Il dottore Vidriera (N)


IL DOTTORE VIDRIERA
   Novella quarta

Argomento

Il dottore Vidriera diventò matto ed egli si credeva esser di vetro. Nonostante però quella sua pazzia diceva cose ed a' quesiti dava delle risposte ch'avevan del sottile e del mirabile, come se dette fossero state da savio uomo. Questa piacevole novella mostra ch'anche i matti, almeno in quegl'intervalli che i giureconsulti chiamano lucidi, danno ricordi utili a chi valer se ne sappesse.

Passeggiando lungo la riva del fiume Tormes due gentiluomini studenti vi trovarono dormendo sotto un albero un giovinetto d'anni dodici incirca, vestito da contadino; comandarono ad un lor servitore che lo svegliasse e quando fu svegliato gli domandorono di dove egli era e perché così addormentato in quella solitudine. Rispose il raggazzo che s'aveva scordato il nome della patria e ch'egli se n'andava a Salamanca(1) a cercarvi padrone, senza pretendere da lui altro salario per lo servizio che gli potesse fare che solamente il modo di studiare. Domandarongli ancora s'egli sapeva leggere. Ei rispose di sì, ed anche scrivere.

—Dunque stando così —disse uno de' gentiluomini—, non è per mancamento di poter ritenere nella memoria che tu ti sii scordato il nome della patria.

—Sia che sia —soggionse lo svegliato—, nessun di quella saprà il nome, né quello dei miei parenti, sin tanto ch'io non gl'abbia onorati.

—Et in che modo —domandò l'altro gentiluomo— pensi tu onorarli?

—Coi miei studi e mio sapere —rispose il putto—, quando con quello sarò fatto famoso. Ho imparato che degli uomini si fanno i vescovi.

Questa risposta tanto puoté che i due gentiluomini lo ritennero a servizio e gli diedero il modo di studiare nella medesima maniera che s'usa darlo agl'altri servidori in quella università. Disse il giovinetto che il suo nome era Tomaso Rodascia, dal quale, e dal vestito, giudicaron i suoi padroni quello dover esser figliuolo di qualche povero contadino. Indi a pochi giorni vestironlo di nero ed indi a poco tempo egli dette indizio di posseder un raro ingegno e buon giudizio in fare gran progresso nei suoi studi e nel servire con tanta accuratezza e fedeltà i suoi padroni che, quantunque d'un sol momento mai mancasse al suo studiare, pareva tuttavia ch'in altro non si occupasse che in servirli. E come il ben servire acquista la benevolenza del padrone al servidore e fa ch'esso lo tratti bene, già non era Tomaso se non quasi compagno dei suoi padroni. Finalmente, in otto anni ch'egli stette con loro, colla finezza e distrezza del suo ingegno diventò sì famoso in quella università che da tutti era stimato e benvoluto. Il suo principale studio a che si dava eran le leggi, però quello in che mostrava maggior pruova era nelle lettere umane. Aveva la memoria così felice ch'era stimata meravigliosa e quella illustrava di modo tale col suo buon giudizio che non si conosceva nel quale delli dui ei prevalesse. Ora gionse il tempo che i suoi padroni finirono i loro studi ed esercizi e tornaronsene a casa, ch'era in una delle più famose città d'Andalosia. Con esso loro vi menaron Tomaso, il qual con quelli vi stette per alquanti giorni. Ma come il desirio(2) di ritornare ai suoi studi cresceva ogni dì, e lo premeva, ei domandò licenza di ritornarsene a Salamanca, la quale, non so come, alletta e tira a sé le volontà di quelli ch'una volta hanno gustato quella dolcezza dello starvi. Eglino, ch'erano cortesi e liberali, gliela diedero volentieri, accomodandolo di sorte che con quello che gli donarono aveva con che vivere comodamente per tre anni. Dopo averli ringraziati con umili sommissioni, ei si partì da Malaga, ch'era la patria loro, e nel calare per la costa di Zambra, camino che conduce ad Antechera, s'abbatté in un gentiluomo a cavallo vistosamente vestito da campagna con due servidori similmente a cavallo. Se gli accostò e seppe ch'esso faceva la medesima strada. Fecero camarata insieme e presero a ragionare di molte cose. In poche parole Tomaso dette a conoscere la vivezza del suo ingegno ed il cavaliere mostrò col procedere cortigiano la gentilezza sua; e disse ch'era capitano di fanteria per s. m. e che il suo alfiere stava levando la compagnia ne' contorni di Salamanca. Sopra di questo lodò la vita soldatesca e rappresentò a Tomaso la bellezza di Napoli, le delizie di Palermo, l'abondanza di Milano, i banchetti di Lombardia ed il buon trattamento di quelle osterie; e gli rappresentò ancora il dolce suono di queste grate parole: acconcia, patrone; passa qua, manigoldo; vengano i macaroni ed i pollastri. Insomma, egl'innalzò insin al cielo la vita libera del soldato e quel viver in libertà che s'usa in Italia. Ma non gli disse niente del gran freddo che si patisce nel far la sentinella, del pericolo degl'assalti, del terrore delle battaglie, della fame che si sostiene negli assedi, delle rovine delle mine ed altre cose di questo genere che alcuni tengono essere solamente aggionte o dipendenze della professione del soldato e tuttavia sono il peso principale di quella. In conclusione, quel capitano tante belle cose gli disse che la risoluzione del nostro Tomaso Rodascia cominciò a titubare e ad affezionarsi a quel modo di vita ch'ha la morte tanto vicina. Il capitano(3), che si chiamava don Teodoro di Valdivia, sodisfattissimo della bella appariscenza, del bell'ingegno e della destrezza di Tomaso, gli disse che, se volesse per curiosità con lui passare in Italia, che gli offeriva la sua tavola ed anche, se 'l portasse l'occasione, la sua bandiera, perché il suo alfiere aveva da lasciarlo presto. Poco fu di bisogno calcarla per fare che Tommaso accettasse l'invito, facendo fra di sé stesso in quell'istante questo breve discorso:

—Sarà bene ch'io vegga l'Italia e la Fiandra ed altri paesi, poiché le lontane e lunghe peregrinazioni fanno gl'uomini più discreti, e che in questi viaggi potrò spendere per lo più tre o quattro anni, i quali, con i pochi che tengo, non saranno tanti che mi possano impedire di ritornare ai miei studi.

Così come se ogni cosa gli dovesse succedere secondo il suo gusto, disse al capitano esser contento d'andarsene con esso seco in Italia, però con patto che non voleva arrollarsi per servir di soldato ed obligarsi a seguitare la sua bandiera. E benché il capitano gli dicesse non importare ch'ei s'arrollasse e che senza di quello tirarebbe la paga e gli aiuti di costa come gli altri soldati e che, oltra di ciò, gli daria licenza ogni volta ch'esso vorrebbe, —questo saria —disse Tomaso— far contra la mia coscienza e contra quella del signor capitano, perché voglio andarvi libero, anzi che obligato.

—Orsù —disse don Teodoro— comunque si sia, insin d'adesso siamo camarati.

Arrivarono quella notte ad Antechera ed in pochi giorni e con gran giornate pervenero dove s'era levata la compagnia che già cominciava a marciare alla volta di Cartagena, alloggiandosi quella ed altre quattro ne' luoghi ch'esse avevan più a mano. Ivi Tomaso notò l'autorità de' commessari, le incomodità d'alcuni capitani, la sollecitudine dei furieri, l'industria ed il contare de' pagatori, le querele de' popoli, il riscattarsi dalle bollette, le insolenze delli bisogni, che son soldati nuovi, il contrastare degli ospiti, le assai più bagaglie che non è di bisogno e, finalmente, la necessità quasi precisa di dover fare tutto quel ch'ei notava e che non gli pareva bene. S'era vestito da papagallo, avendo rinonciato gli abiti da studente. I molti libri ch'egli aveva gli ridusse in un officio della madonna ed in un Garzilasso senza comento che portava nelle saccocchie; più presto assai di quello ch'avessero voluto gionsero a Cartagena, perché la vita su per gli alloggiamenti od osterie è larga e varia ed ogni giorno vi si trovano cose nuove e gustose. Lì s'imbarcarono sopra quattro galere di Napoli e quivi parimente Tomaso ebbe da notare la strana vita che si passa in quelle marine case, dove il più del tempo i cimici(4) danno maltrattamento, rubbano gli sforzati, importunano i marinari, i sorici distruggon ogni cosa e faticano le marette. Gli misero terrore le spaventose burasche e tormente, specialmente nel golfo del Lione, ove da due tempeste furono combattuti e l'una gli gitò in Corsica e l'altra gli fece tornare a Tolone di Francia. Infine, dopo aver passate di molte notti senza dormire, tutti bagnati ed oppressi dal sonno gionsero alla bellissima città di Genova e sbarcandosi nel suo solatio ricetto il capitano, e dopo ch'egli ebbe visitata una chiesa, andossene con tutti i suoi soldati in una osteria, ove si scordarono tutte le passate burasche. Ivi conobbero la soavità del Trebbiano, il valor del Montefiascone, il bruschetto dell'Asperino, la generosità dei tre greci Candia, Soma ed Ischia, la dolcezza e soavità della signora Vernaccia, la rusticità della Centola, la dilicatezza dell'Albano, la piacevolezza del Corso, la gagliardezza del Castiglione, o Lacrima Christi, la bontà dell'Orvieto, la grandezza delle Cinque Vigne, la vinosità del Magnaguerra, l'umiltà o mediocrità del Latino, senza che fra questi signori osasse comparire la bassezza del Romanesco. Et avendo l'oste fatta la rassegna di tanti differenti vini, s'offerì di far venir innanzi senza usare sofisticheria, o come di cose dipinte in una mapamonda, ma realmente, i vini Madrigale, Coca, Alaescio, Eschivia, Alanis, Cazaglia, Guadalcanale e la Membriglia, senza che si scordasse Ribadavia e Scargamaria. Insomma, l'oste nominò assai più vini e più loro ne porse di quel che n'abbia Bacco nelle sue cantine. Anco si fece meraviglia il buon Tomaso dei biondi capegli delle genovesi e della gentile e gagliarda disposizione degli uomini, della mirabile bellezza della città e delli suoi magnifici palazzi e case che paiono in quelle rupi tanti diamanti legati in oro. Il seguente giorno tutte le compagnie che dovevano andar in Piemonte si sbarcarono ma non volle Tomaso fare quel viaggio, anzi di lì gire per terra a Roma e Napoli, com'egli fece, e ritornarsene per Loretto e per la ricca Venezia a Milano ed in Piemonte, ove Teodoro di Valdivia gli disse che potrebbe ritrovarli, se già non si fossin partiti per Fiandra, come si spargeva voce che vi dovessero andare. Dunque dopo due giorni Tomaso s'accommiatò dal capitano ed in cinque gionse a Fiorenza, avendo visto Lucca, picciola città ma vaga e dove gli spagnuoli sono veduti più volentieri, e meglio accarezzati e trattati, che in nessuna altra città d'Italia. Gli piacque assai Fiorenza, tanto per l'ameno suo sito, quanto per la sua pulitezza, i suoi sontuosi palagi ed edifizi, suo fresco fiume e le sue belle strade. Vi stette quattro giorni, poi si partì per Roma, reina delle città, donna del mondo. Visitò i suoi tempi, vi venerò le sue reliquie ed ammirò la sua grandezza. E come dall'ugna del leone si vien in cognizione della sua forza, così egli puoté conoscere quella ch'ebbe già Roma dai suoi rotti marmi, mezze ed intiere statue, archi rovinati ed abattute terme, da' suoi magnifici portici e spaziosi anfiteatri, dal suo famoso fiume, ch'ha sempre i margini ripieni d'acque, dall'infinite reliquie de' corpi delli martiri che vi hanno le sepolture, dai suoi ponti, i quali pare che si guardino l'uno l'altro, e dalle(5) sue vie che, con il solo nome loro, oscuran quelle di quant'altre città abbia il mondo: la via Appia, la Flaminia, la Giulia ed altre simili. Poi non gli era di minor meraviglia la divisione dei suoi monti a dentro di sé stessa: il Celio, il Quirinale ed il Vaticano, con gl'altri quattro, i cui nomi manifestano la grandezza e maestà romana. Egli parimente osservò l'autorità del collegio de' cardinali, la maestà del sommo pontefice, il concorso e varietà di genti e nazioni. Tutto il vidde e considerò bene per farne il suo proffitto. E dopo essere stato alle stazioni delle sette chiese, confessatosi ad un penitenziere e baciati li piedi a sua santità, ripieno di agnusdei e di corone, determinossi gire più oltra. E per esser in tempo di mutazione di stagione cattiva e perigliosa per quasi tutti quelli che allor arrivano a Roma o se ne partono a far per terra il viaggio di Napoli, v'andò per mare. La maraviglia ch'ei s'era presa dal veder Roma s'acrebbe pur assai dal vedere quest'altra città, a suo parer delle migliori di Europa ed ancora di tutto 'l mondo. Indi se n'andò in Sicilia, vidde Palermo e poi Messina. Di quella la bellezza e di questa il porto molto gli piacquero, e di tutta quell'isola la fertil abbondanza, dalla qual con ragione viene ad essere chiamata il granaro d'Italia. Per ritornarsene a Roma, egli tornò a Napoli ed indi a Loreto, nella cui santa casa non vidde alcuna parete, perch'erano tutte tapezzate e coperte di gruccie, di lenzuola di morti, di catene, di ceppi, manette, capigliere, mezzibusti di cera e tavolette dipinte che danno testimonianza delle innumerabili grazie che molti avevan ricevute da Dio, per l'intercessione di sua santissima madre, la cui imagine egl'ha voluto onorare ed autorizare con assaissimi miracoli, in ricompensa della divozione di coloro che con simili paramenti tengono adornata quella sua casa. Vidde l'istessa stanza nella quale fu fatta la più importante ambasciata che mai avessero veduta od intesa i cieli e tutti gli angeli, beati cittadini della città eterna. Quindi ito ad imbarcarsi in Ancona se n'andò a Venezia, città che, se Colombo non fosse nato, il mondo non avrebbe pari; ma mercé del cielo e di lui e del famoso Ferdinando Cortese, il quale conquistò la(6) gran Messico, abbiamo questa che se le può pareggiare in quanto al sito. Queste due città hanno le strade piene d'acqua: questa d'Europa meraviglia del mondo antico, quella d'America stupore del mondo nuovo. Gli parve a Tomaso che la ricchezza di Venezia fosse infinita, prudente il suo governo, inespugnabile il sito, grande la sua abbondanza, i suoi contorni ameni, e finalmente tutta in sé e nelle sue parti degna di quella fama del suo valore che vola e si spande per tutto il mondo. E questo gli pareva credibile, maggiormente considerando il suo famoso arsenale, ove si fabricano le galere e tanti altri vascelli che non v'è numero. Le delizie di Calissone furono poche rispetto a quelle che questo nostro curioso trovò in Venezia, le quali fecero che quasi egli si scordasse il suo primo intento. Tuttavia, doppo l'essere stato un mese in essa, ei se ne passò a Ferrara, Parma e Piacenza e tornò a Milano, officina di Volcano, gelosia di Francia, infine città di chi si dice che può dire e fare, facendola magnifica la sua ampiezza e grandezza del suo duomo e la sua abbondanza di tutte quelle cose che sono necessarie al vitto umano. Indi passò ad Asti e vi gionse a tempo, perché il dì seguente dovea marciare il terzo alla volta di Fiandra. Molto amorevolmente egli fu ricevuto dal suo amico il capitano e dalli suoi compagni.

Gionsero poi in Fiandra ed alloggiaron in Anversa, città da non far meno meravigliare che quelle che in Italia vedute aveva. Vidde Gante e Brusselle e fu in tempo che tutto quel paese pigliava l'arme per uscire alla campagna quella prossima state. Et avendo sodisfatto al desiderio che l'aveva portato a veder quello che veduto aveva, risolsesi di ritornarsene a Salamanca a finirvi i suoi studi. E come se l'era pensato immantinente lo mandò ad effetto con dispiacere grande del suo camarata che lo pregò nel punto di volersi partire l'avvisasse con lettere della sua salute, del suo arrivo e del successo del suo viaggio. Egli glielo promise e se ne ritornò per Francia in Ispagna senza esser andato a vedere Parigi, quella città tanto famosa, perch'era tutta in arme. Infine, gionse a Salamanca, ove fu ben accolto da' suoi amici e, con la comodità ch'essi gli diedero, vi continovò i suoi studi, sin che fosse addottorato in leggi.

In quell'istesso tempo arrivò in quella città una signora delle famose nell'arte. Accorsero subito al richiamo tutti i merlotti del contorno, senza restare neanche un passerotto che non andasse a visitarla. Dissero a Tomaso che la signora era stata in Italia ed in Fiandra e, per vedere se la conoscesse, ancorch'egli(7) fu a visitarla; ma in quella visita essa adiventò innamorata di Tomaso il quale mai sarebbe andato a casa di lei, se per forza dagli amici non vi fosse stato condotto. Finalmente ella a lui scuoprì l'animo suo e gli offerì tutta la sua robba. Ma com'egli attendesse più a' suoi libri ch'a stare sul far l'amore, la signora in niun modo trovava in lui corrispondenza, per che, veggendosi disdegnata e sprezzata e, come le pareva, odiata, e che con mezi ordinari e comuni non poteva conquistarsi la rocca di Tomaso, cercò altre invenzioni al parere di lei più efficaci e bastevoli per venire a capo delle sue pretensioni. Così, consigliata da una morisca, fece una stregoneria dentro del cotognato e di quello diede a mangiare a Tomaso, credendo che gli desse cosa che costrignese la sua volontà ad amarla, come se in natura fossero erbe e parole d'incanto, o fatucchierie, che potessero sforzare il libero arbitrio. E per questo sono chiamate streghe, e venefiche, quelle che danno queste bevande o bocconi amatori: perché altro non sono che dare il veleno a chi li piglia, come l'esperienza in molte e diverse occasioni l'ha mostrato. In ora sì sfortunata il povero Tomaso mangiò il cotognato che all'istante cominciò a battere co' piedi e con le mani come se furioso stato fosse; e così stette alquante ore, in fine delle quali riscossesi, però tutto stupido, e disse con lingua turbata e tremolante che 'l cotognato ch'egli si aveva mangiato l'aveva morto e dichiarò chi gliel'aveva dato.

La giustizia, ch'ebbe notizia di questo caso, fu a cercare la mala femina ma ella, che sapeva il cattivo successo del suo cotognato, già si era fuggita e posta in salvo e mai più si lasciò vedere. Tomaso stette sei mesi in letto, ov'egli si seccò di modo tale che non gl'era restato se non la pelle e l'ossa, e mostrava d'avere tutto(8) turbati i sentimenti; e, quantunque se gli facessero i rimedi possibili, sanarono solamente l'infermità del corpo ma non già quella dello spirito; così egli rimase sano e matto, della più strana e stravagante mattezza che fino a quell'ora si fosse vista. Imaginossi il meschino sé essere tutto di vetro e con questa immaginazione, quando qualcuno se gli accostava, gridava spaventosamente, poi con parole concertate, come se fossero da uomo savio, pregava che nessuno se gl'appressasse, acciò non lo rompessino, perch'egli non era realmente simile agl'altri uomini, anzi da capo a' piedi tutto di vetro. Ora, furono molti che per cavarli quella strana immaginazione, senza starsi alle sue grida ed a' suoi prieghi, quello abbracciavano dicendogli che guardasse com'ei non si spezzava.

Ma altro in questo non s'avanzava se non che il povero matto si gittava in terra, mandando fuora mille grida ed all'istante sopragiongevagli un sì fatto tramortimento che di quattro ore non poteva tornar in sé; e quando era tornato ricominciava i prieghi e supplicazioni, acciò che non se gli appressassino. Gli pregava che da lontano parlassero con lui e domandassino ciò che volessero, che a tutti risponderebbe, e via più prudentemente, perché era uomo di vetro e non di carne, e ch'essendo il vetro di materia sottile, per quel veniva l'animo ad operare più prontamente, e con più efficacia, che per quella del corpo, composta di terrestre e greve. Vollero alcuni vedere con isperienza se vero era quello ch'egli diceva e però gli domandorono di molte e difficili cose, alle quali rispose spontaneamente con grandissima accutezza d'ingegno, cosa che fece meravigliare tutti li più dotti di quella università e fra quelli i professori in medicina e filosofia, veggendo che in un soggetto ove si ritrovava una sì stravagante e straordinaria pazzia, com'era il pensarsi esser di vetro, v'albergasse insieme tanto ingegno, capace di rispondere con acutezza e proprietà ad ogni sorte di quesito.

Fra tanto, domandò Tomaso che gli dessero qualche custodia da riporvi dentro quel frale vaso del suo corpo, acciò che nel vestirsi qualche vestito stretto non si rompesse; per il che gli donarono una vesta, o zimarra berretina, ed una camiscia molto larga, la quale egli si vestì con grand'avvertimento e cinsesi con una corda di bambagia. Non volle a patto nessuno calzarsi scarpe; e l'ordine che dette acciò che gli dessero da mangiare senz'accostarsegli fu che mettessero in capo d'un bastone un vaso o boccale di terra, con dentrovi alcuni frutti di quelli che la stagione offeriva. Carne né pesce non gli voleva. Non beveva se non al fonte, od al fiume, e questo con la mano. Quando ei caminava per le strade andava pel mezzo d'esse guardando sempre verso i tetti, temendo ch'alcuna tegola gli cascasse sul capo e lo spezzasse. Di state egli dormiva alla campagna al cielo aperto e d'inverno si ritirava in qualche osteria e nel pagliaio, ove sin alla gola ei si cacciava nella paglia dicendo che quello era il letto il più proprio e più sicuro che gli uomini di vetro potessero avere. Quando tuonava esso tremava come uno avvelenato con argento vivo, se n'usciva alla larga e non voleva rientrare nell'abitato sin che non fosse cessata la tempesta. Lo tennero i suoi amici per molto tempo riserrato ma, veggendo che la sua pazzia continovava, determinarono di condonargli ciò che domandava ed era che lo lasciassero andare libero ove egli volesse. Lasciaronlo dunque andare in libertà. Così ei caminava per la città, dando soggetto non meno da meravigliarsi che da commiserarlo a tutti quelli che lo conoscevano. Se gli facevan i ragazzi cerchio attorno ed egli col bastone gli faceva stare indietro e gli pregava che da lontano parlassero con lui, acciò non si rompesse, perché, essendo uomo di vetro, era frangibile. Ma i ragazzi, che sono la più scapigliata razza del mondo, nonostante li suoi prieghi e le sue grida, cominciarono a trargli contra strofinacci ed anche pietre, per vedere s'egli, come diceva, era di vetro. Allora il povero matto gridava sì fattamente e si dimenava di modo che muoveva gli uomini a riprendere i ragazzi ed a dargli, acciò che più non gli tirassino e dessino impaccio.

Ma un giorno ch'essi stavano a tormentarlo molto, ei voltossi da loro, dicendo:

—Che cosa volete da me, ragazzi ostinati ed importuni come mosche, sozzi e puzzolenti come cimici e temerari come pulci? Credete voi per avventura ch'io sia il monte Testaccio di Roma e che per questo dobbiate trarmi tanti rottami di vasi e tegole?

Per sentirlo stizzarsi e risponder a tutti, molti lo seguitavan sempre; ed i ragazzi ebbero per il meglio di stare ad ascoltarlo che di tirargli e molestarlo. Or un giorno ch'esso passava per la strada de' giubbonari di Salamanca una di quelle giubbonare gli disse:

—Sopra l'anima mia, signor dottore, che mi dispiace della vostra disgrazia, però ch'ho da fare che non ne posso piangere?

Egli voltatosi da lei con gran modestia le rispose, etc. Il marito di quella donna intese la malizia della risposta e gli disse:

—Dottor Vidriera —così egli medesimo diceva che si chiamava—, voi avete più del malizioso che del matto.

—A me non importa d'un bagattino —rispose egli—, mentre ch'io non abbia dello sciocco.

Passando un giorno per una strada da bordello e sulle porte di quelle case veggendo molte bagascie, disse:

—Ecco le bagaglie dell'esercito di Satanasso che sono alloggiate all'osteria dell'inferno.

Addimandogli uno che buon consiglio e consolazione potrebbe dare ad un amico che molto afflitto si ritrovava, perché la moglie l'aveva abbandonato ed era andata a star con altro, rispose:

—Dilli che ringrazi Dio ch'abbia permesso che gli sia stato levato via di casa il nemico.

—Dunque —soggionse l'altro—, egli non deve andare a cercarla?

—Non glielo consiglio —replicò Vidriera—, però che se la trovasse, sarebbe l'aver trovato un perpetuo e verace testimonio del suo disonore.

—E se già questo fosse —disse il medesimo domandatore—, che debbo fare per aver pace con lei?

—Dalle —rispose Vidriera— tutto ciò ch'essa averà di bisogno; lascia ch'ella comandi a tutti di casa, però non comportare che comandi a te.

Dissegli un giovinetto:

—Signor dottor Vidriera, io voglio scamparmi dal mio padre, perché mi frusta spesso.

A cui rispose:

—Avvertisci, figliuolo, che le frustate che i padri danno a' figliuoli onorano e quelle del boia sono infami.

Stando su la porta d'una chiesa, egli vidde entrarvi un artigiano di quelli che si danno gran vanto d'esser cristiani vecchi e dietro a quello un altro, il qual non era in così buon concetto come il primo; allora il dottore prese a dire ad alta voce:

—Aspetta, dominica, che passi sabbato(9).

Delli mastri di scuola diceva ch'erano felici, perché conversavano sempre con angioli, e ch'essi sariano ancora più felici, se quelli angioletti non fossero mocciosi. Uno gl'addimandò che gli pareva delle ruffiane; rispose che le lontane non l'erano, però sì le vicine.

Si sparse per tutta Castiglia la voce della sua pazzia, delle sue risposte e de' suoi detti e quella intesa da un prencipe, o gran signore, che stava in corte volse vederlo e mandò ad un cavaliere amico suo in Salamanca che glielo volesse mandare. Incontrandolo un giorno il cavaliere, gli disse:

—Sappiate, signor dottor Vidriera, che uno de' grandi della corte vi vuol vedere e desidera che vogliate andar da lui.

Rispose il dottore:

—Vostra signoria faccia, la prego, le mie scuse con quel signore, perché io non son buono per la corte, son vergognoso e non so adulare.

Con tutto ciò fece in modo il cavaliere che lo mandò in corte e per condurvelo usarono questa invenzione. Lo missero in una canestra di paglia, come quelle in che si portano i bicchieri, ed in quella dall'altra banda assettarono pietre per fare contrapeso e tra la paglia alcuni vetri, per dargli ad intendere che lo portassero come vaso di vetro. Gionse di notte in Vagliadolid e lo scanestrarono in casa di quel gran signore che per lui aveva mandato, dal quale egli fu molto ben ricevuto, dicendogli:

—Sia il benvenuto il dottore Vidriera; come se l'è passata nel viaggio? Come va della sanità?

—Non vi è strada —rispose Vidriera— che sia cattiva purché si fornisca, da quella in poi che conduce alla forca. In quanto alla sanità, io sto così così, perciò che il mio polso s'aggiusta con il mio cervello.

Il dì seguente, veggendo sopra le stanghe molti falconi ed astorri ed altri uccelli di rapina, disse che la caccia del falcone era da prencipi e signori grandi ma che tuttavia avvertissero che il gusto cargava sopra l'utile più di duemila per uno. E per la caccia del lepre(10), disse ch'era di grande spasso, maggiormente quando si cacciava con levrieri imprestati. Ebbe a piacere quel signore la mattezza del dottore e lasciollo andare per la città, sotto la guardia e protezione d'un uomo ch'avesse cura che i ragazzi non gli facessin male, da' quali tutti fu conosciuto in sei giorni e da tutta la corte, e ad ogni passo, strada e cantone, ei rispondeva a tutti i quesiti.

E tra gl'altri uno studente gli domandò s'egli fosse poeta, perché l'aveva per un ingegno universale; rispose:

—Sin a quest'ora non sono stato così sciocco né venturoso.

—Non intendo quello sciocco e venturoso —soggionse lo studente.

—Io voglio dire —rispose Vidriera— che non sono stato così sciocco d'essere cattivo poeta né così venturoso ch'io abbia meritato d'esserlo buono.

Domandogli un altro studente in quale stima egli avesse i poeti.

—In molta, quanto alla scienza —rispose—; ma quanto ad essi, in nessuna.

Soggionsero, ancora, perché così dicesse. Perché, rispose, nel numero quasi infinito de' poeti, o che dicono esserlo, erano sì pochi i buoni ch'appena facevan numero e, così come se non vi fossero poeti, non gli stimava. Ma però riveriva ed ammirava la scienza di poesia, perché in essa comprendeva l'altre scienze tutte, servendosi ed adornando di tutte, per pulire e dar in luce l'opere sue meravigliose, con le quali empie il mondo d'utile, di diletto e di stupore. Aggionse ancor di più:

—Molto ben so in quanta stima si debba avere un buon poeta e mi si ricorda di quei versi d'Ovidio:

Cum ducum fuerant olim regumque poeta,

premiaque, antiqui magna tulere chori,

sanctaque maiestas, et erat venerabile nomen

vatibus, et large saepe dabantur opes.

Manco mi si scorda dell'alta qualità delli poeti, che da Platone sono chiamati interpreti delli dei, e di quelli dice il medesimo Ovidio:

Est Deus in nobis, agitante calescimus illo.

E dice ancora:

At sacri vates et divum cura vocamur.

Questo è detto dei buoni poeti, perché delli cattivi, buffoni e ciarlatani che cosa puossi dire, se non ch'essi son l'ignoranza e l'arroganza(11) del mondo?

E disse ancora che per conoscer un poeta di questa stampa, sentirete, quando vuole recitar un sonetto a quelli che gli stanno attorno, i preamboli d'invito ch'esso mette in campo, con dire: "Le signorie vostre si degnino sentire un poco di sonetto che la notte passata feci sopra certo sogetto. E, benché esso vaglia pochissimo, tuttavia creder mi giova ch'ei abbia non so che di buono". E sopra questo muove le labbra, innarca il ciglio e cerca nella tasca, di dove, fra mille fogliacci unti e bisunti e mezzo stracciati, che contengono scritte le centinaia di sonetti, cava quello ch'ei vuole recitare ed infine lo legge con tono mellifluo e dolce. E se per avventura coloro che stanno a sentirlo da maliziosi o da ignoranti non lo lodassero, egli si prende a dire: "O le signorie vostre non hanno inteso il sonetto od io non l'ho saputo recitare; però sarà bene ch'io lo reciti un'altra volta e ch'elleno gli diano più attentamente orecchi, perché invero lo merita il sonetto". Dunque egli torna come da prima a recitarlo con nuovi gesti e nuove pause. Poi, che gusto è il vederli stare gl'uni e gl'altri su la censura? Che dirò dell'abbaiare o squittire dei bracchi moderni contro ai mastinacci antichi e gravi? Che di quelli che mormorano e biasimano gl'illustri ed eccellenti soggetti, da' quali splende la vera luce della poesia, e che, pigliandola essi per ricreazione e trattenimento fra le lor molte e gravi occupazioni, mostrano la divinità delli loro ingegni e l'altezze de' suoi concetti, a malgrado del volgo ignorante, il quale giudica di ciò ch'ei non intende ed abborrisce quello che 'l suo giudizio non può capire? E che di quelli che vogliono che si stimi la sciocchezza, e segga sotto il baldacchino, e l'ignoranza nel trono? Un'altra volta gli domandarono per che causa la maggior parte de' poeti erano poveri; rispose perché essi volevan esserlo, poiché stava in loro d'essere ricchi, se volessero valersi dell'occasione, la quale ad ogni ora se gli offeriva col mezo delle lor dame ch'erano tutte ricchissime, posciaché i lor capegli sono d'oro, la fronte di pulito argento e gl'occhi di smeraldi, d'avorio i denti, di corallo le labbra, di cristallo trasparente la gola, e le lagrime(12) loro liquide perle e di più che la terra ove stampavano i passi, per dura e sterile ch'ella fosse, produceva all'istante gelsomini e rose, e che il loro fiato spirava ambra, muschio e zibetto ed eran tutte queste cose i testimoni della loro molta ricchezza.

Questo ed altro egli diceva de' cattivi poeti e dei buoni sempre ne disse bene e gl'innalzava sopra le corna della luna. Vidde un giorno nella chiesa di San Francesco delle imagini dipinte da man grossolana e disse che i valenti pittori imitavano la natura ma i cattivi la vomitavano. Egli, una volta, si accostò ed appoggiò pian piano, acciò non si rompesse, alla botega d'un libraro e gli disse:

—Quest'arte vostra mi piacerebbe assai, se non vi fosse un mancamento.

Pregollo il libraro glielo dicesse. Egli rispose:

—Il mancamento sono le furberie che i librari fanno quando comprano il privilegio per fare stampar qualche libro e la burla che fanno all'autore, s'egli l'averà fatto stampare a spesa sua, e che in luogo di millecinquecento(13) esemplari ne stampano tremila e, quando che l'autore crede che si vendino i suoi, si vendono e spacciano gli altri.

Occorse che 'l medesimo giorno passaron per la piazza sei uomini che 'l boia andava frustando e, quando che il banditore gridava: "Al primo per ladrone", il dottore Vidriera anch'egli si mise a gridare a quelli che caminavano davanti a quei frustati:

—Levativi di lì, fratelli, acciò che il conto non cominci da alcuno di voi.

E poi, venendo il bandittore(14) a dir dell'ultimo, disse il dottore:

—Quello dev'essere la sicurtà de' putti.

Un ragazzo gli disse:

—Caro fratel dottore, domani una ruffiana sarà frustata.

Risposegli:

—Se tu avessi detto un ruffiano, avrei inteso ch'avessero da frustar una carozza.

Trovossi lì un di questi portaseggietta e gli disse:

—Dottore, non hai che dir di noi.

—Egl'è vero, se non che ciascuno di voi sa più peccati che non ne sa un confessore, però con questa differenza: che 'l confessore gli sa per tenerli secreti e voialtri per publicarli nelle taverne.

Questo sentì un famiglio di stalla o vetturino, perché avea sempre d'ogni sorte di gente attorno che stavan a sentirlo, e gli disse:

—Di noialtri, signor caraffa, poco o niente v'è da dire perché siamo gente da bene e necessaria nella republica.

Al quale rispose Vidriera:

—L'onore del padrone fa comparire quello del servitore. Però, avvertisci bene chi tu servi e vedrai quanto sii degno d'onore.

Voialtri vetturini sette la più cattiva canaglia che la terra sostenga. Una volta, innanzi ch'io fossi di vetro, feci viaggio d'una giornata sopra una mula da nolo, la quale aveva, che le contai, centoventiuna mende, o magagne, tutte capitali e nemiche del genere umano. Tutti i vetturini hanno del ruffiano, del ladro e del buffone. Se i loro padroni (così chiamano quelli che cavalcano le lor mule) sono conosciuti, gli gittano più sorti che non ne furono gittate l'anno passato in questa città. Se sono forastieri, gli rubbano; se scolari, gli maledicono; se poveri, gli bestemmiano; e se soldati(15), gli temono. Questi, i marinari, carrettieri e mulatieri usano un modo di vivere straordinario e ch'è solo proprio di essi. Il carrettiere passa la maggior parte della sua vita nello spazio di tre braccia di luogo od intervallo, che non v'è più dal giogo delle mule sino alla bocca del carro. La metà del tempo ei canta, l'altra metà rinega, dicendo: "Fattevi adietro, etc." bench'egli passi dall'altra banda. E se per avventura bisogna che si fermino per trar fuora alcuna ruota dal fango, anzi adoprano due biastemme che tre mule.

In quanto ai marinari, sono gente gentile, dico gente barbara, che non sa altra lingua, né altro procedere, che quello che s'usa ne' vascelli. Nella bonaccia sono diligenti, nella burasca pigri. Durando la tempesta comandano a molti ed ubbidiscono a pochi. Non hanno altro dio che 'l lor vascello, ch'è la lor stanza, ed il lor gusto e passatempo è il vedere i passaggieri patir nausea dal mareggiare. I mulatieri è gente ch'ha fatto divorzio colle lenzuola e con i basti s'è maritata. Sono sì diligenti e frettolosi che, per non perdere una giornata, lor importa di poco perdere l'anima. La loro musica è quella del mortaro; la lor salsa la fame; il loro matutino governar le sue bestie e la lor messa il non ne udir nessuna.

Mentre questo diceva il dottore, egli stava davanti alla botega d'uno speziale, al quale così disse:

—La vostra arte è molto salutifera, se non foste tanto nemici delle lampade vostre.

—In che modo siamo nemici delle lampade nostre? —disse lo speciale.

—Questo io dico —rispose Vidriera—, perché quando qualch'olio vien a mancarvi, quello della lampada che vi sta più a mano supplisce il mancamento. Et anche questo ufficio ha un'altra cosa bastante da far perder il credito al più esperto medico del mondo.

Lo speciale gli dimandò perché. Egli rispose che v'erano alcuni speciali, i quali, per non dire che mancasse nella lor officina gl'ingredienti ch'ordinava il medico, in luogo d'essi mettevano degl'altri ch'avevano, come pareva loro, la medesma virtù e qualità, se ben così non fosse: in questo modo la medicina mal composta operava in contrario a quello ch'avesse operato la ben composta. Sopra di ciò gli fu domandato da uno in che concetto e stima avesse i medici ed ei così rispose:

Honora medicum propter necessitatem, etenim creavit eum altissimus: a Deo enim est omnis medela, et a rege accipiet donationem. Disciplina medici exultavit caput illius, et in conspectu magnatum collaudabitur. Altissimus de terra creavit medicinam, et vir sapiens non abhorrebit illam. Questo —disse egli— dice l'Ecclesiastico della medicina e dei buoni medici e tutto il contrario puossi dire delli cattivi, perché nella republica non è cosa peggiore né più dannosa dei cattivi medici. Il giudice ci può torcere la giustizia o ritardarla; l'avvocato trattenere e fomentare per suo interesse la nostra ingiusta domanda; il mercatante, od usuraio, succiarne le facoltà; infine, tutte le persone con chi necessariamente trattiamo ci posson fare qualche danno; ma levarci la vita senza essere sottoposto al timor del gastigo, nessuno.

Solo i medici son quelli che ci possono ammazzare senza verun timore ed a piè saldo e senza sfoderar altra spada che quella di un recipe e non si può scuoprire i lor delitti, perché ben presto si mettono sotto la terra. Mi si ricordava che, quando io era uomo di carne e non di vetro come son ora, un infermo ebbe licenza dal suo medico, ch'era di quelli della seconda classe, di chiamare un altro per farsi medicare e quattro giorni dopo s'abbatté a passar il primo davanti la bottega, ove 'l secondo aveva ordinato, e domandò allo speziale come stava l'infermo(16) ch'egli aveva lasciato e se l'altro medico gl'avesse ordinata qualche nuova purga. Risposegli lo speziale che ne avea una che l'ammalato pigliar doveva il dì seguente. Il medico pregollo che gliela volesse mostrare, e vidde che in fine di quella era scritto: Sumat diluculo; per che disse allo speziale: : "Questa ricetta mi pare star bene ma questo diluculo non mi contenta, perciò che egli è umido oltramodo".

Per queste ed altre cose simili ch'egli diceva di tutti gli uffici, se gli seguitavano dietro, senza fargli male alcuno e senza dargli mai riposo. Con tutto ciò, non avesse potuto ripararsi contra ai ragazzi, se 'l suo guardiano con esso lui stato non fosse. Addimandogli uno che mezo potrebbe trovare per non aver invidia a nessuno. A cui rispose:

—Dormi, perché mentre che dormirai sarai fatto uguale a colui che invidiar vorresti.

Un altro venne a domandargli con che modo potesse riuscire con una commessione, la quale insin da due anni ei pretendeva. Rispose il dottore:

—Monta a cavallo ed avvertisci a quello che la porterà ed accompagnarailo fuora della città, così riuscirai con quella.

Una volta un commessario andando per una causa criminale, e menandosi dietro di molta gente con due sbirri, domandò il dottore chi colui fosse e, quando glielo dissero, —io scommetterei —diss'egli— che quel giudice porti in seno delle vipere, pistole nel calamaio e fulmini nelle mani, per rovinare e distruggere quanto dipenderà dalla sua commessione. Sovengomi ch'ebbi altre volte un amico, il quale in una commessione criminale dette una sentenza sì esorbitante ch'ella eccedeva di gran lunga la colpa dei delinquenti. Gli addimandai perch'egli avesse data così cruda sentenza e fatta sì manifesta ingiustizia. Risposemi che l'avesse fatto a disegno, acciò che poi si concedesse ed ammettesse l'appellazione, per dar campo alli signori del consiglio da mostrare la lor misericordia moderando e mettendo quella rigorosa sentenza nel suo punto e termine e nella sua debita proporzione. Io gli risposi che fosse stato meglio se lor avesse sparmiata quella fatica, perché in questo modo ei si sarebbe fatto stimare per giudice giusto e da bene.

Fra quella turba multa che per udirlo gli stava sempre attorno si ritrovava uno dei suoi conoscenti in abito di uomo letterato, al quale da un altro fu dato del signor dottore; ma, sapendo Vidriera che quel tale a cui avevan dato del dottore non aveva neanche titolo di bacelliere(17), gli disse:

—Guardate, compare, che quelli frati della redenzione delli cattivi o schiavi non s'incontrino nel vostro titolo, perché ve lo leverebbono, come ramingo e che non ha padrone.

Risposegli l'amico:

—Trattatemi bene, signor Vidriera, poiché sapete ch'io sono uomo d'alte e profonde lettere.

Rispose Vidriera:

—Io so che sete un Tantalo in quelle, perché non potete arrivarle, per esser alte, né penetrarle, per essere profonde.

Un giorno, stando appoggiato contra la botega d'un sartore, vidde quello star con le mani a cintola e gli disse:

—Senza dubbio, messer maestro, voi sete sulla strada di salute.

—Come il vedete? —domandò il sartore.

—Come lo veggo? —rispose Vidriera— Veggolo in questo che, come non avete che fare, non averete occasione di mentire.

E sogionse ancora:

—Infelice il sartore che non mente e che non lavora le feste. È cosa di stupore che quasi fra tutti quelli di quell'arte appena se ne trovarebbe uno che faccia un vestito giusto e tanti sono che gli fanno peccatori o manchevoli.

De' calzolari diceva che mai, secondo danno ad intendere, non facevano scarpe malfatte: perché, se nel calzarle erano strette e premevano troppo, asserivano che così avessero da essere, perciò che aveva più del galante il calzarsi stretto, e che portandole due ore verrebbono più larghe che scarpe di corda. E se fossero troppo larghe, dicevano che così stavan bene a causa della gotta. Un giovinetto d'ingegno acuto e sottile, che attendeva a scrivere in un offizio di provincia, l'importunava molto con dimande e quesiti e l'avvisava ancora di quanto si passava per la città, perché Vidriera parlava d'ogni cosa e rispondeva ad ogni cosa. Questo giovinetto gli disse:

—Vidriera, questa notte uno chiamato Banco è morto nella prigione ed era condannato ad esser impiccato.

Rispose:

—Ha fatto bene di morir presto, innanzi che il boia se gli posasse sopra.

Davanti alla chiesa di San Francesco era un cerchio di genovesi e, passando per lì il dottore, uno di quelli il chiamò, dicendogli:

—Accostisi qua il signor Vidriera e ci racconti un conto.

—Non voglio —rispose egli—, acciò che non mel passiate a Genova.

S'incontrò una volta in una merciara che si conducea davanti una sua figliuola solennemente brutta, ma molto guernita di gioielletti e perle, e disse alla madre:

—Avete fatto bene di imperlarla, perché si possa infilzare.

In quanto a' pasticcieri, diceva che da molti anni giuocavano al giuoco del raddopiare, senza che ne portassino la pena: perché il pasticcio da due l'avevano messo da quattro, quello da quattro da otto, quello da otto da mezzo reale, solamente per loro beneplacito e gusto. Delli bagatellieri diceva mille mali: ch'era gente vagabonda e che trattava indecentemente le cose sante, perché con le figure, che mostravano nelle sue rapresentazioni, facevano che la divozione era mutata in derisione, che 'l più delle volte lor accadeva gittare in un sacco tutte o la maggior parte delle lor figure e sedere sopra di esse quando mangiavano nelle taverne; infine, egli si meravigliava che i superiori non imponessin loro perpetuo silenzio o non gli bandissero del regno. Incontrossi a passare un comediante, vestito da prencipe, e vedendolo disse:

—Mi si ricorda aver veduto questo presentarsi sul teatro tutto infarinato il viso ed indosso una pelliccia a rovescio; e ad ogni passo, fuora del teatro, ei giura a fé di gentiluomo.

—Forse lo deve essere —rispose uno—, perché sono molti comedianti ben nati e nobili.

—Concedo —replicò Vidriera—, ma di quello ch'ha manco di bisogno la farsa è d'uomini nobili; ciarloni e ciarlatani, quelli le sono propri. Ben posso dir di loro che col suo suddore se guadagnano il pane, apparando di continuo a mente, fatti perpetui cingani, nell'andare da luoco in luoco, e d'osteria in bettola, essendo vigilanti sempre per dar gusto ad altrui, perché nel gusto d'altri(18) sta il lor proprio bene. Questo hanno di più, che con la loro arte non ingannano alcuno, posciaché ad ogni momento spiegano in publico la sua mercanzia, al giudizio ed a vista di tutti. La fatica degli autori è incredibile ed istraordinaria la cura loro. Hanno da guadagnare molto, affinché in capo dell'anno non si trovino tanto impegnati che non venghino a fallire. Con tutto questo, son necessari in una republica, come lo sono le foreste, i boschetti e le vedute di ricreazione e tutte quelle cose nelle cui si ritrova onesto passatempo.

Diceva ch'era opinione d'un suo amico che colui che serviva una comediante in una sola serviva molte dame, come una regina, una ninfa, una dea, una fregapiatti ed una pastorella. E che spesso accadeva che, nel servire quella comediante, egli servisse un paggio, uno staffiere, perché una comediante rapresenta tutti questi personaggi ed altri ancora. Fu che(19) gli domandò chi fosse stato il più felice di questo mondo. Ei rispose nemo, perché nemo sine crimine vivit; nemo sua sorte contentus.

Disse una volta che gli agrimensori erano mastri in una scienza, od arte, che quando ne avevano bisogno non la sapevano e che davano alquanto nel presontuoso, perché volevano ridurre a delle dimostrazioni matematiche, che sono infalibili, i moti e pensamenti colerici dei loro contrari. Con coloro che si tingevano la barba teneva particolare nemicizia. Et una volta contestando in presenza sua due uomini tra di loro, un castigliano ed un portoghese, questo disse all'altro, pigliandosi la barba ch'egli aveva molto tinta:

—Per questa barba che tengo nel mento.

A cui disse Vidriera:

—Olà galantuomo non dite tengo ma tingo.

Un altro portava la barba di color di diaspro e d'altri vari colori, colpa della cattiva tintura, e Vidriera gli disse ch'egli aveva la barba del colore di sterco di gallina. Ad un altro che aveva la barba mezzo bianca e mezzo nera, perché non aveva avvertito che dopo tinta era cresciuta, gli disse che non volesse contendere né contrastare con nessuno, perché se gli direbbe che mentisse per la metà della barba.

Un giorno egli raccontava che una donzella discretta e savia, per compiacere e seguire la volontà del padre e della madre, disse di sì per maritarsi con un vecchio tutto canuto. Questo, la notte innanzi al giorno dello sponsalizio, andossene non al fiume Giordano, come dicono le vecchie, ma sì alla caraffa dell'acqua forte e d'argento, con che rinovò di modo tale la sua barba che, se di neve ella se n'andò a dormire, la si levò di pece. Venuta l'ora di darsi la mano, la donzella conobbe la figura alla tintura e disse a' suoi padri che le dessero il medesimo sposo che le avevano mostrato, perché con altro che con quello non voleva essere sposata. Le dissero che quello che le stava davanti era quello medesimo che le era stato mostrato o dato per esserle sposo. Ella replicò che non era il medesimo e chiamò testimoni come quello che le fu fatto vedere compariva un uomo grave e di barba bianca; a tal che, non avendola quello ch'ella vedeva presente, egl'era posto in luogo dell'altro e che in questo modo la volevano ingannare. Così ella stette salda; quel della barba tinta l'ebbe per male, e ne restò confuso, e non seguì quel parentado.

Alle matrone teneva l'istesso odio che alle lor fantesche; diceva meraviglie del loro permafoy, della lunghezza de' loro veli da capo, de' loro disdegnosi vezzi, delli loro scropoli e della loro straordinaria miseria. Andava in colera contro alle loro debolezze di stomaco, le sue vertigini, il modo loro di parlare con più ripieghi che non avevano i loro veli. Finalmente, l'aveva contra la loro inutilità e le loro bazzecole. Uno gli disse:

—Che vuol dire, signor dottore, che vi ho udito dir male di molti offici ed arti, dai notari di palazzo in poi, sopra de' quali è tanto da dire?

A che rispose:

—Con tutto ch'io sia di vetro non sono però tanto fragile ch'io mi lasci portar via dalla corrente del volgo, il quale bene spesso si ritrova ingannato. A me pare che la grammatica delli mormoratori ed il la la la di coloro che cantano sia senz'altro i notari perché come non si può passare ad altre scienze se non per la porta della grammatica, e come il musico primieramente murmura che canti, così li maldicenti per dove cominciano(20) a mostrare la malignità delle lor lingue è nel dir male dei notari di palazzo e degli sbirri e degli altri ministri di giustizia, essendo un officio quello del notaro senza il quale la verità sarebbe ascosa o se non strappazata e vergognata, perché in manus Dei potestas hominis est e super faciem scribae imponet honorem. È il notaio persona publica e l'offizio di giudice, senza di lui, non può essere esercitato come conviene. Debbon essere i notari gente ingenua e libera, non ischiavi né figliuoli di schiavi, legitimi e non bastardi né nati di sangue infame. Giurano di guardar il secreto e la fedeltà e che non faranno scrittura usuraria, che né amicizia né nemicizia, profitto o danno gli rimoverà dall'esercitare il suo uffizio con buona e cristiana coscienza. Dunque, se questo uffizio vuol aver tante buone parti, perché si potrà pensare che, di più di ventimila notari che sono in Ispagna, il diavolo abbia da farne la ricolta, come se fossero viti delle sue vigne? Non voglio creder questo, manco nessuno deve crederlo, per che infine dico che sono uomini i più necessari in una ben ordinata republica e che, se facevano spessissimi torti, sapevano fare spessissimi diriti, e che di questi due estremi poteva risultar un mezzo che gli facesse star in cervello e con l'occhio a quello che si deve.

Degli sbirri diceva che non era gran fatto ch'essi avessero degl'inimici, essendo il lor offizio o prenderti o levarti via di casa la robba od averti in guardia e mangiar a tue spese. Biasimava la negligenza ed ignoranza delli procuratori e sollecitatori, comparandogli con i medici, i quali, risani o non risani l'ammalato, non lasciano però di portarsi il lor salario. E così fanno i procuratori e sollecitatori, si perda o vinca la lite ch'essi hanno per le mani. Addimandogli uno qual fosse il miglior terreno. Rispose quello che fruttava per tempo ed era largamente grato. Replicò l'altro:

—Non addimando quello ma qual sia la miglior terra, o Vagliadolid o Madrid.

—Di Madrid —disse— gli estremi e di Vagliadolid(21) il mezzo.

—Questo io non intendo —soggionse quello che lo addimandava, a cui Vidriera:

—Di Madrid cielo e suolo, e di Vagliadolid il tramezzo.

Udì Vidriera un uomo che diceva ad un altro che, in quello ch'egli arrivò a Vagliadolid, se gli era ammalata la moglie, perciò che quella terra l'avea provata.

—Meglio sarebbe stato —disse Vedriera— se l'avesse mangiata, se per sorte lei è gelosa.

Diceva che i musici ed i messaggieri a piede avessero la loro speranza e sorte limitata: perché questi la vedevano compita con l'essere corrieri e quelli nel giongere ad esser musici del re. Per le signore chiamate cortesane(22) diceva ch'erano più cortesi che sane. Essendo egli un giorno in una chiesa, vidde che portavano a sepellire un vecchio, a battezzare una creatura e sposare una donna, tutti in un tempo, per che disse che le chiese erano campi da battaglia ove i vecchi finiscono, i bambini vincono e le donne trionfano. Una vespa lo punse nel collo e non ardiva scuoterla temendo di rompersi, nulladimeno ei si doleva. Uno gli domandò come potesse sentire il pungiglione di quella vespa essendo il suo corpo di vetro. Rispose che quella vespa doveva essere murmuratrice, perché le lingue acute delli mormoratori e detrattori eran bastanti a passar e rovinare corpi di bronzo, non che di vetro. Diceva che le lingue de' mormoratori erano come le piume dell'aquila, le quali consumano tutte quelle degl'altri uccelli che se lor accostano. Dei biscazzieri e mariuoli diceva cose di stupore, cioè ch'erano publici prevaricatori e furbi assassini, perciò che, cavando profitto da quello che faceva qualche invito, desideravano ch'egli(23) perdesse e che la carta passasse innanzi, acciò che il contrario lo vincesse ed egli toccasse il suo diritto od emolumento. Lodava grandemente la pazienza d'un giuocatore che stava tutta una notte giuocando(24) e perdendo, e ch'essendo quello di complissione colerica ed indemoniata, nientedimeno, acciò che l'altro contro di chi giuocava nol lasciasse, non apriva la bocca e passava e sofferiva cose da dannato. Lodava anco la coscienza d'alcuni onorati biscazzieri, i quali non consentivano che in casa loro si giuocasse, neanche in imaginazione, ad altro giuoco che al punto ed al cento. Ma con questo cavano a fuoco lento, senza incorrere nel nome di trappolatori, più profitto in capo al mese che quelli che permettevano i giuochi di primiera, del flusso e della cartetta e del punto nel dado. Infine, il dottor Vidriera diceva tante belle cose che, se non fossero state le grida ch'egli dava quando il volevano toccare od accostarsegli, l'abito che portava, la strettezza del vivere, il suo modo di bere e ch'ei non voleva mai dormire se non al cielo aperto in tempo di state, l'inverno nelli pagliari, com'abbiam detto, il che dava assai ad intendere la sua pazzia, nessuno averebbe creduto ch'altro che uno de' più savi del mondo egli fosse.

Due anni o poco più gli durò quell'infermità di mente. Et infine, uno il quale aveva questa grazia particolare di sanar i matti pigliò l'assonto di risanar Vidriera. Così, mosso da carità, lo rese sano e fe' che gli tornasse il pristino giudizio, intendimento e discorso. Quando lo vidde risanato, lo rivestì da letterato e fecelo tornare alla corte, ove, con dare tante prove di savio quante di matto n'aveva date, potrebbe il suo uffizio esercitare e con quello farsi famoso. Così ei fece, e nominarsi(25) il dottor Ruota e non Rodascia. Ma appena gionse in corte che 'l riconobbero i paggi ed i ragazzi; però, come lo viddero in abito sì differente(26) da quel che soleva portare, più non osarono gridargli dietro né far quesiti. Ciò nondimeno, lo seguitavano, dicendosi l'un l'altro:

—Non è costui il matto Vidriera?

—Affé è desso.

—È diventato savio; tuttavia puol esser matto così ben vestito, come mal vestito.

—Domandiangli(27) qualche cosa e facciamoci chiari di questo dubbio.

Tutto sentiva il dottore, e stava zitto, e ne restava più confuso e vergognato(28) di quel lo fosse stato quand'era privo di buon giudizio. Dal riconoscerlo i putti seguì ch'anche gli uomini lo riconobbero; e, prima ch'egli arrivasse al cortile dei consigli, si tirò dietro più di dugento persone d'ogni condizione. Con questo seguito, ch'era maggior di quello che suol accompagnare un lettor catedrante, egli arrivò nel cortile, ove gli fecero attorno il cerchio intiero quanti si ritrovaron ivi. Veggendosi avere tanta turba d'intorno, disse ad alta voce:

—Signori, io sono il dottor Vidriera, però non quello ch'io esser soleva. Son adesso il dottor Ruota; i successi e le disgrazie ch'occorono agl'uomini per permissione del cielo mi tolsero il giudizio, ma la misericordia di Dio me l'ha restituito. Per le cose che dicono ch'io dissi quando io era matto, potete ben considerare quelle che dirò e farò ora ch'io son savio. Sono stato addottorato nella facoltà delle leggi in Salamanca, ove, avendo studiato quasi senza comodità de' beni di fortuna, si può comprendere che la virtù, più che 'l favore, m'abbia posto in questo grado. Qui son venuto al gran mar della corte per avvocare ed a guadagnarmi la vita; ma se non mi lascierete star in pace, ci sarò venuto a vogare e ad acquistarmi la morte. Pregovi per amor di Dio che 'l vostro seguitarmi non sia più perseguitarmi, e che quello ch'io godeva, ch'è il sostento della vita, quando io era matto, io non lo perda essendo savio. Quello che solevate domandarmi su per le piazze, venite a casa mia a domandarmelo e voi vederete che colui che vi rispondeva bene d'improviso, per quel che dicono, vi risponderà meglio dopo pensato.

Ascoltaronlo tutti e lo lasciarono alcuni. Ritornossene a casa con poco manco seguito di quel di prima. Venne fuora il dì seguente e gli successe come nel precendente: fece altro sermone ma non gli giovò nulla. Perdeva e spendeva assai e niente guadagnava; talché, sentendosi morir di fame, si risolse lasciar la corte e ritornarsene in Fiandra, ove pensava valersi della forza del suo braccio, poiché di quella dell'ingegno trar giovamento non poteva. E mandando ad effetto il suo pensiero disse al partir della corte:

—O corte, ch'innalzi le speranze de' temerari pretendenti ed abbassi quelle de' virtuosi timidi, tu tratti bene e sostenti abbondantemente i buffoni svergognati ed altra simile canaglia e lasci morir di fame gl'uomini discreti e modesti.

Detto questo, s'inviò verso Fiandra, ove in compagnia del suo buon amico il capitan Valdivia egli finì d'eternare con l'arme il nome ch'aveva cominciato d'immortalare con le lettere e dopo la sua morte visse fama ch'ei fose ritornato savio ed insieme portatosi da valente soldato.