Il licenziato Vidriera (F)


IL LICENZIATO VIDRIERA
   Novella quinta

Argomento

Tomaso Rodazza, di studiante divenuto soldato, scorre buona parte dell'Europa. Alla fine, condottosi a Salamanca, da una cortigiana di lui innamorata attossicato sta per morire. È curato da medici per mezzo de' quali, racquistando la sanità del corpo, perde poi quella dell'intelletto, per che, dato in una solenne pazzia, è materia di riso a tutta Spagna.

Dietro la riviera di Tormes passeggiando due cavalieri studianti rittrovarono un fanciullo sotto un arbore dormendo, di età d'anni undici incirca, vestito come contadino. Comandarono ad un servo che lo destasse e ciò fece egli, richiedendoli poi essi di donde era e come si stava, dormendo in quella solitudine. Rispose che il nome della patria se lo avea smenticato e che andava a Salamanca a ritrovare un padrone da servire, perché lo facesse studiare. Li addimandarono se sapeva leggere; ed egli rispose che anco scrivere.

—Di questa maniera dunque —disse l'uno de' cavalieri— non procede per mancamento di memoria l'averti smenticato la patria.

—Sia per quello che si voglia —rispose il fanciullo—, che né il nome della patria né quello de' miei parenti è per sapersi da alcuno prima che io non possa onorarli ambidue.

—E di che sorte pensi tu onorarli? —richiese l'altro cavaliere.

—Con li studi —soggiunse il fanciullo—, facendomi con quelli famoso, poiché ho sentito dire che degli uomini si fanno li vescovi.

Questa risposta mosse li due cavalieri a riceverlo ed a condurlo come fecero, dandoli commodità di studiare nella maniera che in quella università fanno tutti quelli che servono.

Disse il fanciullo che si chiamava Tomaso Rodazza, dal che vennero in cognizione li due cavalieri che fosse figlio di qualche povero contadino.

Fra pochi giorni lo vestirono di nero, dando segno Tomaso nel poco tempo che cominciò a pratticare ne' studi di avere un raro ed eccellente ingegno, servendo li suoi padroni con tanta puntualità, fedeltà e diligenza che in loro solo pareva aver tutto l'intento e non in altro. Et come che la bontà del servo move il signore a ben trattarlo, così Tomaso non più era servo ma compagno de' suoi padroni. Finalmente in otto anni che con essi dimorò si fece tanto famoso nell'università, per l'ingegno e per l'abilità grande ne' studi, che da ogni sorte di gente era amato e riverito. Il suo principale intento era nelle leggi, però quello che maggiormente professava era delle lettere umane, nelle quali era così felice nella memoria, e perfetto nell'intelligenza, che era una maraviglia. Ora, avendo li suoi padroni dato fine a' loro studi, ritornarono alla patria, ch'era una città principale dell'Andalogia, e vi menarono Tomaso che con loro rimase alcuni giorni; però come che molto lo travagliasse il desio di ritornare a Salamanca, città che va maliando le voglie di andarvi a quelli che di già hanno gustato della piacevolezza sua, chiese licenza a' suoi padroni, li quali come cortesi e liberali gliela concessero, rimunerandolo di maniera che con quello che gli diedero potea sostentarsi tre anni. Tolse comiato da essi ringraziandoli delle molte loro cortesie ed uscì di Malaga, che questa era la patria de' suoi signori. Nel scendere la costa della Zambra, viaggio di Anteguera, si abbatté in un gentiluomo a cavallo bizarramente vestito, accompagnato da due servi similmente a cavallo; ed intendendo che faceva lo stesso camino se li fece compagno, dimostrando in poco di discorso Tomaso quale fosse il suo mirabile ingegno e per lo contrario il cavaliere la sua bizzaria ed il suo termine da cortigiano, dicendoli che era capitano di infanteria per sua maestà e che l'alfiere stava facendo la compagnia nel territorio di Salamanca. Lodò la vita del soldato. Li dipinse molto al vivo la bellezza della città di Napoli, le ricreazioni di Palermo, l'abbondanza di Milano, i festini di Lombardia, le splendide tavole dell'osterie. Li disegnò puntualmente quello acconcia, padrone, vieni qua, manigoldo, porta la minestra, li polastri e li macheroni. Pose in cielo la vita del soldato e la libertà d'Italia; però non li disse alcuna cosa del freddo delle sentinelle, del pericolo degli assalti, dello spavento delle battaglie, della fame delli assedi, della rovina delle mine e d'altre simili cose che alcuni tengono per giunta e peso della vita soldatesca e non si accorgono esser questo il carico principale di quella. Insomma tante cose e tanto bene li disse che la prudenza del nostro Tomaso cominciò a titubare e la voglia ad affezionarsi a quella vita che tanto vicina tiene la morte. Il capitano, che don Diego di Valdivia si chiamava, appagato della bella presenza ed ingegno di Tomaso li offerse se avesse voluto vedere l'Italia, la sua tavola e di più la bandiera, dovendola l'alfiere presto lasciare. Poco di bisogno fu il pregarlo perch'egli accettasse l'invito, facendo fra sé questo discorso: che sarebbe bene il vedere l'Italia, la Fiandra ed altri paesi, poiché le lunghe peregrinazioni fanno gli uomini accorti e prudenti, e che, spendendo in questa vita tre o quattro anni, non erano tanti che aggiunti alla poca età che allora aveva li impedissero punto li suoi studi; et come che il tutto li avesse da succedere conforme se lo avea dipinto, disse subito al capitano ch'era contento scendere in Italia però con condizione di non esser rollato, per non sottoporsi alla sua bandiera. Et benché il capitano dicesse che questo non importava, poiché sempre gli avrebbe dato licenza di partirsi quando che avesse voluto e che in questo mentre avrebbe goduto de' benefici del soldato, pure mai volle condescendervi Tomaso, dicendo che sarebbe un andare contro la sua conscienza e contro quella del capitano, che pertanto non voleva in nessuna maniera essere obligato.

—Conscienza tanto scrupolosa —disse don Diego— è più da religioso che da soldato ma sia quello che si voglia; già siamo compagni.

Pervennero quella notte ad Antiguera ed in pochi giorni arrivarono dov'era la compagnia già compita e che cominciava a marciare alla volta di Cartagena alloggiandosi ella con altre quattro per le terre e ville di mano in mano. Quivi notò Tomaso l'autorità delli commissari, l'incommodità d'alcuni capitani, la solicitudine delli albergatori, l'industria de' pagatori, le querele del popolo, il riscatto delle bolette, l'insolenzia de' soldati novi, le liti negli alloggiamenti, il chieder bagaglie più del bisogno e finalmente la necessità quasi precisa di far quello tutto che li pareva male. Erasi vestito Tomaso come un papagallo; e, rinnonciando gli abiti da studiante, erasi posto quelli de "io son soldato onorato, ciascuno mi rispetta", come suol dirsi. Li molti libri che avea ridusse in un solo offizio della madonna ed in un'opera di Garcilasso senza commento che nelle due saccocchie portava. Arrivarono più presto di quello che avrebbero voluto a Cartagena, perché la vita delli alloggiamenti è larga e varia ed ogni giorno s'incontrano cose nove e di gusto. S'imbarcarono poi in quattro galere di Napoli e quivi notò ancora Tomaso la strana vita di quelle maritime case, nelle quali il più del tempo maltrattano li cimici(1), rubbano li sforzati, vengono a noia li marinari, detengono li ratoni e fatigano le marete incitando il vomito. Li posero spavento le gran borrasche e pericoli che scorsero in mare, particolarmente nel golfo di Leone, che furno sbattuti da contraria fortuna in Corsica ed un'altra volta in Tolone di Francia. Alfine stanchi, bagnati e con gli occhi concavi per la incommodità del dormire furno alla vaga e bella città di Genova, dove, disimbarcati, dopo di aver visitato una chiesa, diede il capitano con tutti li suoi in un'osteria, nella quale posero in oblio tutte le borrasche passate con il presente gaudeamus. Allora conobbero la soavità del Trebiano, il valor di Montefiascone, la bontà dell'Asprino, la generosità delli due grechi da Candia e da Soma, la grandezza di quello delle Cinque Vigne, la dolcezza e piacevolezza della signora Vernaccia, la rusticità della Centola, non comparendo fra questi signori onorati vini la bassezza del Romanesco. Et avendo fatto l'oste la rassegna di tanti e sì diversi vini si offerse di far comparire, senza usar mariolerie od inganni, né come dipinti ma veramente reali, Moscatello, Malvagia e tanti altri che fu uno stupore. Finalmente più vini nominò e più li ne diede di quelli che darli avrebbe potuto lo stesso Bacco nelle sue cantine. Fecero ancora stupire il nostro Tomaso li capelli rossi delle genovese(2), la gentilezza e gagliarda disposizione delli uomini, la bellezza della città che fra quelle rupi e monti pare che le case siano legate come diamanti in oro. Il seguente giorno si disimbarcarono tutte le compagnie che dovevano andare in Piemonte, però non volse far Tomaso questo viaggio dicendo voler andare a Roma e poi a Napoli, come fece, non si curando per allora di vedere Venezia, Milano, Loreto ed il Piemonte, dove disse don Diego che al ritorno lo avrebbe trovato, se a caso non lo avessero mandato in Fiandra, come si imaginava. Si dispedì dal capitano d'indi a due giorni ed in cinque si fece a Fiorenza, avendo prima veduto Lucca, città picciola però molto benfatta, nella quale meglio che in altra parte dell'Italia sono veduti li spagnuoli. Lo accontentò in estremo la bellezza di Fiorenza, sì per lo suo mirabile sito, quanto per la nettezza e bellezza degli edifici, fresco fiume e piacevoli contrade; stette in essa quattro giorni e subito si partì per Roma, regina delle città e signora del mondo. Visitò le sue chiese, adorò le sue reliquie ed ammirò la sua grandezza; et sì come per l'unghie del leone si viene in cognizione della sua ferocità, così egli dalli rotti marmi, dalle mezze statue, da spezzati archi, da cadute terme, da li suoi magnifici portici, anfiteatri grandi, per il famoso Tebro, che sempre ha ripieni li margini d'acqua e li beatifica con le tante reliquie de' santi martiri che nell'onde ebbero sepoltura, per li ponti tanto stupendi, per le strade tanto nominate, quanto sono la Appia, la Flaminia, la Giulia e simili, con li colli che tanto la rendono magnifica, Celio, Quirinale e Vaticano con gl'altri, conobbe nessuna potersi uguagliare a questa. Notò l'autorità del collegio de' cardinali, la maestà del sommo pontefice, il concorso delle genti e delle nazioni; insomma, stupido, doppo d'aver visitate le sette chiese, confessatosi e bacciato il piede a sua santità, tutto ripieno di agnusdei e di avemarie determinò di andarsi a Napoli. Con questo proposito imbarcatosi ad Ostia in breve vi arrivò, non meno avendo occasione di maravigliarsi di quello che avea fatto di Roma, essendo Napoli, al suo parere e di tutti quelli che l'han veduta, la miglior città dell'Europa, anzi del mondo tutto. D'indi si partì per Sicilia; vide Palermo e Messina; di Palermo li parve bellissimo il sito, di Messina il porto e di tutta l'isola l'abbondanza, per il che venne in cognizione che con gran ragione era detta il granaio d'Italia. Ritornò a Napoli, a Roma e d'indi alla santissima casa di Loreto, nella cui mirabile chiesa non vide muro di sorte alcuna, essendo il tutto coperto di grocciole, di spoglie, di catene, di ceppi, di teste, d'imagini di cera e di tavole dipinte che davano manifesto indizio delle molte grazie che nostro signore faceva giornalmente a' devoti, per li prieghi della sua santissima madre, volendo aggrandire l'imagine di lei con tanti miracoli. Vide la stessa camera dove si fece la maggior ambasciata, e di più importanza, che mai intendessero li cieli e li angeli stessi. Da Loreto imbarcatosi in Ancona si fece a Venezia, città che, se non fosse nato Colone nel mondo nuovo, non avrebbe somigliante in terra. Mercede al gran Cortese che in acquistando Mesico ritrovò che comparare a Venezia. Queste due città sono somiglianti nelle strade di acqua: questa di Europa admirazione del mondo antico, quella di America spavento del mondo nuovo. Parveli la sua ricchezza infinita, il governo prudente, il sito inespugnabile, l'abbondanza molta, li suoi contorni allegri e finalmente ella in sé stessa ed in tutte le sue parti degna della fama che del suo valore per tutte le parti del mondo si estende, dando materia di accreditare maggiormente questa verità la stupenda machina del suo mirabile arsenale, dove si fabricano le galere. Tanti furno li regali che il nostro Tomaso ebbe in questa città che quasi li fecero smenticare il suo primo proposito; però essendovi dimorato un mese, per Ferrara, Parma e Piacenza venne a Milano, officina di Vulcano, meta alla quale sono indrizzati li desiri de' francesi, cittade insomma della quale può dirsi tutto quello che d'una maraviglia dell'universo, facendola magnifica la grandezza sua, il maraviglioso e non mai a bastanza lodato suo tempio e la grandissima abbondanza di tutte quelle cose che sono necessarie alla vita umana e che mente cupida già mai imaginar si possa. Di Milano andò in Asti e vi fu in tempo, che il seguente giorno marciava il terzo in Fiandra. Fu ben ricevuto dal suo capitano ed in sua compagnia proseguì il camino fino in Anversa, città degna non meno di maraviglia di quelle dell'Italia. Vide Gante, Brusseles ed altre molte, essendo tutto il paese intento a prender l'armi per uscire in campagna la seguente primavera. Di questo modo, avendo veduto quanto il desio l'avea spinto a vedere, fece determinazione di ritornare in Spagna a Salamanca, a dar fine a' suoi già incominciati studi; e così pensato lo pose ad effetto, con molto dispiacere del suo capitano che quando fu il tempo del partirsi lo pregò lo avisasse del suo felice arrivo e buon successo, promettendo Tomaso di fare il tutto. Per Francia passò in Ispagna senz'aver veduto Parigi, che allora era tutto in armi. Infine pervenne a Salamanca, dove fu raccolto da' suoi amici e con quella commodità che li diedero proseguì li suoi già incominciati studi, fino a graduarsi di licenziato in lege. Or accadé che in questo tempo venne nella stessa città una cortigiana scaltrita di tutta perfezione. Corsero subito all'esca ed al zimbello tutti li passeri del luogo, senza che pur vi restasse un minimo pedante che non la visitasse. Fu detto a Tomaso che quella cortigiana era stata in Italia ed in Fiandra; e per vedere se la conosceva andò a vederla, della cui visita e vista rimase ella innamorata, non volendo però il licenziato se non era per forza o portatovi da altri entrare in quella casa, come quello che attendeva più tosto alle lettere che ad altro. Ella questo vedendo li scoperse l'animo suo e li offerse, perché li fosse amante, quanto avea; né mai acconsentendo Tomaso, fece sì che la signora, veggendosi rifiutata ed a suo parere abborrita, e che per mezzi ordinari non poteva sforzare o violentare il suo fermo proposito, procurò altri mezzi più opportuni e più efficaci per venire al fine de' suoi desiri. Così consigliatasi con una mora strega diede a mangiar al misero giovane un cotogno maleficiato, credendo di darli cosa che li sforzasse la volontà ad amarla, come che nel mondo sia erba, incanto o parola bastante a sforzare il libero arbitrio; però questi che danno a mangiare o bevere queste bevande amatorie sono detti venefici, non essendo altro quello che danno che veneno, come lo dimostra l'esperienza in diverse cose. Mangiò in mal punto Tomaso il cotogno, che in un momento, tirando de piedi e di mano, facendo mille storcimenti, come che avesse il mal caduco, si lasciò cadere in terra e senza punto moversi stette così buona pezza; infine ritornò in sé come stordito e con lingua turbata e balbutente disse che un cotogno che avea mangiato l'aveva acconcio di quella maniera, dichiarando chi dato gliel'avea. La giustizia, avuto notizia del caso, andò in busca della malfattrice ma ella, che di già avea inteso il mal successo, s'era posta in sicuro né(3) comparve già mai. Sei mesi stette Tomaso nel letto, nel qual tempo divenne, come si dice, tutto pelle ed osso, mostrando d'aver offuscato l'intelletto; e benché li facessero tutti li rimedi possibili pure li sanarono l'infermità del corpo ma non quella dell'animo, perché rimase sano e pazzo della più strana pazzia che fra tutte le pazzie fino adesso si abbia sentito nominare. Imaginavasi lo sventurato di esser tutto fatto di vetro e con questa imaginazione quando alcuno andava a lui dava terribilissime voci, pregando e supplicando con parole e ragioni di senso che non se li appressassero, perché lo romperebbero, non essendo egli vero e reale come gl'altri uomini ma che tutto era fatto di vetro dalla testa a' piedi. Per levarlo di questa pazzia molti se gli appressarono né guardando alle sue parole lo abbracciavano e stringevano, dicendoli ch'egli avertisse e guardasse che non si rompeva; ma quello che con lui si guadagnava era che il misero si gettava per terra, dando mille gridi, e poi li veniva uno svenimento, del quale non ritornava in sé stesso se non doppo tre o quattro ore, ritornando di nuovo a pregare ed a supplicare che non li si appressassero e non li dessero molestia. Diceva che li parlassero di lontano e li chiedessero quanto bramavano, che per esser uomo di vetro li avrebbe dato risposta con maggior intelligenza, che, essendo il vetro materia sottile e non grave e pesata come la carne, operava l'anima più facilmente e con maggior efficacia. Vollero alcuni esperimentare se era vero quanto diceva e così li fecero molte e difficili dimande alle quali rispose con grandissima accutezza d'ingegno; cosa che causò grande admirazione a' più letterati(4) dell'università e spezialmente a' professori di medicina e filosofia, vedendo che in un soggetto donde si chiudeva così espressa pazzia si nascondesse tanto ingegno e tanta intelligenza. Richiese Tomaso che li dessero alcun fondo nel quale rinchiudere potesse quel suo corpo così facile a spezzarsi, dubitando che nel vestirsi qualche panno stretto non si rompesse; e così li diedero una veste bigia ed una camicia larga, le quali vestì con molta paura cingendosi poi con una corda fatta di bambagio. Non volse per nessuna maniera esser calciato; ed il modo che egli tenneva perché li dessero da mangiare era che li mettevano in una cassa da orinale appesa ad una bacchetta delle frutta conforme la stagione, non volendo mangiare carne, o pesce, né bevendo se non in fontana, o in fiume, e con le mani. Quando andava per le strade sempre caminava nel mezzo dubitando che li cadessero tegole adosso che lo rompessero. L'estate dormiva in campagna, a cielo aperto, e l'inverno si metteva in un'osteria e dentro il pagliaio sepelivasi fino alla gola dicendo quello essere il più sicuro letto che aver potesse un uomo di vetro. Quando tonava il cielo tremava come l'argento vivo non uscendo fuori finché cessata non fosse la tempesta. Lo riserrarono li suoi amici, affine di farli beneficio, ma veggendo che il tutto era indarno lo lasciarono libero come egli chiedeva, facendo compassione a tutti quelli che lo conoscevano. Li fanciulli se li cerchiarono attorno, però egli con la bacchetta facevali star lontano, dicendoli che li chiedessero quanto volevano ma che non li si appressassero, che per essere omo di vetro era facile il rompersi, e non lo stimando essi a dispetto delle sue preghiere li tiravano delle imondizie ed anco delle pietre affine di vedere se era di vetro come diceva, dando egli tante voci che moveva a compassione li uomini dimodoché castigavano li fanciulli e li facevano desistere dall'insolenze. Un giorno fra gli altri che più lo importunavano, li disse:

—Che volete da me, figliuoli, ostinati come mosche, sucidi come cimici e sfacciati come pulici? Sono io forsi il monte Testaccio di Roma che mi tirate tante immondizie e tanti sassi?

Da questa sua rabbia ne nacque che li fanciulli lasciarono il tirarli, godendo molto più di sentirlo parlare che d'altro, non cessando però sempre di seguirlo in torma. Passando poi una volta per la strada dove si vendono li vestiti adoperati una donna in una bottega li disse:

—Signor licenziato, affé che mi pesa insino all'anima della vostra disgrazia; ma che devo fare, poiché non posso piangere?

Alla quale gli si volse e molto pesatamente le rispose:

Filiae Hierusalem, plorate super vos et super filios vestros.

Intese il marito della donna l'arguzia del detto e rivolto a Tomaso li disse:

—Per certo, fratel mio di vetro, che tu hai più del vigliacco che del pazzo.

—Questo non m'importa —soggiunse il licenziato—, pure che io non abbia del goffo.

Un giorno, passando davanti la casa commune, o bordello che dir vogliamo, vidde molte di quelle abitatrici starsi su la porta; disse:

—Queste sono bagaglie del diavolo che si alloggiano nell'osteria dell'inferno.

Richieseli uno che consiglio o consolazione darebbe ad uno amico suo, al quale era fuggito(5) la moglie, andandosi con altro. Rispose:

—Dilli che renda grazia a Dio che li abbia levato di casa il suo inimico.

—E non andrà egli a cercarla? —soggiunse il primo.

—No —rispose il licenziato—; né pur lo deve pensare, perché sarebbe il ritrovarla l'avere un perpetuo testimonio del suo disonore.

—Se questo adunque è come dici, che farò io —replicò il primo— per stare in pace con la mia?

Rispose:

—Dalli quello che le fa di bisogno, lascia ch'ella commanda a tutti della tua casa, ma però tu sia quello che commanda a lei.

Un fanciullo li disse:

—Signor licenziato, io mi voglio fuggir da mio padre, perché ogni giorno mi dà delle staffilate.

Ed egli rispose:

—Averti, figlio, che quelle del padre onorano e quelle del boia vituperano.

Stando alla porta d'una chiesa vidde che in essa entrava un contadino di quelli che in Ispagna sempre si vantano d'esser cristiani vecchi e dietro lui un altro tenuto in altra opinione; il licenziato allora cominciò a dar gran voci, dicendo:

—Aspetta, dominica, che passi il sabbato.

De' maestri da scuola diceva ch'erano avventurati, poiché sempre trattavano con angeli, ma che più avventurati sarebbero stati se li angeli non fossero stati fanciulli. Altro li addimandò che li pareva delle ruffiane ed egli rispose che non erano le lontane ma sì bene le vicine. La nova della sua pazzia, e delle pronte sue risposte, si sparse per tutta la Castiglia, onde pervenne all'orecchie d'un prencipe, gran signore nella corte, e però mandò ad un cavaliere suo amico che glielo inviasse. Così un giorno ritrovandolo il cavaliere in istrada li disse:

—Sappia il signor licenziato mio che un gran signore brama vederlo e però manda per lui.

Tomaso allora rispose:

—V. s. mi scusi con questo signore, dicendoli che io non sono buono per la corte, non sapendo adulare.

Con tutto questo però il cavaliere l'inviò alla corte con molta fatica e fu di mestieri servirsi per condurvelo di questa invenzione: lo posero in una cassa di quelle che conducono il vetro ripiena di paglia, dandoli ad intendere che quella diligenza si faceva affine che non si rompesse caricandolo con altra cassa ripiena di sassi per aggiustare il peso. Pervenne a Vagliadolid; entrò di notte e lo disimbalarono nella casa del signore che l'avea fatto venire, dal qual fu benveduto ed accarezzato; e dicendoli:

—Sia il molto benvenuto il signor licenziato; come ha caminato nel viaggio? Come sta di salute?

Rispose:

—Nissun viaggio è tristo come si compisce, fuor che quello che conduce alla forca; della salute poi son neutrale, perché s'incontrano li polsi con il cerebro.

Il giorno seguente vedendo sopra molte pertiche falconi, astori, sparvieri e diversi altri uccelli, disse che la caccia de' volatili era degna di prencipe e di gran signore, però che avertissero che con quella il gusto faceva censo sopra l'utile a più di duemilla per uno. La caccia delle lepri disse ch'era di molto gusto e più quando(6) si cacciava con cani imprestati. Prendeva il signore gran diletto in ascoltarlo e così lasciò ch'egli uscisse per la città sotto la cura d'un uomo(7) che lo difendesse dall'insolenze de' fanciulli, da' quali e da tutta la corte in meno di sei giorni fu conosciuto, dando risposta ad ogni passo e ad ogni persona. Uno studiante li addimandò se era poeta, poiché li pareva che avesse ingegno ad ogni cosa; et egli rispose:

—Infino adesso non sono stato tanto stolto né tanto avventurato.

—Non intendo questo stolto o avventurato —soggiunse lo studiante.

Ed il licenziato rispose:

—Io non sono stato tanto goffo che abbia dato in essere poeta da buon mercato né tanto avventurato che abbia meritato di essere perfetto.

Un altro li addimandò in che stima teneva li poeti ed egli rispose che in quanto alla scienza li stimava assai ma in quanto all'esser poeta niente. Replicarono perché diceva questo, rispose che dell'infinito numero che vi era de poeti erano tanto pochi li buoni che quasi non facevano numero e così come che non vi fossero poeti non li stimava; però ch'egli admirava e riveriva la scienza della poesia, riserrando in sé tutte l'altre scienze, poiché di tutte si serve, di tutte si adorna e polisce, mandando in luce le sue mirabili opere, con le quali si riempie il mondo di utile, di diletto e di maraviglia. Aggiunse di più:

—Io ben so quanto si deve stimare un buon poeta, perché mi ricordo di que' versi d'Ovidio che dicono:

Cum ducum fuerant olim regnumque poetae,

premiaque antiqui magna tulere chori,

sanctaque maiestas, et erat venerabile nomen

vatibus et large saepe dabantur opes.

Né meno mi scordo l'alta qualità delli poeti, poiché li chiama Platone interpreti delli dei e d'essi dice medesimamente Ovidio:

Est Deus in nobis agitante calescimus illo.

In un altro luogo:

At sacri vates, et ducum cura vocamus.

Questo si dice de' buoni poeti, perché di quelli da dozzina che si ha da dire, se non che siano la sciocchezza ed arroganza del mondo?

Disse di più:

—Bramate vedere un poeta di questi della prima impressione? Rimiratelo quando vuole recitare un sonetto ad un altro, che li dice: "V. s. mi faccia piacere d'ascoltare un sonettino, che questa notte a certa occasione ho fatto, che a mio parere, benché non vale cosa alcuna, pure ha un non so che di buono"; et in questo torce le labbia, inarca le ciglia, gratta le saccocchie e, fra altre mille carte onte e mezzo rotte che sono mille altri sonetazzi, ne cava quello che vuole raccontare e, con voce melliflua, alfine lo legge. Et se a caso quelli che l'ascoltano come prudenti o come ignoranti non lo lodano dice: "O che le signorie loro non hanno inteso il sonetto o ch'io non l'ho recitato conforme, però sarà bene ch'io lo replichi un'altra volta e che li sia prestato maggior attenzione, poiché invero, invero che il sonetto lo merita" e così torna di nuovo a dirlo con nuovi gesti e nuove pause. Che cosa è il vederli censurare l'uno l'altro? Che dirò di certi che quasi cani piccioli già mai fanno altro che latrare dietro li mastinazzi antichi e gravi? Et che di quelli che mormorando(8) d'alcuni illustri ed eccellenti poeti, ne' quali risplende la vera luce della poesia? Questi di lei servendosi per alleviamento nelle loro gravi occupazioni mostrano la divinità del loro ingegno e l'altezza de' loro concetti al dispetto del volgo ignorante che giudica quello che non sa ed abborrisce quello che non intende; e quello che dovrebbe estimarsi degno di star sotto li baldachini lo cacciano al basso, inalzando l'ignoranza fino al trono reale.

Un'altra volta li dimandarono donde procedeva che li poeti per la maggior parte erano poveri. Rispose che erano perché essi volevano, non volendo accommodarsi alle occasioni che se le offrivano ogni momento, poiché le loro donne erano ricchissime in estremo avendo li capelli d'oro, la fronte d'argento, gl'occhi di smeraldo, li denti d'avorio, le labbra di corallo e la gola di cristallo trasparente, aggiongendo che le lagrime che piovevano dagl'occhi erano liquidissime perle e tutto quello che calpestavano co' piedi, benché fosse terreno sterile, pure produceva gelsomini, rose ed altri fiori, ed il fiato che spiravano era ambra, muschio e zibetto, sì che da queste cose si poteva comprendere quale fosse la ricchezza de' poeti. Queste ed altre cose disse de' poeti ignoranti, poiché de' buoni sempre ne disse bene, innalzandoli sopra il corno della luna. Vidde un giorno in un chiostro nel convento di San Francesco alcune pitture di mala mano; e subito disse che li buoni pittori imitavano la naturalezza ma che li ignoranti la vomitavano. Appressossi un giorno, con grandissima paura di rompersi, alla bottega di un libraro e li disse:

—Quest'arte mi piacerebbe molto, se non fosse per un difetto che ha in sé.

Richieseli il libraro quale fosse questo diffetto; rispose:

—Le cerimonie e compimenti che fanno quando comprano un privilegio d'un libro e la burla che fanno all'autore nel venderlo, perché invece di stamparne mille e cinquecento ne stampano tremilla e, quando pensa l'autore si siano venduti li suoi libri, si sono venduti quelli stampati a conto del signor libraro.

Accadé che in questo stesso giorno per la piazza passavano sei che si frustavano; e, dicendo il banditore ad alta voce: "Il primo per ladro", cominciò a gridare Tomaso, dicendo:

—Ritiratevi, fratelli, che non si cominci da voi.

Un fanciullo li disse:

—Dimani, signor licenziato, frustano una ruffiana.

—Se fosse un ruffiano —rispose— avrei pensato che te ne sapesse male.

Ritrovossi a questo presente uno di quelli che portano a mano le seggiette e li disse:

—Signor licenziato, non avrete già che dire di noi?

—No —rispose Tomaso— se non che ciascuno di voi sa più peccati che il confessore; ma vi è questa differenza: che il confessore li sa per tenerli sotto segretezza, e voi li sapete per publicarli nelle taverne e nelle bettole.

Sentì ciò un vetturino, poiché d'ogni sorte di gente lo stavano ad ascoltare, e rivolto al licenziato li disse:

—E di noi, signor caraffa, o fiasco, non avete già che dire, essendo noi persone d'onore e tanto necessarie nella republica?

Egli subito li rispose:

—L'onore del padrone discopre quello del servitore; ed essendo questo la verità, guarda chi tu servi e poi vedrai quanto sei onorato. Sete gente voialtri della più pessima canaglia che sostenta la terra. Una volta, mi ricordo, prima ch'io fossi di vetro, cavalcai sopra una mula da vettura e vi annoverai sopra cento e ventiun diffetti e tutti capitali e nemici del genere umano. Tutti li vetturini puzzano qualche poco di ruffiano, hanno non so che di ladro e, che che sia, pizzicano un poco di buffone. Se i suoi padroni (così chiamano quelli che conducono con le loro cavalcature) sono scimuniti, fanno più conti sopra di loro che non fanno i banchieri ne' loro libri; se sono stranieri li rubbano; se studianti, li maledicono; se religiosi, li renegano e se soldati, poi, tremano. Li vetturini, li marinari, li carrettieri ed anco li mulattieri hanno un modo di vivere straordinario e differente da quello dell'altre persone, perché i carettieri passano il più della loro vita fra la bacchetta e 'l timone, la metà del tempo cantano e l'altra metà bestemmiano. Se a sorte hanno da cavare qualche ruota dal fango, più si aiutano di due maledizioni che di tre cavalli. Li marinari poi sono gente incivile che non hanno altro linguaggio di quello si usa ne' navigli; nella bonaccia sono diligenti e per lo contrario negligenti nella borrasca; non conoscono altro dio che la loro cassa né in altro pensano che ne' loro inganni; ed il vedere per la maretta vomitare le genti è il loro passatempo. Li mulattieri sono gente ch'hanno fatto divorzio con le lenzuola e si sono accasati con i basti. Sono tanto avidi del guadagno che prima che perdere una giornata perderebbero l'anima. La loro musica è quella del mortaio, la salsa la fame, li mattutini levarsi a dar la biada per tempo alle loro bestie e le messe il non sentirne mai.

Mentre diceva questo era davanti la bottega d'uno speciale, al quale rivoltosi li disse:

—Questo per certo è un buon mestiero, se non fosse che è tanto nemico della lucerna.

—In che modo —rispose lo speciale— è egli nemico della lucerna?

Ed il licenziato:

—Ciò dich'io perché, in mancando a compire un composito qualche olio, supplisce in sua vece quello della lucerna, come quella che vien più a mano d'ogn'altra cosa. Ma peggiore fa questo mestiere la possibilità di far perdere il credito al più sufficiente medico del mondo.

Et interrogato perché, rispose:

—Perché vi sono de' speciali che, in mancandoli alcuna cosa per compimento della ricetta del medico, affine di non decreditarsi notificando il loro bisogno, pongono nelle medicine semplici, od altro a loro parere della stessa virtù e qualità di quello che manca, di modo che la medicina mal ordinata operava poi il contrario dell'intenzione del medico.

Richieseli allora uno che che sentiva(9) de' medici; ed egli rispose:

Honora medicum propter necessitatem, etenim creavit eum altissimus; a Deo enim est omnis medela, et a rege accipiet donationem. Disciplina medici exaltavit caput illius et in conspectu magnatum collaudabitur. Altissimus de terra creavit medicinam, et vir prudens non aborrebit illam. Questo dice —disse— l'Ecclesiastico de' medici dotti, perché delli ignoranti si potrebbe dire tutto il contrario, non essendo nella republica gente più perniciosa di questa. Il giudice ben ci può torcere o dilatare la giustizia, l'avvocato per suo interesse sostentare l'ingiustizia, il mercante rubarci ne' contratti, e finalmente tutte le persone con le quali di necessità siamo sforzati trattare ci possono fare qualche danno ma che però ci possano levare la vita, senza essere sottoposte al timore del castigo, non è però vero; onde che solo i medici possono amazzarci e ci amazzano non con altra spada che con quella di un recipe. Ricordomi che allora, quand'io era uomo di carne e non di vetro com'ora sono, uno di questi medici della seconda classe lasciò un infermo, perché si curasse da un altro; ed abbattendosi a caso passare davanti la specieria, dove si componevano i medicamenti ordinati dal secondo medico, richiese allo speciale come si stava l'infermo da lui lasciato e se l'altro sottentrato in suo luogo li aveva ordinato qualche ricetta. E rispondendo lo speciale che sì, avendoli ordinato una ricetta per purgarsi il seguente giorno, disse il medico che gliela mostrasse; e vedendo che in fine d'essa diceva: Sumat diluculo, disse: "Quanto è in questa ricetta mi piace, fuor che questo diluculo, per esser soverchiamente umido".

Per queste cose che diceva il licenziato era seguito da un'infinità di persone che senza lasciarlo riposare di varie cose l'interrogavano. Et uno fra gl'altri li richiese che avrebbe potuto fare per non portare invidia ad alcuno. Rispose il licenziato:

—Dormi, perché tutto il tempo che dormirai sarai uguale all'invidiato.

Richieseli un altro che cosa doveva fare per uscire con un carico, quale erano da due anni che lo pretendeva; rispose:

—Ponti a cavallo, esci dalla città insieme con quello che viene proveduto di tal carico ed accompagnalo fuori, che così uscirai con un carico.

Passò a caso davanti a lui un giudice delegato in una causa criminale fuori della città, accompagnato da molta gente e da due birri; disse:

—Giuocherei che quel giudice porta serpi nel seno, pistolle nell'inchiostro e saette nelle mani, per rovinare quelli sopra' quali è delegato. Ricordomi a proposito di questo —seguì il licenziato— che un mio amico, delegato giudice in una causa criminale, diede una sentenza tanto essorbitante che di gran lunga eccedeva la colpa de' delinquenti; richieseli io perché ciò aveva fatto, conoscendosi tanto manifestamente da ognuno la sua ingiustizia. Rispose: "Acciò che questi tali si possano appellare e così lasciare campo aperto a' signori del consiglio di mostrare la loro misericordia, moderando la rigorosa mia sentenza". Al che replicai esser meglio aver data la sentenza giusta, levando li rei del travaglio dell'appellazione e facendosi per lo contrario tenere da tutti per uomo giusto e da bene.

Fra molti, com'abbiamo detto, che li stavano attorno, vi fu un certo suo conoscente in abito di dottore, il quale da un altro fu chiamato con nome di licenziato; e sapendo Vidriera che, abenché lo avesse chiamato per licenziato, ad ogni modo non aveva pur titolo di baccelliere, li disse:

—Guardatevi, amico, che col vostro titolo non s'incontrano i frati della redenzione de' schiavi, perché come cosa perduta lo denunziaranno al fisco.

—Oh, signor Vidriera —rispose questo tale—, trattatemi bene, perché sapete s'io son uomo d'alte e di profonde lettere.

—Ben so io che sete un Tantalo in esse, perché s'esse sono alte voi non le arrivate di profondo.

Essendo un giorno alla bottega di un sarto, vidde che aveva una mano sopra l'altra; onde presa l'occasione li disse:

—Ora sì, signor maestro, che sete nel camino della salute.

—E perché? —rispose il sarto.

—Perché —replicò Vidriera—, non avendo che fare, non avete che dir bugie.

De' calzolai diceva che già mai, a suo parere, facevano scarpa che non stesse bene, perché, se a quello cui si calzava stringeva per sorte il piede, dicevano che così doveva essere, essendo proprio da giovane innamorato il calzare stretto, assicurandolo che in meno di due ore sarebbero divenute larghe quanto avesse voluto; ma se per lo contrario erano larghe, in maniera che non li stassero bene, dicevano che tali dovevano essere per la podagra; un certo fanciullo mordace molto lo fastidiva soverchiamente con dimande, rapportandoli per lo contrario le novelle della città; questo tale adunque li disse una volta:

—Signor licenziato, questa notte è morto in prigione un certo ch'era condennato alle forche.

Ed egli rispose:

—Ha fatto molto bene a darsi fretta in morire schifando lo impaccio che il boia con lo assentarvisi sopra li avrebbe dato.

Davanti la chiesa di San Francesco era un circolo de genovesi che discorrevano e passando in quella parte Vidriera uno d'essi lo chiamò, dicendo:

—Signor licenziato, fattevi da noi e di questa cosa —che gliela dissero— dateci un poco conto.

—Ciò non farò io —rispose lui—, non sapendo se a Genova poi me lo passaste.

Riscontrò una volta una certa donna che davanti aveva una sua figlia molto brutta, però altrettanto carica di pietre preziose e di abbigliamenti; le disse:

—Molto bene avete fatto madonna in impietrare questa vostra figliuola, perché possa passeggiarsi.

Dei pasticcieri disse ch'erano molt'anni che giuocavano a doppio senza pena alcuna, avendo a loro beneplacito ridotti i pasticci da due reali a quattro, e quelli da quattro ad otto, solo per loro gusto e passatempo. Dei bagattelieri diceva mille mali, affermando ch'erano genti vagabonde che con indecenza grande trattavano delle cose sacre, rivolgendo con le figurine che mostravano la divozione in riso, risserrando tutte, o per almeno la maggior parte, delle figure del Testamento Vecchio e Novo in un sacco sopra il quale nelle taverne e nelle bettole si assentavano a mangiare e bere come tanti porci, maravigliandosi sovramodo come, da chi poteva, non li fosse fatto provisione sopra o veramente vietandoli di ciò fare o dandoli bando perpetuo dal regno. S'abbatté una volta passare per donde egli era un comediante vestito come un prencipe, perloché disse:

—Mi arricordo di aver veduto costui sopra il palco con il volto tutto tinto e con una pelliccia indosso vestita al roverscio e ad ogni modo a ciascun passo fuori del teatro giura affé da nobile.

—È ch'egli deve esser tale —rispose uno—, essendo che vi sono molti comedianti figli di persone nobili.

—Questo io non niego —replicò Vidriera—; ma ben dico che quello di che è manco bisognevole la comedia è di persona ben nata, dovendo essere li comedianti giovani sì, gentili e parlatori, ma non già figli di nobili, essendo che sono fatti anch'essi cingani vagabondi in perpetuo per guadagnarsi il pane, tramutandosi da quelli che sono, affine di dar contento agli altri, per essere che nell'altrui gusto consiste la vita loro propria. Quanto hanno di buono è che nel loro mestiere non ingannano persona alcuna, essendo che la loro mercanzia è publica ed esposta al giudizio e vista d'ogni persona. Il travaglio dei loro capi è incredibile ed i loro pensieri straordinari, dovendo guadagnar molto per non restare in capo dell'anno impegnati. Con questo però sono necessari nella republica, nella maniera che lo sono le altre ricreazioni oneste per sollevamento delle cure moleste(10).

Diceva ch'un amico suo era d'opinione che in servire ad una comica si serviva insieme a molte dame, come a dire a una regina, ad una ninfa, ad una dea, ad una fantesca, ad una pastorella e che molte volte ancora accadeva servire in essa ad un paggio e ad un staffiere, rappresentando tutte queste ed altre diverse parti ancora una comica. Richieseli una volta uno quale era stato il più avventurato del mondo. Rispose nemo, essendo che nemo novit patrem, nemo sine crimine vivit, nemo sua sorte contentus et nemo ascendit in coelum.

Con quelli che si tignevano la barba aveva inimicizia particolare; ed una volta rissando due, uno de' quali era portughese e l'altro castigliano, disse il portughese al contrario, mettendosi la mano alla barba che molto tinta aveva, come che per giuramento:

—Per questa barba ch'io tengo.

—Olà —disse allora Vidriera—, uomo da bene, devi dire per questa barba ch'io tingo.

Un altro aveva la barba, per diffetto della mala tinta, mezza negra e mezza bianca e Vidriera li disse:

—Fratello, guardati da rissare con alcuno, acciò non ti sia detto che tu menti per la metà della barba.

Una volta raccontò che una donzella prudente e saputa, per accommodarsi alle voglie de' genitori, diede il sì di tor per marito un vecchio canuto, il quale, la notte avanti il giorno che si dovevano celebrare le nozze, fattosi dalle sue ampollette d'acqua forte ed altre composizioni, di maniera si tinse la barba ed i capelli che dove prima erano d'argento divennero di pece. Venuta pertanto l'ora destinata per lo sponsalizio, andato alla casa della giovane le comparve di questa maniera innanzi; accortassi essa dell'inganno richiese a suo padre che le dasse il marito mostratole, poiché con quello e non con altro intendeva di legarsi in matrimonio; disse il padre che lo aveva davanti.

—E come —replicò la donzella—, se quello che mi mostraste era un uomo grave, sodo e di veneranda canizie, cosa che nel presente io veggo tutto il contrario?

Infine, schernito il vecchio, si disfece il matrimonio. Delle matrone diceva maraviglie, spiacendoli fin all'anima quei loro gesti schizzignosi, facendosi conscienza de' loro scropuli e ridendosi della loro straordinaria miseria. Lo instizzavano quelle loro debilità di stomaco, quei dolori di capo e quel loro parlare ad ogni passo ripieno di sentenze. Uno li disse un giorno:

—Che è questo, signor licenziato, che vi ho sentito dir male di molti mestieri e già mai avete parlato de' notari essendo che d'essi vi è tanto che dire?

Al che rispose lui:

—Benché io mi sia di vetro, ad ogni modo non sono sì fragile che mi lasci andare dietro all'opinioni del vulgo che il più delle volte resta ingannato. Pare a me che la grammatica dei mormoratori ed il fa, sol, la dei musici siano i notari, perché, sì come non si può passare a scienza alcuna senza la porta della(11) grammatica ed il musico prima mormora che canta, così li maldicenti per mostrare quale sia la loro malignità incominciano a dir male de' birri, de' notari e degli altri ministri della giustizia, essendo il mestiere del notaro quello per il quale la verità comparisse(12) ch'altrimente restarebbe sepolta con vergogna e maltrattata. Così dice l'Ecclesiastico: In manu Dei potestas hominis est, et super faciem scribae imponet honorem. È il notaro persona publica ed il giudice non può essercitarsi nel suo mestiere, se il notaro non si adopera nel suo. Devono i notari essere liberi e non schiavi né figli de schiavi, legittimi et non bastardi né nati di pessima razza. Giurano di essere segreti et fedeli, che né amicizia o nimicizia, utile o danno li moverà a fare cosa contro la loro conscienza in danno del prossimo. Se queste cose adunque si richieggono in un notaro, perché di ventimilla d'essi che sono in Ispagna si ha da credere che il diavolo n'abbi la ricolta, come di vite della sua vigna? Io non lo voglio credere ned è bene che alcuno lo creda, perché finalmente i notari sono gente la più necessaria che sia in una republica bene ordinata.

De' birri poi disse che non era molto ch'avessero molti nemici, non essendo il loro mestiere altro che cattivare le persone, portarli le robbe fuori delle case loro, tenerli in prigione e mangiare sopra le loro spalle. Tacciava la negligenza ed ignoranza delli procuratori e de' solicitatori paragonandoli a' medici, i quali, o che si sani o no l'infermo, ad ogni modo vogliono le loro contribuzioni o decime. Richieseli uno qual era la miglior terra. Ed egli rispose quella che dava il frutto per tempo.

—Non li chiamo questo —replicò il primo—; ma dico quale è miglior luogo, Madrid o Vagliadolid.

—Di Madrid —rispose— l'estremo e di Vagliadolid il mezzo.

—Non l'intendo —tornò a replicare il primo.

—Di Madrid —seguì Vidriera— cielo e terra e di Vagliadolid quello ch'è fra cielo e terra.

Sentì Vidriera ch'un tale disse che in entrando in Vagliadolid quell'aria li aveva fatto cadere inferma sua moglie; li disse:

—Meglio sarebbe stato che l'avesse ingiottita se a caso ella è gelosa.

De' musici e de' corrieri a piedi diceva ch'avevano le speranze e la sorte limitata, gl'uni finendole con il diventare corrieri a cavallo e gl'altri a divenire musici del re. Delle cortigiane diceva ch'avevano molto più di cortesia che di sanità. Essendo un giorno in una chiesa, vide che in uno stesso tempo si sepelliva un vecchio, si battezzava un bambino e si velava una donna; però disse che le chiese erano campo di battaglia nel quale morivano i vecchi, vincevano i fanciulli e trionfavano le donne. Pizzicavali un giorno una vespa il collo, però non cercava di scacciarla temendo di rompersi. Richieseli uno come, essendo di vetro, poteva sentire il morso di quella vespa; rispose che quella vespa doveva essere mormoratrice, poiché le lingue de' mormoratori erano bastanti a rompere i corpi di bronzo, non che di vetro. Passando a caso un religioso molto grasso, uno de' circonstanti disse:

—Questo padre non si può movere per essere etico.

Si sdegnò Vidriera e disseli:

—Nissuno si smentichi di quello che dice lo spirito santo: Nolite tangere christos meos.

Seguendo con dire che considerassero essere stati la maggior parte de' santi canonizati dalla chiesa da poch'anni in qua religiosi, poiché nessuno era chiamato il capitano tale, il segretario don tale, di tal luogo ned il conte o marchese tale, ma sì bene fra Giacinto, fra Diego, fra Raimondo ed altri, essendo che le religioni sono i giardini del cielo, i cui frutti d'ordinario si pongono alle mense divine. Diceva che le lingue de' mormoratori erano come le penne dell'aquila che rodano ed aviliscono quelle degli altri uccelli poste loro insieme. De' giuocatori diceva miracoli. Lodava molto la loro pazienza, perché, giuocando tutta una notte e perdendo, essendo di natura colerici ed indemoniati, affine il loro contrario non vincesse, tacevano, soffrendo più martiri che Barabas. Lodava ancora la conscienza d'alcuni giuocatori che in loro case non comportavano che nissuno divenisse povero, non permettendo che si giuocasse con altri giuochi che con quelli ch'erano di trattenimento e non di danno. In risoluzione egli diceva tali cose che, se non era per li stridi che dava quando alcuno se li appressava o lo toccava, per la stranezza dell'abito che portava, per il poco mangiare, per il modo di bevere, per il non voler dormire l'estate se non a cielo aperto e l'inverno ne' pagliari, di modo che dava segnali tanto chiari della sua pazzia, nissuno l'avrebbe stimato altrimenti che il maggior savio del mondo. Due anni o poco più durò in questa frenesia, in capo de' quali un religioso dell'ordine di San Geronimo, dottato per grazia d'una scienza particolare, con la quale faceva in una certa maniera parlare i muti e ritornare sani i pazzi, prese carico, mosso a carità, di risanarlo; e così fece, ritornandoli in breve tempo quell'intelletto che tanto tempo era stato smarrito. Lo vestì poi da dottore e l'inviò alla corte, affine che, dando segnali della sua sanità come prima n'aveva dati di pazzia, potesse essercitare il suo mestiere e farsi famoso in esso. Così fece Vidriera e chiamandosi il licenziato Rodazza si inviò alla corte, alla quale appena fu pervenuto che riconosciuto da' fanciulli; benché in così differente abito, lo incominciarono a circondare, non osando però di sgridarlo della maniera che facevano prima, solo dicendosi per maraviglia l'uno all'altro:

—Non è questi il pazzo Vidriera?

—Sì affé ch'è lui, ancorché in sì differente abito; richiediamoli alcuna cosa ed usciamo di questa confusione, poiché tanto può esser pazzo ben vestito come mal vestito.

Sentiva ogni cosa il licenziato, però taceva non rispondendo alcuna cosa, ripieno tutto di confusione e con più vergogna di allora che non aveva giudizio. Passò questa conoscenza de' fanciulli negli uomini, dimodoché prima di arrivare alla corte del consiglio aveva seco più di ducento persone. Con questo accompagnamento ch'era più che di un catedratico, pervenne alla corte, dove maggiormente fu circondato; e vedendosi di questa maniera rivoltosi alla turba e disse:

—Signori, io sono il licenziato Vidriera, però non quello ch'ero prima, perché adesso io sono il licenziato Roda. Disgrazia e permissione del cielo mi levò il giudicio e la misericordia di Dio me lo ha ritornato. Dalle cose ch'io dissi quando era pazzo potrete comprendere quali io sono per dire adesso che son savio. In Salamanca mi sono graduato in lege, dove studiai con povertà. Sono venuto a questo gran mare della corte per avvocare e guadagnarmi la vita; però se non mi lasciarete stare, invece della vita sarò venuto a guadagnar la morte. Per amor di Dio vi priego non fatte che il vostro seguitarmi sia perseguitarmi, e che il sostentamento della vita ch'io ebbi pazzo non lo perda per esser savio. Quello che richiedevate in piazza, conforme mi vien detto, richiedetemelo ora in casa e vedrete come vi saprò rispondere.

L'ascoltarono tutti ed alcuni lo lasciarono; ritornò alla sua casa con non meno accompagnamento di prima. Uscì il seguente giorno e fu l'istesso. Feceli un altro sermone, e non fu di nissun profitto; perloché, vedendo che perdeva molto né guadagnava cosa alcuna, determinò di lasciar la corte e ritornarsi in Fiandra, pensando colà di adoperarsi con le forze dove in Ispagna non poteva con l'ingegno. Lo pose pertanto ad effetto ed in uscir della corte disse:

—O corte, che allunghi le speranze de' temerari pretendenti e tronchi quelle de' virtuosi, sustenta pure li svergognati buffoni e fa' che si muoiano di fame i prudenti vergognosi, ch'io per me ti lascio.

Questo detto, si partì per Fiandra dove in compagnia del suo buon capitano Valdivia finì con l'armi quella vita che aveva incominciata con le lettere, lasciando doppo sua morte fama di esser stato un prudente e valoroso soldato.

Il fine della novella quinta