni passarono ch'egli non uscì di casa, fuorché di notte andando all'osteria del sivigliano per sapere da Tomaso come passassero li suoi negozi, de' quali fu a pieno raguagliato, dicendoli come, da che diede la lettera a Costanza, non più aveva potuto parlarle e che una sol volta in tanto tempo li si era rappresentata l'occasione, ma che di questo accortosi la giovane prevenendolo li aveva detto:
"Tomaso, non mi duole alcuna cosa, ned ho bisogno di tue parole o di tue orazioni; accontentati che non ti ho accusato all'Inquisizione né ti fidare tanto di te stesso", però che queste parole le aveva dette senza che gli occhi dimostrassero colera o che li fosse spiacciuta la lettera di sorte che l'avesse indotta a sdegno.
Consigliò poi Lope che, per ischifare l'importunità de' fanciulli, non uscisse più con l'asino o che, se pure uscisse, fosse per istrade solitarie e fuor di gente, caso che poi questo neanco giovasse lasciasse il mestiero, avendo il modo e la commodità di vivere senza farlo.
Richieseli l'Asturiano come lo molestava la Gallega e gli rispose che più con li aveva dato impaccio ma che bene l'andava adescando con il regalarlo di varie cose mangiative che nella cucina rubbava;
finiti questi discorsi, si ritornò Lope al suo albergo;
e la stessa notte, circa il mezzo, all'improviso entrò nell'osteria il governatore della città, accompagnato da molte altre genti,
la cui venuta impaurì di modo e l'oste e li forastieri che non sapevano che farsi, essendo che, sì come le comete annunziano infortuni e disgrazie, la corte entrando in una casa pone spavento fino alle conscienze non colpevoli.
Entrò il governatore in una sala terrena dove, facendo chiamare l'oste che tutto tremante venne, ordinò che quanti dentro vi erano uscissero; poi, chiedendoli s'egli era il padrone dell'albergo e rispondendo che sì, li addimandò che genti da servigio aveva in sua casa, al che rispose che due giovanette di Gallizia, una governatrice ed un garzone che li serviva in dispensare la biada erano li suoi serventi.
Non più? disse il governatore.
Signor mio, no rispose l'oste.
E come soggiunse il governatore, non avete voi una fanciulla che serve di fantesca in questa casa, tanto bella che dalla città tutta vien chiamata la fantesca nobile? E d'avantaggio io so che don Perichito mio figlio vive di lei innamorato di sorte che non passa notte non li faccia serenate.
Signore rispose l'oste, questa fantesca nobile che v. s. dice, ben è vero che vive in questa casa ma non però è mia servente.
Non intendo come ella possa non essere vostra serva replicò il governatore; parlate più chiaro.
Il vero ho detto seguì l'oste e, se v. s. mi concede il dire, farò palese quello che già mai ho detto a persona alcuna.
Prima voglio vedere la fantesca disse il governatore, chiamatela alla presenza mia.
Venne su l'uscio della sala l'oste e ad alta voce disse:
Padrona, fate che venga Costanza.
La moglie dell'oste, ciò sentendo, torcendosi le mani e disperandosi diceva:
Ahi sventurata me, trista e contraria mia sorte, il governatore chiede Costanza, le vuol parlare a solo, qualche gran male deve esservi, essendo che la bellezza di questa fanciulla è tale che fa impazzire gl'uomini.
E non si turbi, signora disse allora Costanza, ch'io andrò a vedere che vuole il signor governatore e, se vi sarà alcun male, stii pur vostra signoria sicura che non avrà avuto origine dal canto mio.
Ciò detto, presa nelle mani una candela accesa ch'in un candeliere d'argento era, non aspettando d'esser chiamata la seconda volta, con molta più vergogna che timore entrò nella sala,
commandando il governatore all'oste serrasse l'uscio. Poi togliendo dalle mani a Costanza il candeliere gliel'appressò al volto, che per la vergogna era divenuto molto più colorito, e risguardandola minutamente pensava d'aver davanti gl'occhi un angelo del cielo, tale era la bellezza e l'onestà di lei. Alla fine rivoltosi all'oste li disse:
Questa, amico, non è gioia da legarsi in piombo tanto vile quanto è un'osteria e da qui avanti terrò don Perichito mio figlio per molto giudizioso e prudente, poiché ha saputo sì bene collocare i suoi pensieri.
Indi, rivoltosi a Costanza, disse:
Giovane, ben veggo quanto vi si convenga il titolo di nobile e di nobilissima; ma ben anco veggo quanto sia disdicevole il chiamarvi tale appresso al nome di fantesca, convenendovi molto più quello di duchessa e regina.
Non è fantesca, signor mio, perché ad altro non serve che in tener le chiavi dell'argento, avendone, per Iddio grazia, tanta quantità che ben posso regalare li forastieri onorati che vengono a questa mia osteria.
Con questo però soggiunse il governatore torno a dire non esser di dovere che rimanga più in questa osteria sì vaga donzella. Ma ditemi, è forse vostra parente?
Ned è mia parente ned è mia serva; e se v. s. brama sapere chi ella sia, come vadi in altra parte, racconterò cose in uno stesso tempo che li daranno e stupore e gusto.
Altro non bramo disse il governatore, pertanto vadi Costanza a far suoi fatti e si prometta di me quanto d'uno stesso padre.
La giovane intanto chinandosi fino a terra le fece una bellissima riverenza e, senza dir parola, si tornò dove era la padrona, confusa e ripiena di turbazione, aspettando ciò che di questa sì subita venuta del governatore ne risultasse; e quando la vidde, rendendo grazie al cielo, non si poteva saziare d'interrogarla ciò che detto le avesse il governatore,
alla quale diede Costanza pienissimo ragguaglio, dicendole di più come ambidue si erano restati in sala, perché il padrone voleva far nota al governatore non so che cosa in segreto.
Di questo modo si consolò in parte l'ostessa, rimanendo poi del tutto lieta quando vidde andarsi il governatore ed esser libero suo marito. Nella sala intanto l'oste di questa maniera, poiché vidde partita Costanza, incominciò a dire:
Oggi, signore, conforme il mio conto, compiscono quindeci anni, un mese e quattro giorni che una signora in abito di peregrina, dentro una lettiga, venne a questa mia osteria, accompagnata da quattro servitori a cavallo e da due matrone, con una donzella in un cocchio.
Aveva seco ancora due muli carichi e di vari utensili da cucina e di un bellissimo letto, coperti ambidue con tapeti ricamati.
Infine l'apparato era principale e la peregrina dimostrava d'essere una gran signora, la quale, ben che all'aspetto dimostrasse di passare li quarant'anni, ad ogni modo non lasciava di essere bella in estremo.
Era inferma e stanca, di modo che commandò subito a' suoi servitori le facessero il letto, che apunto in questa sala stessa glielo apparecchiarono.
Mi richiesero poi qual fosse il medico di maggior grido in questa città
ed io lor risposi che quello della Fontana communemente era tenuto per il migliore;
così lo addimandarono; venne; e con lei sola ristrettosi intese qual fosse la sua infermità. Quello che poi risultò dalla sua visita fu l'imporre a' servi gl'apparecchiassero il letto in altra camera lungi dal romore e dallo strepito delle genti,
il che fecero essi con quelle commodità che meglio si poterno in un'osteria.
Nissuno de' servitori entrava dov'ella era, servendola solamente le due matrone e la donzella.
Più volte io e mia moglie, mossi da curiosità, richiedessimo chi si fosse questa signora, come si addimandava, donde andava e di dove veniva,
non rispondendo essi mai altro alle nostre interrogazioni, che furono molte, solo che ella era una signora principale di Castiglia la Vecchia, vedova e senza eredi, soggiungendo che, affine di liberarsi dall'idropisia, dalla quale alcuni mesi era travagliata, aveva fatto voto di andarsi in peregrinaggio alla madonna santissima di Guadalupe,
e che circa il suo nome avevano ordine espresso da lei di non chiamarla con altro che con quello della signora peregrina.
Questo sapessimo per allora; però d'indi a tre giorni una delle sue matrone venne a chiamar me e mia moglie da sua parte. Vi andassimo e con le porte serrate e con le lagrime agl'occhi, alla presenza delle sue donne, disse, credo, queste stesse parole:
"Signori miei, buonissimo testimonio è il cielo se è vero che senza colpa io mi ritrova nel pericoloso termine in ch'io sono.
Io son pregna e sì vicina al parto che di già li dolori mi vanno amazzando;
li miei servi non sanno questa mia disgrazia; solo a queste donne ho voluto manifestare il segreto dell'animo e del corpo mio;
così per levarmi dalla vista de' maliziosi in mia patria, feci voto d'andar alla santissima vergine di Guadalupe, la quale deve essere servita ch'io partorisca in questa vostra casa. Ora che inteso avete la mia disgrazia a voi sta adesso il rimediarmi, con quella maggior segretezza possibile, considerando non meritare altrimenti chi l'onor suo e la sua riputazione ha posto nelle vostre mani.
Il premio del favore, tale voglio dirlo, che io riceverò da voi, se non corrisponderà al gran benefizio ch'io aspetto, corrisponderà almeno in dar mostra di una gradita volontà, come appunto voglio faccino questi ducento scudi rinchiusi in questa picciola borsa";
ed alzato il guanciale del letto prese una borsetta di seta verde ed oro, lavorata d'agugia, e la pose nelle mani a mia moglie che, tutta sospesa dalle parole della pellegrina, la ricevé senza punto considerare quello si facesse né rendendole grazie di così largo dono.
Mi ricordo che le dissi non esser di necessità con noi usare di simili donativi, stando che eravamo gente disinteressata e che si movevamo più che volontieri a far servigio donde l'occasione ci si rappresentava, per mera carità e non per altro;
ma ella mi rispose che li governassi e cercassi a chi dare la creatura subito che partorita l'avesse, ritrovando invenzioni e mentite per dire alla balia, aggiungendo che fuori in villa per degni rispetti doveva essere,
e che, piacendo a Dio si risanasse e potesse compire il voto, nel ritorno di Guadalupe mi avrebbe detto quello avessi avuto a fare.
Disse che di comare non aveva bisogno, né la voleva in nissuna maniera, stando che altri parti da lei già fatti l'assicuravano che con il solo aiuto delle sue donne sperava di riuscirne salva e di quella maniera risparmiare un testimonio de' suoi errori.
Qui diede fine la sconsolata signora alle sue parole e diede principio ad un grandissimo pianto, avegna che in parte la rendesse men dolorosa mia moglie, ritornata in sé stessa, consolandola al meglio che fu possibile.
Finalmente io mi partii per ritrovare il ricapito alla creatura che nascere doveva e fosse poi quando si volesse; così circa la mezzanotte, in ora appunto che tutti erano dati in preda al sonno, partorì una fanciulla, la più bella che già mai gl'occhi miei vedessero; ed è la stessa appunto che vostra signoria or ora ha veduta;
né la madre si dolse nel parto né la figlia nacque piangendo, di modo che ogni cosa in casa fu in quell'ora con una quiete e silenzio maraviglioso, quale appunto si conveniva a coprire così strano caso.
Sei giorni stette nel letto e sempre venne il medico a visitarla; non già che li avesse manifestato il suo male, non ricevendo mai alcuna delle ordinate medicine, ma solo affine d'ingannare li suoi servi, che non sapessero li fatti suoi.
Tutto questo mi disse lei di sua bocca, vedendosi fuori di periglio;
così in capo di otto giorni si levò dal letto con il ventre similmente gonfio ad arte e si pose a seguire il suo incominciato peregrinaggio, ritornando fra venti giorni quasi sana, perché di mano in mano si andava dicrescendo la gonfiezza della finta idropisia, publicando la sanità a' suoi servitori.
Quando ch'ella ritornò da Guadalupe, di già la creatura era fuori ad allevarsi in una terra quindi lontana due miglia, con voce ch'ella mi fosse nipote;
ed a battesimo li posi nome Costanza, avendo così ordinato la madre, la quale, contenta di quanto aveva fatto, nel partirsi mi diede una collana, ch'io tengo ancora, e vi levò sei anella, che presso di sé ritenne, e mi disse che chi fosse venuto per la creatura sarebbe venuto similmente con lo avanzo della collana.
Tagliò ancora un picciol pezzo di carta pecora bianca e vi scrisse alcune cose in quella guisa apunto che, se incastrandosi le dita d'ambedue le mani vi si scrivesse, che mentre di quella maniera sono congiunti si può leggere, che poi divisi rimangono le lettere tronche. Di questo modo adunque mi lasciò un pezzo di detta carta, scritta in maniera che non si può leggere, se pure non fosse indovino chi la leggesse; e disse che quello sarebbe il contrasegno, il quale ancora io sto aspettando,
incaricandomi sopra ogni cosa il tacere la natività a detta sua bambina, caso che prima di due anni non venisse alcuno per lei, e che la allevassi come contadina, risguardando non a chi si fosse ma regolandomi a mio modo,
che circa il non dirmi allora chi ella si fosse li perdonassi aspettando di farlo con altra più opportuna occasione.
In risoluzione, dandomi altri quattrocento scudi ed abbracciando teneramente mia moglie, si partì, lasciando noi molto ammirati della sua prudenza, valore, bellezza e riguardo.
Due anni si allevò Costanza in villa, in fine de' quali la tolsi appresso di me vestendola, come mi aveva ordinato la madre, da contadina.
Quindeci anni, un mese e quattro giorni, come ho detto prima, io sto aspettando che alcuno venghi per lei e questa tardanza mi fa a credere che alcuno non sia più per venire, dimodoché ho pensato che, passando questo anno, ella mi rimanga in casa ed addottarla come figliuola e farla erede di quanto ho al mondo che vale più di seimilla ducati, lodato il cielo.
Resta ora, signor governatore, di raccontare, se sarà possibile, le molte virtù e bontà della giovane.
Ella primieramente è molto divota della madonna, si confessa e si communica ogni mese; sa scrivere, sa leggere. In tutto Toleto non vi è la maggior lavoratrice di reticelle di lei; sopra il guancialino mentre lavora canta che pare un angelo; nell'essere onesta non è chi la pareggi;
circa la bellezza di già v. s. ha veduto ciò che ella sia con gli occhi propri.
Il signor don Pietro figlio di v. s. mai le ha parlato; ben è vero che di quando in quando viene a farli serenate che ella mai ascolta;
molti signori titolati sono venuti in questa osteria ad albergare non per altro che per saziarsi di rimirarla e si sono trattenuti alcuni giorni più che non comportavano li loro negozi; però io so che nissuno si potrà vantare che ella lor abbia dato commodità di dirle una parola sola.
Questa è, signor mio, la vera istoria della fantesca nobile che non lava piatti, nel racconto della quale un sol puntino non sono uscito fuori della verità.
Tacque l'oste ed il governatore stette bona pezza senza darli risposta, di modo rimase stupido di sì stravagante successo.
Alla fine disse li portasse il pezzo di pergamino et la collanna, bramando in estremo di vederla;
il che fece l'oste puntualmente, dalla qual cosa venne il governatore in cognizione dover essere quella signora di gran portata, essendo la collanna a pezzi di lavoro stupendo; nel pergamino erano scritte della forma che aveva detto l'oste le seguenti lettere: Q E T E L E O E H L, delle quali vidde esser necessario, per intendere il senso, la metà dell'altro pergamino;
et pensando di levare Costanza di quel luogo per allora si contentò di portare seco quel pezzo di pergamino, fino a tanto che avesse proveduto di monastero onde riporla che fosse a suo gusto, ordinando, anzi commandando, all'oste che, se alcuno in questo mentre venisse per la giovane, lo avisasse né li mostrasse per nissuna maniera la colanna.
Con questo si partì tanto admirato del racconto e del successo della fantesca nobile, quanto della incomparabile sua bellezza.
Tutto il tempo che stette l'oste con il governatore, e tutto quello che vi stette Costanza quando fu chiamata, stette Tomaso fuori di sé stesso, combattendoli l'anima molti e diversi pensieri, però quando vidde che si partiva il governatore e che si rimaneva Costanza, ripigliando lena, ritornò li smarriti spiriti nel corpo.
Non volle chiedere al padrone ciò che nella sala fosse passato ned egli lo disse a persona alcuna, fuorché alla moglie, la quale similmente ritornò in sé stessa per il felice successo.
Il giorno seguente, circa il mezzo, entrarono nell'osteria accompagnati da quattro uomini a cavallo due cavalieri vecchi di venerabile presenza, avendo prima richiesto uno delli due garzoni da serviggio che seco avevano se quella era l'osteria del sivigliano e, rispondendo che sì,
smontarono li quattro, servendo alli due in tener loro le staffe e le cavalcature, affine che similmente smontassero: chiarissimo segno ch'erano li due signori e padroni degli altri.
Uscì Constanza con la solita gentilezza a vedere li nuovi forastieri ed apena uno de' due l'ebbe veduta che rivoltosi all'altro li disse:
Sig. don Giovanni, credo che ciò ch'abbiamo cercato appunto in questa osteria ritrovato l'abbiamo.
Corse Tomaso per dare ricapito alle cavalcature e riconobbe due servi di sua casa ed indi suo padre con il padre di Cariazo similmente ch'erano li due vecchi a' quali servivano gli altri. Rimase a questa vista stupido Avendagno e pensò che ambidue di compagnia venissero a cercare lui ed il compagno, assicurandosi che non sarebbe mancato chi avesse loro raportato non in Fiandra ma sì bene alle pesche de' tonni essere andati; né parendoli bene scoprirsi di quella maniera al padre ed agli altri, postosi una mano al volto e passando fra di loro, caminò da Costanza, affine di parlarle, e la buona sorte volse che la rittrovasse sola, di modo che, dubitando non fuggisse o li vietasse il parlarle, con lingua balbutente e con molta fretta le disse:
Costanza, uno delli due cavalieri vecchi di nuovo venuti è mio padre ed è quello che sentirai chiamare don Giovanni di Avendagno; informati da' suoi servitori se è vero ch'egli abbia un figlio chiamato Tomaso di Avendagno, che son quell'io. Assicurata di questo vedrai che non ti ho detto il falso circa la qualità della mia persona e che ti manterrò quello tutto che ti ho promesso; intanto rimanti con Dio, poiché fino non saranno partiti penso absentarmi da questa casa.
Non li diede alcuna risposta Costanza, ned egli aspettò che gliela dasse, ma postosi come aveva fatto prima le mani al volto uscì dall'albergo ed andò in fretta da Cariazo a darli conto della venuta de' loro padri.
L'oste intanto incominciò a chiamare Tomaso per dar la biada ma, non vedendolo comparire, si risolse di darla lui stesso.
Richiese a parte in questo mentre uno delli due cavalieri una delle galleghe come si addimandasse la giovane poco fa da loro veduta e se era figlia dell'oste.
Al quale ella rispose:
Per nome si addimanda Costanza ned è figlia o parente del padrone o della padrona, né so chi ella sia; solo dico che la do al morbo che la prenda, non sapendo che cosa abbia in sé, poiché per sua cagione non può alcuna delle garzone di questa casa far trionfino;
e pur siamo intiere come Dio ci fece ned abbiamo cosa alcuna di rotto; non entra forastiero che subito non dica: "Chi è questa fanciulla?", "per certo ch'ella è molto garbata", "come comparisce bene", "affé, che non è mala", "venghi il cancaro se ve ne sono di più belle", "mai peggio me le mostri la fortuna",
e noi non troviamo un cane che ci dica: "Che fate, o donne, o diavoli", come più li piacesse.
E come? Sta questa fanciulla a sentire queste cose? replicò il cavaliere Deve lasciarsi tramenare e parlare amorosamente da forastieri?
Sì rispose la Gallega, avete ritrovata la buona; metteteli il piede avanti; per vita mia, signore, che, se ella si lasciasse mirare, farebbe un capo d'oro; è più aspera di un riccio spinoso; è una mangia avemarie; tutto il giorno sta facendo orazione e lavorando;
e tanto mi durasse un reale da quattro in borsa com'ella starà a far miracoli; benché la padrona dica ch'ella porta un silenzio sopra le carni, che le tocca mio padre, per non dir altro.
Il cavaliere, contentissimo di quanto aveva sentito dalla Gallega, licenziatala, senz'aspettare li levassero li sproni, chiamò l'oste e, ritiratosi a parte, li disse:
Amico mio, vengo per riscuotere un pegno che presso di voi molti anni avete e per ciò fare ho portato mille scudi per darvi con questi sei anelli di collana e questo pezzo di pergamino.
L'oste, sentendo questo, riconosciuto il segnale e della catena e del pergamino, ma molto più allegro per li mille scudi, li rispose:
Signore, il pegno che dite è in questa casa ma la collana ed il resto del pergamino già non vi è; sì che portate per un poco pazienza, che adesso adesso ritorno con il ricapito.
Ciò detto si partì ed andò dal governatore, dandoli aviso di quanto passava,
il quale, con il desio di sapere il fine di quel successo, come che allora avesse finito di desinare, preso il pergamino, seco montò a cavallo, inviandosi verso l'osteria;
ed appena ebbe veduti li due cavalieri che, smontato da cavallo ed aperte le braccia, corse ad abbracciare uno di loro, dicendo:
Vagliami Dio, e che buona venuta è questa signor don Giovanni d'Avendagno, cugino mio e signore?
Senza dubbio, signor mio rispose il cavaliere che similmente aveva abbracciato lui, sarà buona questa mia venuta, poiché io veggo voi sano e salvo, che mill'anni in stato tale possa vedervi. Abbracciate prima questo cavaliere che è il signor don Diego di Cariazo mio singolar signore.
Ben conosco il signor don Diego soggiunse il governatore e li sono molto servitore.
Così, abbracciatisi ambidue e fatti quei complimenti che si convenivano, entrarono in compagnia dell'oste in sala, il quale seco aveva la collana; e disse in questa maniera:
Già sa il signor governatore, signor don Diego di Cariazo, la cagione della sua venuta in questa città; pertanto può cavare fuori il pergamino e li pezzi della collana, che il signor governatore farà lo stesso dell'altro pezzo, acciò facciamo la prova di quello ch'io tanto tempo sto aspettando.
Di questo modo rispose don Diego potrò risparmiare di raccontarlo, se di già per bocca dell'oste il signor governatore è fatto consapevole del fatto.
Al quale soggiunse il governatore:
Alcuna cosa mi ha detto ma molto mi resta da sapere.
Così, cavato fuori don Diego il pezzo di pergamino, viddero ch'era scritto della maniera di quello dell'oste, però con altre lettere, le quali erano V S O I V R S G A E e messele insieme con l'altre dicevano: "Questo è il vero segnale".
Pareggiarono i pezzi della collana e viddero ch'erano li stessi,
onde il governatore disse:
Questo è fatto per adesso, resta ora il sapere, se è possibile, chi siano li genitori di questa bellissima fanciulla.
Io son il padre rispose don Diego, la madre è morta e basta sapere ch'ell'era una principalissima signora, alla quale io avrei potuto esser servitore;
e perché, come se li copre il nome, non se li copra la fama né s'incolpi quello ch'in lei pare manifesto errore e colpa conosciuta, dovete sapere che la madre di questa fanciulla, essendo rimasta vedova di un principal cavaliere, si ritirò fuori in villa, dove con ritiratezza ed onestà grandissima passava co' suoi servi e vassalli una vita riposata e quieta.
Ora volse la sorte ch'un giorno, andando io a caccia vicino dov'ella era, pensai di visitarla; era l'ora dopo il desinare del riposo, quando arrivai al suo palaggio (tale poteasi chiamare la sua gran casa) diedi in cura il mio cavallo al servitore e cominciai a montare le scale, pervenendo senza mai incontrarmi in alcuno fin alla stessa camera dond'ella stava dormendo.
Era in estremo bella, di modo che il silenzio, la solitudine e l'occasione destarono in me un desio molto più ardito che onesto; e senza pensare altro serrai l'uscio della camera ed abbracciatala strettamente, dopo d'averla destata, le dissi:
"Signora mia, non gridate, perché quante saranno le voci che darete, saranno tante trombe rivelatrici del vostro disonore; nissuno m'ha veduto entrare, poiché la sorte, acciò mi sia felice in godervi, ha fatto tutti i vostri di casa addormentare; e quando che pure venissero li vostri servitori altro non potran fare che levarmi la vita nelle vostre braccia, non restando però per la mia morte d'andare in bocca delle genti il vostro onore".
Finalmente io la godei contro sua voglia ed a pura mia forza; ella stanca, perditrice e turbata, o non volle o non puoté dirmi parola ed io, lasciatala come stupida e sospesa, per la stessa strada ch'io era venuto ritornai e pervenni lontano due leghe dalla sua villa a casa d'un altro mio grande amico.
Lei, partitasi da quella villa, forsi che le fosse fatta odiosa per il ricevuto oltraggio, andò in un'altra e, senza che più la vedessi o che procurassi di vederla, passarono due anni, in capo de' quali intesi ch'ella era morta; ed avranno venti giorni che, con grande instanza, dicendomi che vi andava e la riputazione e l'onor mio insieme, mi mandò a chiamare un suo maggiordomo di casa.
Andai, molto lontano dal pensare quello che mi disse, e lo rittrovai in punto di morte, dove per abbreviare e risparmiare parole mi raccontò quanto con la signora mi era accaduto; com'ella era rimasta gravida per nascondere il ventre aveva fatto voto di andare in peregrinaggio a Santa Maria di Guadalupe; che dietro la strada sovrapresa del parto partorì in questa casa una fanciulla, qual dovevasi chiamare Costanza;
mi diede li contrasegni che furono li pezzi di collana ed il pergamino che avete veduto e diedemi ancora trentamilla scudi d'oro che la sua signora li lasciò perché si maritasse questa sua figlia;
e scusandosi che se prima di allora non mi aveva avvisato, come imposto gliel'aveva la signora subito morta, da altro non era proceduto che per approfittarsi di quella somma de dinari ma che allora, essendo in punto di andare davanti a Dio a rendere conto del bene e del male, mi consignava il tutto, rivelandomi donde avrei ritrovato mia figlia.
Presi li dinari e li contrasegni, poi facendo noto il tutto al sig. don Giovanni di Avendagno si mettessimo di compagnia in viaggio per venire a questa città.
Fin qui era pervenuto nel dire don Diego quando in istrada si sentì una voce che diceva:
Avisate Pier Tomaso, il famiglio che dà la biada nell'osteria, come li birri menano prigione l'Asturiano suo amico, pertanto che vadi alla prigione.
Alla voce di prigione e di birri disse il governatore che alla sua presenza menassero il preso;
il che fu fatto.
Era l'Asturiano strettamente legato, con il volto tutto pieno di sangue; ed apena fu entrato in sala quando che conobbe suo padre e quello d'Avendagno,
per lo che, fuor di modo turbato, con un panno, come che si nettasse il sangue, si coperse il viso per non essere conosciuto.
Addimandò il governatore che cosa avesse fatto quel garzone che sì maltrattato lo conducevano;
ed il bargello rispose ch'egli era un acquatore chiamato l'Asturiano, al quale li fanciulli, andando per la città, addimandavano la coda; e li raccontò anco con brevi parole tutto il successo dell'asino, del che non poco si risero que' signori.
Disse di più che passando per il ponte di Alcantara, importunandolo molto li fanciulli con la coda, era smontato dall'asino e che, postosi fra loro, con le bastonate ne aveva quasi amazzato uno ed aveva fatto resistenza mentre lo avevano fatto prigione, e che per questo era sì maltrattato.
Commandò il governatore che si scoprisse il volto ma, negando egli di farlo, uno de' birri se li avicinò ed a forza li levò il panno, di modo che subito fu riconosciuto da suo padre, il quale tutto alterato li disse:
Figliuol don Diego? Come stai di questa maniera acconcio? Che abito è questo? Ancora non ti sono uscite di capo le tue guidonerie?
Don Diego allora, inginocchiatosi davanti al padre, che con le lagrime agl'occhi l'abbracciò, stette senza dir parola per un gran spazio di tempo;
ma don Giovanni, come quello che seco aveva mandato di compagnia don Tomaso suo figlio, li addimandò che ne fosse. Al quale rispose che il famiglio della biada in quell'osteria era suo figlio.
Con questo che disse Cariazo maggiormente si maravigliarono li ascoltanti e così commandò il governatore all'oste facesse venire il famiglio dalla biada.
Addimandò don Diego a suo figlio qual si fosse la causa di quelle trasformazioni e che cosa li aveva mossi l'uno a farsi acquatore e l'altro famiglio in un'osteria.
Al quale rispose Cariazo che non poteva sodisfarlo allora, ma che da solo lo avrebbe d'ogni cosa ragguagliato.
Era Pier Tomaso nascosto nella sua camera, dove senza essere veduto stava osservando ciò che facesse don Diego con suo figlio.
Tenevalo molto sospeso la venuta del governatore e la confusione di tutta la casa;
ma, avisato l'oste dond'egli era nascosto, lo fece uscire fuori e venire a basso più per forza che per amore; né anco vi sarebbe venuto, se lo stesso governatore uscendo nel cortile non lo avesse domandato per nome dicendoli:
Venite a basso, signor parente, che qui non sono orsi o leoni che lo stiano aspettando.
Venne a basso e con occhi modesti andò da suo padre, davanti il quale inginocchiatosi l'abbracciò teneramente, ricevendo quel contento che il padre del figlio prodigo quando lo ricuperò di perduto ch'egli era.
Era intanto venuto un cocchio del governatore per rimenarlo a casa, non permettendo il cavalcare il soverchio caldo;
e così, fatto chiamare Costanza, la prese per la mano e la presentò a suo padre dicendo:
Prendete, signor don Diego, questa gioia ed estimatola molto, poiché è la maggiore che forsi sapeste desiderare; e voi, bellissima donzella, bacciate le mani a vostro padre e rendete grazie al cielo che con tanto onorato successo ha emendata, innalzata e migliorata la bassezza del vostro stato.
Costanza che, ignorante di quanto era seguito, non sapeva che farsi, tremando si inginocchiò davanti suo padre e prendendoli le mani incominciò a bacciarle, bagnandole di abbondantissime lagrime che da' suoi begli occhi spargeva.
Mentre questo passava aveva il governatore persuaso a don Giovanni che tutti venissero alla sua casa, il che ricusando lui di fare, furno tante le preghiere che furno sforzati fare a sua voglia;
ma dicendo similmente a Costanza che entrasse nel cocchio se le serrò di modo il core che, abbracciatasi con la padrona, incominciarono a fare il maggior pianto del mondo, dimodoché posero compassione a tutti.
Diceva la padrona:
Come è questo, figlia del cor mio, che ti vai e mi lasci? Come hai animo di lasciare questa madre che con tanto amore ti ha allevata?
Piangeva la giovane e le rispondeva con non meno compassionevoli parole;
però il governatore commandò che similmente entrasse l'ostiera nel cocchio, perché non si allontanasse da sua figlia (tenevala per tale) finché ella non si partisse da Toleto.
Di questa maniera andarono alla casa del governatore dove furono ben ricevuti da sua moglie ch'era una signora molto principale.
Mangiarono sontuosamente e furono regalati in estremo. Raccontò poi Cariazo a suo padre come don Tomaso per amore di Costanza si era posto a fare il famiglio in quell'osteria, e che, se bene non si fosse scoperta per figlia di signore sì grande, ad ogni modo la voleva in moglie, così nello stato di fantesca com'ella era.
Fu vestita Costanza dalla moglie del governatore con alcune vesti d'una figlia della stessa età ch'ella aveva; e sì come vestita vilmente pareva tanto bella, vestita con i panni signorili pareva cosa celeste, quadrandole tanto bene che ben dava ad intendere dall'ora ch'ella nacque esser nata signora e non altrimenti.
Però fra tanta allegrezza non mancò chi non sentisse il contrario; e questo fu don Perichito figlio del governatore, il quale si imaginò, vedendo queste cose, che Costanza non sarebbe più sua; e fu il vero, perché fra suo padre, don Diego di Cariazo e don Giovanni d'Avendagno si concertò il matrimonio in don Tomaso, dandoli don Diego li trentamilla scudi in dote, ed all'onorato acquatore don Cariazo diede il governatore una sua figlia, dandone per lo contrario un'altra don Giovanni a don Pietro, offerendosi lui d'avere la dispensa per il parentato.
Di questa maniera restarono tutti allegri, contenti e sodisfatti, spargendosi in un subito per tutta la città la nuova di questi matrimoni e dell'avventuroso successo della fantesca nobile, concorrendo molta gente a vedere Costanza nel nuovo abito, nel quale si mostrava tanto signora quanto abbiam detto.
Viddero il famiglio che dava la biada trasformato in don Tomaso d'Avendagno e vestito da gentiluomo. Notarono che l'Asturiano, mutato l'abito e lasciato l'asino, pareva un gran signore, non mancando però anco chi, in mezzo a tante feste, andando per la città alle volte non li addimandasse la coda.
Un mese stettero in Toleto in fine del quale si partirono per Burgos don Diego con sua moglie, don Tomaso con Costanza, li due padri ed il figlio del governatore il quale volle andare per vedere la sua parente e sposa.
Rimase il sivigliano ricco con li milla scudi e con le molte gioie che Costanza diede alla sua padrona, che la chiamò sempre tale;
diede occasione l'istoria della fantesca nobile a' poeti del dorato Tago di essercitare le penne, affine di lodare la senza pari bellezza di Costanza, la quale ancora vive in compagnia del suo buon famiglio da stalla;
e Cariazo né più né meno con la figlia del governatore, avendo tre figli che, senza prendere lo stile del padre o pensare che vi siano almadrave nel mondo, stanno studiando in Salamanca;
e suo padre appena vede un asino da acquatore che li viene a memoria quello che giuocò in Toleto e teme che, quando meno se lo pensa, debbia rimanere in favola quello: "Dammi la coda, Asturiano, Asturiano, dammi la coda".