NOVELLA E COLLOQUIO DI SCIPIONE E BERGANZA [Novella dodicesima]
NOVELLA E COLLOQUIO DI SCIPIONE E BERGANZA cani dell'ospedale della Risurrezione nella città di Vagliadolid, fuora della porta del Campo, i quali volgarmente sono chiamati i cani di Mahudès e destramente toccano o sindicano i diffetti e mancamenti di molte persone.
SCIPIONE Amico Berganza, lasciamo per questa notte la guardia dell'ospedale e ritiriamoci in questa solitudine, sopra di queste stuore, ove, senza esser veduti da alcuno, potremo godere quell'insolita grazia che ad amendue noi il ciel ha fatta in un istesso tempo.
BERGANZA Caro fratello Scipione, io ti sento parlare e so che a te parlo e non lo posso credere, perché mi pare che sia cosa fuora della nostra natura.
SCIPIONE Egl'è vero, Berganza, e vien ad essere maggiore questo prodigio, non solamente perché parliamo ma perché con discorso di ragione parliamo, come se fossimo capaci d'essa, essendone tanto lontani quant'è lontana la differenza tra l'uomo et il bruto, posciaché quello è ragionevole e questo senza ragione.
BERGANZA Quanto tu dici, o Scipione, io l'intendo ed il dirlo tu et io intenderlo m'arreca nuov'ammirazione e nuova meraviglia.
È pur la verità che, nel discorso della mia vita, per molte e diverse volte ho sentito dire ch'abbiamo importanti prerogative e tali che pare alcuni aver creduto che in noi sia un natural instinto, sì vivo ed acuto in molte cose ch'egli mostra poco mancarsi che non abbiamo un non so che d'intendimento capace di discorso.
SCIPIONE Fra l'altre doti nostre ho sentito lodare e stimar molto la memoria, gratitudine e gran fedeltà e per quelle si suole dipignerci per simbolo o significato d'amicizia.
Così potrai aver veduto che sopra le sepolture di marmo, o d'alabastro, nelle quali stanno sepolti marito e moglie, si scolpiscono le lor figure e tra di esse ai piedi quella d'un cane, per far intendere che nella vita guardaronsi scambievolmente amicizia e fedeltà inviolabile.
BERGANZA So bene che sono stati cani tanto fedeli e graditi che nella stessa sepoltura de' lor padroni morti si son gettati, per morire con quelli;
altri senza già mai volersene partire, né mangiare, si lasciaron morire.
E so ancora che dopo l'elefante pare che 'l cane abbia giudizio più che non hanno l'altre bestie e poi vien il cavallo e l'ultima è la scimia.
SCIPIONE È vero questo ma confesserai che mai vedesti, né dir udisti, che alcun elefante o cane, da noi in poi, caval o scimia abbia parlato;
dal che conosco che questo nostro parlare tant'improviso sia del numero di quelle cose che si chiaman prodigi, i quali mai si mostrano (questo l'ha osservato l'esperienza) che non minaccino il mondo di qualche gran calamitade.
BERGANZA Stante così, dunque è cosa strana e portentosa quella che pochi giorni fa, passando per Alcalà d'Enares, sentii dir ad un scolare.
SCIPIONE Che gli udisti dire?
BERGANZA Che di cinquemila scolari che si ritrovano a studio in quella università, ed in quell'anno, duemila studiavano in medicina.
SCIPIONE Per quello che vuoi inferire?
BERGANZA Voglio inferire o che questi duemila medici debano avere molt'ammalati da curare, il che sarebbe gran piaga e mala ventura, o hanno da morirsi da fame.
Ma sia che sia, prodigio o no, parliamo;
e quello che il cielo ha ordinato non si può prevenire con diligenza o prudenza umana.
SCIPIONE Tu dici bene e però non dobbiamo disputare come o perché parliamo;
e fia meglio, poiché abbiamo questa buona notte sopra di queste stuore e non sappiamo quanto ne durerà tanto favore, che la godiamo parlando sin al giorno, senza dar luogo al sonno, acciò non ci privi del gusto da me lungo tempo desiderato.
BERGANZA Da me ancora, perché, insino ch'ebbi forza di rodere un osso, mi venne voglia di parlare, per dire delle cose ch'io teneva a memoria, ove diventavano muffe da vecchie od io le scordava per esser troppe.
Ma, ora che tanto impensatamente mi veggo arricchito di questo don della parola, penso goderlo e farmelo valere quant'io possa, con affermarmi a dire tutto ciò di che mi ricordo, benché confusamente, perché non so quando mi venga ridomandato questo bene ch'io posseggo, come mi pare, imprestato.
SCIPIONE Sia dunque in questa maniera, amico Berganza, che questa notte mi racconti la tua vita ed i passi, o pericoli, per i quali ti sei condotto a questo stato nel quale ti ritrovi;
e, se domani sera avrem ancora la favella, conterotti la mia, però che sarà meglio spendere il tempo a raccontar le nostre proprie che perderlo inutilmente in cercar quelle d'altri.
BERGANZA T'ho sempre avuto, Scipione, per discreto, giudizioso e per amico ed ora più che mai, posciaché come amico vuoi ragguagliarmi de' tuoi successi e da prudente hai compartito il tempo ch'abbiamo per narrargli;
ma prima avvertisci se qualcuno ne sente.
SCIPIONE Nessuno, come penso, bench'ivi sia un soldato che piglia i sudori; però credo che a quest'ora anzi ei dorma che star ad ascoltar niuno.
BERGANZA Poiché con questa sicurezza posso parlare, sta' ad udire e, se quel che dirò t'annoia, riprendimi o comanda ch'io taccia.
SCIPIONE Parla pur insin a domane, che molto volentieri starò ad ascoltare e senza interromperti, se non quando fosse bisogno.
BERGANZA Parmi che la primiera volta che viddi il sole fu in Siviglia e nella sua beccaria fuor della porta che si domanda dalla Carne, laonde m'ho pensato, se non sia per quello ch'io ti dirò poi, che i miei padri dovesser esser di quei mastini, o corsi, che quei beccari allevar sogliono.
Il primo ch'io conobbi per padrone fu uno chiamato Nicolò dal naso schiacciato, giovine robusto, colerico e malizioso, come lo sono tutti quelli dell'arte beccaresca.
Questo mastro Nicolò insegnò a me et ad altri cani giovinetti ad assaltare, in compagnia di corsi vecchi, i tori, ed a pigliarli per l'orecchie, in che con molta facilità io riuscii presto come un'aquila.
SCIPIONE Non mi meraviglio, Berganza, di quella tua destrezza, perché, com'il far male venga dalla natura, l'imparare a farlo è facil cosa.
BERGANZA Che si può dire, Scipione, di ciò che viddi in quel macello? E delle cose strane che ivi si fanno?
In prima, hai da sapere che tutti quanti ch'attendono a quello, dal minor al maggiore, è gente di larga coscienza, senz'anima, senza timor del re né della sua giustizia; i puttanieri sono uccelli da rapina carnazziera.
Mantengon sé e le loro puttane con quel che rubbano.
Ogni giorno da carne, innanzi spunti l'alba, si trova nella beccaria quantità di sgualdrine e di ragazzi, tutti con i loro bisacchi, ch'essendovi venuti voti se ne ritornan pieni di buon pezzi di carne e le fanti con animelle e lombi mezzo intieri.
Non vi s'ammazza alcun animale che questa gente non ne levi le primizie e la decima, ed anche del migliore.
Et in Siviglia nessuno è obligato a pigliar carne, se non di quella che gli piace e sia buona, e quella che s'ammazza la prima o è la migliore o la peggiore e di più vil prezzo;
il che fa che ve ne sia sempre molt'abbondanza.
I padroni beccari si raccomandano a questa buona gente ch'ho detto non acciò che non gli rubbino, perché questo è impossibile, ma affinché vadano ritenuti e si moderino in far i pezzi e porzioni delle carni, le quali eglino mondano e potano come se fossero salci o viti.
Ma quello che più mi faceva stupire e mi pareva il peggio di tutto si era il vedere che quei beccari ammazzano così facilmente un uomo com'una vacca e per una pagliucca in un voltar di mano cacciano un coltello nella panza d'una persona con la medesima facilità che s'accoppassero un toro.
È meraviglia se fra di loro si passa un giorno senza contese, senza ferite ed anche senza morti.
Tutti presumono esser valenti ed hanno anco del ruffiano;
ciò nonostante, non è nessuno che con lombi di vacca e lingue non s'abbia guadagnato il suo protettore nella piazza di San Francesco.
Finalmente ho sentito dire ad un uomo savio che 'l re ha tre cose in Siviglia che gli vagliono assai, la strada della Caccia, la Constantiglia e la beccaria.
SCIPIONE Se tu ti fermerai tanto, caro Berganza, in raccontare le condizioni di tutti i padroni che hai avuti ed insieme i mancamenti ch'hanno commessi ne' lor uffizi, quanto in questo ti sei fermato solamente sin qui, bisognerà pregar il cielo che ne conceda la parola almanco per un anno, ed ancora io temo che col passo che tu camini non sei per arrivare a mezzo della tua storia.
E d'una cosa voglio avvisarti, della quale vedrai l'esperienza quand'io ti racconterò i successi della mia vita, ed è che de' racconti gli uni rinchiudono ed hanno la lor grazia in sé stessi e gli altri nel modo del raccontargli;
o, per dichiarar meglio, dico che son alcuni che, quantunque sien recitati senza preamboli od ornamenti di parole, però non lasciando d'arrecar gusto,
dove che altri sono, i quali non solamente di questo han bisogno ma ancor d'esser accompagnati dalle dimostrazioni del viso e delle mani e col mutar la voce si fan alquanto più arditi e di zotici ed insipidi diventano più acuti e gustevoli. E ricordati di quest'avviso per valertene in quello che ti resta da dire.
BERGANZA Così farò, purch'io possa, e se la gran tentazione ch'ho di parlare me lo vorrà permettere, benché mi paia che sarà cosa difficile.
SCIPIONE Avvertisci alla lingua e la ritieni, perché in quella stanno i maggior mali della vita umana.
BERGANZA Dico dunque che 'l mio padrone m'insegnò a portar una sporta con la bocca ed a difenderla contro di chi levarmela volesse.
Insegnommi ancora la casa della sua donna e con questo scusò di venir alla beccaria la sua massara, perché io ogni mattina, a buonissima ora, le portavo quel ch'egli aveva rubbato la notte.
Et un giorno che nel barlume, o tra chiaro e scuro, io iva con diligenza a portarle la porzione, udii che da una finestra mi chiamavan pel mio nome;
verso di quella alzai gli occhi e viddi una giovine di gran bellezza;
fermaimi un poco ed ella, venuta da basso e sulla porta della strada, ebbe a chiamarmi di nuovo;
me l'accostai come per intendere quello ch'ella voleva; ma non fu altro se non tormi la carne ch'io portava nella sporta ed invece di quella mettere un zocolo vecchio.
Allora fra me dissi:
"La carne va dalla carne".
Dopo che la furbetta così me l'ebbe tolta:
"Andate, Sparaviere o come vi chiamate, e dite a Nicolò dal nasetto vostro padrone che un'altra volta non si fidi di bestie, massimamente se il lupo s'incontra in simile sporta".
Ben avrei potuto ritorle quella ch'a me aveva tolto, tuttavia non volli farlo per non metter nella mia bocca beccara, succida e bavosa, le sue candide e belle mani.
SCIPIONE Facesti molto bene, perché questo è privilegio della bellezza, che se le debba sempre aver rispetto.
BERGANZA Così feci e ritornai dal mio padrone col zoccolo in luogo della carne.
Gli parve ch'io era tornato presto;
vidde il zoccolo ed imaginossi la burla; cacciò mano ad uno de' suoi coltelli e con tanta forza mel trasse che, se con gran prestezza non mi fossi scansato, mai averesti udito questo conto né altri molti che penso raccontarti.
Presi a fuggire per dietro San Bernardo, verso quei campi di Dio, secondo che la sorte mi conduceva.
Quella notte dormii allo scoperto e, fatto giorno, la mia ventura m'appresentò davanti un gregge di pecore o castrati che fossero. Quando lo viddi, credetti che in quello io avessi trovato il centro del mio riposo, parendomi esser della natura e proprio officio de' cani il guardare le mandre; ed è un'opera nella qual si racchiude grandissima virtute, com'è il proteggere e difendere gli umili, i deboli e che possono poco contra i potenti e superbi.
Subito che m'ebbe veduto, uno de' tre pastori che guardavan la mandra cominciò a chiamarmi: "To', to'";
ed io, che non desiderava meglio, me gli accostai abbassando la testa e menando la coda.
Passomi la man per la schiena, n'aprì la bocca, mi sputò dentro, guardomi l'ugna, conobbe i miei anni e poi disse agli altri pastori ch'io aveva tutti li segni d'un can di buona razza.
In quell'istante ecco ch'arrivò il padrone di quella greggia, sopr'una giumenta learda cavalcando alla gianetta, con lancia e targa, di sorte che più pareva esser uno delle guardie di quella costa che padrone di gregge.
Ei domandò al pecoraio:
"Che can è quello? Ha ciera d'esser buono".
"Così potete credere gli rispose colui, perché l'ho ben guardato e non ha segno che non mostri e prometta d'essere un gran cane;
or ora è venuto e non so di chi sia, bench'io sappia ch'egli non è delle mandre circonvicine".
"Poiché la va così disse il padrone, adesso mettigli il collaro di Leoncino, quel cane che morì, e dagli la medesima parte e porzione come agli altri e sopra tutto fagli carezze, acciò pigli amore alla mandra e non la lasci".
Detto questo, andossene ed il pastore incontanente mi pose al collo un collaro armato di punte di acciaio, avendomi primieramente dato un gran trogolo pieno di zuppe in latte e postomi nome Barzino.
Dal satollarmi con questo secondo padrone e nuovo uffizio era io contento. Mostravami diligente e sollecito in guardare la greggia, senza allontanarmene se non le feste, le quali passavo all'ombra di qualche albero, collina o rupe, over di qualche siepe, alla sponda d'un rivo.
E quell'ore del mio riposo non le passavo affatto oziosamente, perch'io occupavo la mia memoria in ricordarmi di molte cose, specialmente della vita che menata io aveva in quella beccaria ed anche in quella che 'l mio padron menava e tutti i suoi pari che si son sottoposti a secondare gl'impertinenti gusti delle lor donne o diciamo puttane.
O quante cose ti potrei dire adesso di quelle che imparai nella scuola della beccara dama del mio padrone!
Ma tacer voglio, acciò che tu non m'abbia per troppo lungo e tedioso e per un maldicente.
SCIPIONE Per avere sentito dire che un famoso poeta di quegli antichi diceva ch'era difficil cosa l'astenersi dallo scrivere satire, acconsentirò che tu sparli un poco;
voglio dire che tu segni sì ma non ferisci alcuno in cosa d'importanza, perché non è buona la maledicenza, ancor ch'ella faccia ridere molti, s'uccide qualcheduno, e se senza di lei potrai piacere t'averò in maggiore stima.
BERGANZA M'appiglierò al tuo consiglio e starò aspettando con desiderio grande che venga il tempo nel quale mi racconti li tuoi successi, imperò che ho da sperare che colui che sa così bene conoscere ed emendar i mancamenti che faccio in raccontar i miei saprà dar contezza de' suoi di modo tale che mi saranno d'insegnamento ed insieme di gusto.
Ma per rannodare il filo del mio ragionamento dico che nel mio silenzio e nella mia solitudine, ch'io godeva in quei giorni di festa, tra l'altre cose stava considerando che non doveva esser vero quello che della vita de' pastori io aveva sentito dire,
almen di quelli che la donna del mio primo padron leggeva, quando a casa sua io andava, in certi libri che trattavano di pastori e pastorelle, dicendo che passavano tutti i giorni della lor vita cantando e sonando con pive, zampogne, zufoli, violini ed altri stromenti straordinari.
Fermavami ad ascoltarla leggere come il pastore d'Anfrisa cantava suave e divinamente, innalzando li pregi dell'incomparabil Belisarda, senza che in tutti i monti dell'Arcadia foss'albero appiè del quale non avesse seduto a cantare, insin da che il sole veniva a mostrarsi in braccio all'aurora, fin che si rimetteva in quelle di Teti.
Et anco dopo che l'oscura notte le sue nere ale distese aveva sopra la faccia della terra, egli non dava fine alle sue querele ben cantate e meglio piante.
Non tralasciava il pastore Elicio, più innamorato che ardito, di cui leggeva che, senz'attendere al suo gregge ed alli suoi amori, s'impacciava nell'altrui cure.
Anche leggeva che 'l gran pastore di Filida, unico ritratto d'un innamorato fedele, aveva più sperato che goduto.
Delle smarrite speranze di Sireno e del pentimento di Diana diceva che davano grazie a Dio ed alla saggia Felicia, la quale con la sua acqua incantata disfatta aveva quella machina d'ingannevoli intrichi e fatto chiaro quel laberinto di difficoltadi.
Io mi ricordavo di molti altri libri di quella sorte che le avevo sentito leggere; ma non erano degni di tenerne, come de' sopradetti, particolar memoria.
SCIPIONE Tu fai profitto, Berganza, del mio avviso;
murmura, pungi, passa e sia netta la tua intenzione, benché la lingua così nol paia.
BERGANZA In simili materie mai trascorre la lingua, se prima l'intenzione non abbia inciampato.
Tuttavia, se per inavertenza o per malizia io sparlassi, risponderò a chi m'avrà ripreso ciò che mi rispose Mauleone, poeta ignorante e balordo academico da burle dell'academia degl'Imitatori, a quei che addimandavanlo che cosa volesse dire de die in diem. Rispose: "Dia dove dia".
SCIPIONE Fu risposta da semplice ma tu, se sei discreto o voglia esserlo, mai devi dire cosa che doppo detta domandi poi scusa; seguita pur innanzi.
BERGANZA Dico che tutti quei pensieri ch'ho detto, e molti altri, mi vennero dal veder il procedere e gli esercizi de' miei pastori ed insieme di quanti stavano in quei contorni, assai differenti da quelli ch'io aveva sentito leggere tenere quei pastori mentovati in essi libri,
perché se questi miei cantavano non erano canzoni ben composte ma uno Guarda dove va il lupo, Giannetta, ed altre di quella fatta,
né accordate al suon di zufoli, pive o violini ma solamente a quello che dava il percuotere un vincastro con l'altro o delle gnaccare tra le dita,
manco ancora con voci dilicate, suonore e mirabili ma roche e che pareva, sole o tutt'insieme, anzi gridare, o grugnir, che cantare.
Il resto della giornata lo spendevano in cercarsi i pidocchi o rattacconarsi le scarpe. Fra essi non si sentivan questi nomi di pastorelle Amarilli, Filide, Galatee e Diane né di pastori Lisardi, Lausi, Giacinti e Riselli; tutti eran Antoni, Domenichi, Paoli e Lorenzi.
Da questo venni ad intendere, quello che penso tutti debbano credere, che quella quantità di libri sono cose insognate e bene scritte per trattenere gli oziosi e sfacendati,
perché, s'elle fossero vere, tra' miei pastori si troverebbe qualche reliquia di quella vita tanto felice e di quegli ameni prati, spaziose selve, sacrati monti, belli giardini, limpidi rivi e fonti cristallini, e di quelli così onesti come ben espressi discorsi e di quello smarrirsi qua il pastore, colà la pastorella, lì risuonare la zampogna dell'uno, qui il flauto dell'altro.
SCIPIONE Basta, Berganza, ritorna al tuo primo ragionamento e seguita innanzi.
BERGANZA Io ti ringrazio, Scipione, perché, se avvisato tu non m'avessi, di modo tale s'andava riscaldando la mia bocca ch'io non mi sarei fermato che non t'avessi fatto un libro intiero di tutti quelli che m'avevano ingannato;
ma verrà tempo nel qual con più di spazio e migliori ragioni che non porto adesso lo dirò tutto.
SCIPIONE Guarda alli tuoi piedi, Berganza, e disfarai la ruota, voglio dire che ti ricordi che tu sei una bestia che manca di ragione,
o che, se mostri di averne addesso, abbiamo già provato tra di noi due esser cosa sopra natura e mai veduta.
BERGANZA Così sarebbe, s'io fossi ancora nella mia prima ignoranza. Ma ora che m'è venuto in mente quello ch'io doveva averti detto dal principio del nostro ragionamento, che non solo mi meraviglio di ciò che dico ma stupisco eziandio di quello che lascio a dire.
SCIPIONE Or perché non potrai tu dire ciò che adesso ti vien alla memoria?
BERGANZA È una certa storia d'una famosa strega, discepola della Camaccia da Montiglia.
SCIPIONE Ti prego raccontarmela, prima che vadi più innanzi in quella della tua vita.
BERGANZA Questo non lo farò per certo sin al suo tempo;
abbi pazienza ed ascolta i miei successi, che ordinatamente anderò seguitando, e così n'averai più gusto, se non sia che ti s'annoia d'intendere i mezi, anzi che i principi.
SCIPIONE Sii dunque breve e racconta ciò che tu vuoi.
BERGANZA Dico dunque ch'io la passavo molto bene nell'ufficio di guardar mandra, per parermi ch'io non mangiavo il pan a tradimento, perché mel guadagnavo col mio sudore,
e che l'ozio, radice e padre di tutti li vizi, non aveva che fare meco, perché, se 'l giorno mi riposavo, non dormivo di notte, che bisognava star all'erta contra i lupi, i quali spesso ci davano degli assalti;
e non sì presto i pastori m'avean detto "al lupo, Barzino" che correndo innanzi a tutti gli altri cani, verso la parte che m'additavano il lupo, io correva per le valli, cercava per tutti li monti, penetrava per entro i boschi, saltava balze, traversava camini e la mattina io tornava alla mandra stracco ed anelando, i piedi aperti e rovinati dalle pietre e spine e dagli sterpi e tutto 'l corpo conquassato senza avere trovato il lupo né la sua traccia; e trovava nel nostro gregge od una pecora scannata od un castrato strangolato e mezzo mangiato dal lupo.
Io mi disperava dal vedere quanto poco serviva la mia cura e diligenza.
Veniva il padron del grege, andavan i pastori ad incontrarlo con la pelle della bestia morta; gli accusava da negligenti e comandava loro di gastigar i cani, perciò ch'erano stati trascurati e pigri.
Allora ne veniva addosso una pioggia di bastonate e contra d'essi riprensioni.
Veggendomi un giorno essere castigato senza aver fallato e che la mia vigilanza, sveltezza e ferocità non mi giovavano per poter pigliare il lupo, risolsi di mutare stile, non discostandomi dal grege, com'era mio costume, per andar a cercarlo e così, quando ei tornerebbe, più certa e sicura ne saria la presa.
Ogni settimana i lupi venivano ad assaltare ed una scurissima notte ebbi buona la vista perché li potessi vedere e di guardarsene allora il gregge impossibile gli era. M'appiattai in aguato dietro ad una macchia, i cani miei compagni un poco appartati; quindi spiai e viddi che due pastori dei nostri pigliaron un castrato delli migliori di quella nostra mandra e l'ammazzarono di sorte che poi la mattina pareva che senz'altro il lupo l'avesse scannato.
Stetti fuora di me da meraviglia quand'io viddi che i pastori eran i lupi e che coloro che dovevan guardar il gregge erano quegli stessi che lo sbranavano.
In quell'istante, avvisavano il padrone dell'insulto del lupo, gli portavan la pelle, con parte della carne, e la più grassa e migliore se la mangiavan essi.
Tornava da ricapo a riprenderli il padrone e da ricapo tornava addosso a noi poveri cani la tempesta di bastonate.
Non v'eran lupi, tuttavia la mandra si sminuiva, io voleva scuoprirlo ma mi trovava muto, per il che l'animo mi s'empiva di stupore e di maninconia.
"Dio buono! diceva fra me stesso Chi a tanta malizia potrà rimediare?
Chi sarà potente assai per far intendere che la diffesa offende, le sentinelle tradiscono, la confidanza rubba e che colui che deve guardare ammazza".
SCIPIONE Tu avevi ragion, Berganza, e tu dicevi bene, perché non è maggior ladrone né più sottile del domestico;
così muorono più di quelli che si fidano che di quelli che per guardarsi stanno in cervello.
Ma quest'è l'importanza e dove sta il danno, che non si può viver in questo mondo senza fidarsi di qualcuno.
Ora lasciamo stare acciò non paia che facciamo delli censori;
seguita innanzi.
BERGANZA Seguito dunque e dico ch'io feci pensiero di lasciar quell'ufficio, bench'egli mi pareva buono, ed eleggermene un altro, nel quale s'io non fossi rimunerato per farlo bene, non fossi almanco gastigato ingiustamente.
Ritornaimene a Siviglia ed entrai a servire un ricco mercatante.
SCIPIONE Come facevi tu per trovarti padrone?
Perché, secondo che corre il tempo d'oggidì, difficilmente si vede ch'un uomo da bene trovi ricapito ov'impiegare il suo servizio.
Molto son differenti i padroni di questa terra da quel del cielo,
perciò che quelli per ricever un servitore osservano primieramente la sua apparenza, dimandano della sua capacità e cercano non solamente de' suoi parenti ma anco vogliono sapere che vestiti egli abbia.
Ma per entrare a servir Dio non ci vuol apparenza esteriore ed il più povero è il più ricco, il più umile di miglior parentela;
e pur che si disponga a servirlo di cuore netto, subito ei comanda che sia scritto nel libro de' suoi servitori e delli lor salari, assegnandoglili tanto avantaggiati che la loro grandezza ed il lor numero eccedono incomparabilmente ogni desiderio umano.
BERGANZA Tutto quello è predicare, amico Scipione.
SCIPIONE Così mi pare e però taccio.
BERGANZA A ciò che tu mi domandasti, che modo io teneva per trovare padrone, rispondo che già tu sai che l'umiltà è la base ed il fondamento di tutte le virtudi e che senza di lei non la può essere alcuna.
Ella sa spianare e vincere gl'inconvenienti, superar le difficoltà ed è un mezo che ne conduce sempre ad onorati e gloriosi fini;
dei nemici fa amici, tempera la colera degli adirati, scema l'arroganza delli superbi; è madre della modestia e sorella della temperanza.
Infine, i vizi non possono contra di lei ottener alcuna vittoria, perché nella sua tenerezza e mansuetudine rintuzzansi le punte de' loro strali.
Or di questa virtù mi sapeva valere, quando voleva entrare a servire in qualche casa, avendo prima considerato bene se quella era casa che si potesse mantener un gran cane.
Incontanente appresso alla porta io mi accostava e, quando che qualcuno che mi pareva esser forastiere v'entrava, lo abbaiava;
ma quando veniva il padrone io abbassava la testa e menando la coda me gli accostava e con la lingua gli leccava le scarpe.
Se con le bastonate mi scacciavano fuora, io le sopportavo con pazienza e con la medema dolcezza e mansuetudine facevo tante carezze a colui che mi dava quelle legnate ch'ei si fermava, veggendomi sì nobilmente perseverare.
Dopo fatto questo due volte, io restavo in casa, serviva bene, m'amavan tutti, mai nessun mi scacciò innanzi che io me ne partissi;
et è stata tal volta ch'ho trovato padrone ch'io starei ancora in casa sua, se la sorte contraria non m'avesse perseguitato.
SCIPIONE Con quell'istesso modo che tu hai raccontato entrai a servir i padroni che ho avuti e par che noi leggemmo i pensamenti l'un dell'altro.
BERGANZA Dirotti a suo tempo, com'ho promesso, in che modo ci siamo incontrati in queste cose.
Sta' dunque a sentire ciò che mi succedette, dapoi ch'ebbi lasciato 'l gregge in guardia a quei manigoldi.
Com'io dissi ritornai a Siviglia, rifugio dei poveri abbandonati e che nella sua grandezza non solamente comprende ed abbraccia i grandi ma ancor non ributta i piccioli.
Mi posi sulla porta d'una gran casa di mercatante, feci le solite mie diligenze ed in poche volte restaimi dentro.
Fui ricevuto per tenermi di giorno legato dietro alla porta e slegato di notte.
Con gran sollecitudine e diligenza io serviva, abbaiando a' forastieri e brontolando contra coloro ch'erano poco conosciuti.
Di tutta notte non dormiva; visitava i cortili e saliv'alle loggie, sempre all'erta per me e per gli altri.
Ebbe il padrone il mio servizio sì grato che comandò che mi trattassin bene e la parte di pane mi fosse data insieme con l'ossa che si gittassero e fossero levate dalla sua tavola e gli avanzi della cucina.
A che io corrispondeva con gratitudine e buon servizio e dando salti quando vedeva il padrone, spezialmente se veniva di fuora, e tante dimostrazioni d'allegrezza ch'egli ordinò fossi sciolto e mi lasciassero andare libero di giorno e di notte.
Come mi viddi ritornato in libertà, corsi da lui a fargli giri tutt'attorno, senza osar toccarlo colle zampe, ricordandomi della favola d'Isopo, quando quell'asino fu tanto asino che volle fare al suo padrone le simili carezze che aveva veduto fargli da una cagnolina, ch'esso amava, e se ne guadagnò l'animalone le buone bastonate.
Mi parve che quella favola ci dia ad intendere che le grazie d'alcuni, e le facezie, non istanno bene in tutti.
Che motteggi 'l buffone, faccia giuochi di mano e salti il giocolatore, ragghi il furfante ed imiti l'azion ed i gesti vari di gli altri uomini e delle bestie, ed il cantare degli uccelli,
ma un uomo di qualche conto, ed onorevolmente qualificato, non si dia a saper fare alcuna di queste destrezze, perché non gli sarebbono di buona riputazione né di onore.
SCIPIONE Basta, innanzi, Berganza, io t'intendo.
BERGANZA Volesse Dio che così m'intendessero coloro per chi lo dico, perché son io di non so che buona natura che mi dispiace grandemente quando veggo un gentiluomo fare del ceretano e farsi gloria di sapere giuocare de' bussoletti e di pallottole e che non vi sia nessuno che così bene come lui sappia ballare la ciaccona.
Conosco uno che si vantava e lodava d'aver, ai prieghi d'un sagrestano, tagliati trentadue fioroni di carta per metter sopra i panni neri d'un monumento;
e quella tagliatura la teneva in tanto che a vederla menava i suoi amici, come se fosse stato per mostrare loro l'insegne e le spoglie dei nemici che stavano piantate sopra la sepoltura degli avi suoi.
Or questo mercatante aveva due figliuoli, l'un di quatordici e l'altro di dodici anni,
i quali studiavano grammatica nel collegio delli Giesuiti.
Andavan alla grande con aio e paggi che lor portavano i libri e quello che si chiama vademecum.
Il vedercigli andare a cavallo, se faceva buon tempo, ed in carrozza se pioveva, mi fece considerare quanto semplicemente il padre loro andava alla piazza per suoi negozi, perché non era accompagnato da altro servitore che da un moro ed alle volte s'allargava d'andarvi sopra un muletto, ed anche mal guernito.
SCIPIONE Hai da saper, Berganza, ch'è il costume de' mercatanti di Siviglia, ed anco dell'altre cittadi, mostrar la lor magnificenza e ricchezza non nelle lor persone ma in quelle de' suoi figliuoli, perché i mercatanti sono più grandi nella lor ombra che in loro stessi.
Et è di meraviglia ch'attendano ad altra cosa che ai lor negozi e traffichi, però si portano modestamente.
E sì come l'ambizione e la ricchezza si muoiono di voglia di farsi vedere, ella crepa ne' lor figliuoli, per che gli trattano quasi fossin figliuoli di prencipi;
e son alcuni che lor procuran titoli e mettergli sul petto il segno che tanto i nobili distingue da' plebei.
BERGANZA Invero è ambizione, però ambizione nobile e generosa quella di cui pretende migliorare il suo stato, senza fare ad altri danno.
SCIPIONE Poche volte o mai si può riuscire in essa senza dar danno agli altri.
BERGANZA Già abbiam detto che non dobbiamo mormorare.
SCIPIONE So che non ho detto male d'alcuno.
BERGANZA Adesso sì ch'io conosco esser vero quello che mi ricordo aver parecchie volte sentito dire, ch'un calunniatore rovinerà la fama di dieci famiglie buone ed onorate e n'intaccherà venti;
e se qualcuno lo riprendesse dirà che non ha detto niente o, s'abbia detto qualche cosa, non l'ha detta per male e, s'avesse pensato che qualcuno l'avesse avuto per offesa, non gli sarebbe mai uscita di bocca.
Affé di cane, Scipione, molto deve sapere ed andar con molto riguardo colui ch'ha da stare due ore in conversazione e parlare senza toccare i limiti della maledicenza e murmurazione,
perché da me conosco che, così animale com'io sono, appena ho dette quattro ragioni che come moscioni al vino mi vengono parole sulla lingua, tutte maliziose e mormoranti.
Per il che torno a dire ciò che di già ho detto, che il mal fare ed il dir male l'ereditiamo dai nostri primi parenti e lo succhiamo col latte della madre.
Questo si vede chiaro perché non così tosto ha il fanciullino il braccio fuora delle fascie ch'egli alza la mano, come volendo dire che voglia vendicarsi di chi, al parer suo, l'abbia offeso,
e quasi la prima parola ch'ei proferisca si è di chiamare puttana o la sua balia o la sua madre.
SCIPIONE Hai detto il vero e confesso il mio errore e voglio che tu mel perdoni, poiché a te tanti n'ho perdonati.
Orsù, non ci torniamo più di qui innanzi
e seguita il tuo conto ch'hai tralasciato nella magnificenza con che i figliuoli del tuo padrone andavano a studio al collegio delli Giesuiti.
BERGANZA Con tutto ch'io abbia per cosa molto difficile l'astenersi dal mormorare, voglio usare un rimedio che usava un gran bestemmiatore, com'ho sentito dire, il qual, pentendosi della cattiva usanza sua, ad ogni volta ch'egli aveva bestemmiato si dava un pizzicotto al braccio, o baciava la terra, per pena della sua colpa;
ciò nonostante ei biastemmava.
Così, ogni volta ch'io farò contra il precetto che tu m'hai fatto di non dovere sparlare e contra l'intenzione ch'ho di guardarlo, morderommi la lingua di sorte che mi dolga e mi ricordi del mio errore, per non tornarci più.
SCIPIONE È tale quel rimedio che, se tu l'userai, credo che tante volte ti morderai ch'avrai da stare senza lingua e però senza mormorare.
BERGANZA Almen io farò le mie diligenze e supplisca il cielo al mio mancamento.
Or dico che i figliuoli del mio padrone lasciarono uno scartafaccio in mezzo al cortile, dove allora mi ritrovava,
e come il beccaio m'aveva insegnato a portare la sporta, così pigliai quello scartafaccio, o vademecum, e seguitaili, con pensiero di non lasciarlo sin tanto ch'eglino non arrivassin al collegio;
mi venne fatto sì come io desiderava, perché i miei padroni, veggendomi venire col libro in bocca e preso sottilmente per i cappietti, comandarono ad un paggio che mel levasse;
ma nol lasciai andare, sin che con lui non fossi dentro della sala, cosa che dette da ridere a tutti quegli scolari.
M'accostai al maggiore de' miei padroni e con gentil maniera glielo posi in mano e stetti a seder coccolone sulla porta di essa sala, guardando fisso fisso il precettore che leggeva in catedra.
Non so con che forza la virtù sforza, perché essendo io sì poco capace di quella, overo niente, subito sentii gusto dal vedere con che amore, sollecitudine ed industria quelli padri e precettori insegnavano quei figliuoli, piegandoli come tenere bacchettine, acciò non pigliassin mal piego e non si storcessero dalla virtù, ammaestrandoli in quella e nelle lettere insieme.
Io considerava qualmente con dolcezza gli rispondevano, li castigavano con pietà e misericordia, gli animavano con buon'esempi, gl'incitavan con premi ed i loro diffetti sopportavano con prudenza.
E finalmente, come lor dipignevano la brutezza e l'orror de' vizi e ritraevan la bellezza delle virtudi, affinch'amando queste ed abborrendo quelli potessero conseguire quel fine per lo qual eglino furon creati.
SCIPIONE Dici benissimo, Berganza, perché già ho sentito dire di quegli uomini che tutto 'l mondo non ne ha di così capaci nelle cose di stato come son questi né che sappiano meglio insegnare la strada per gir al cielo.
Sono specchi ne' quali si specchia l'onestà, la dottrina catolica, la prudenza e l'umiltà, base e fondamento sopra il quale si alza tutto l'edificio della beatitudine.
BERGANZA Sta così come dici.
Or seguitando il mio proponimento, dico che i miei padroni ebbero a piacere che io lor portassi sempre dietro il vademecum ed il faceva molto volentieri, con che i' passava una vita da re, anche migliore, perch'era ben più riposata, a causa che gli scolari presero a scherzar meco
e mi domesticai con essi di modo tale che mettevan la mano dentro della mia bocca ed i più piccioli montavano sopra di me a cavalcione.
Gittavano i lor capelli e berrette ed io glielor portava in mano pulitamente e con mostrarne grand'allegrezza.
Ebber a darmi da mangiare quanto potevano e si pigliavan gusto, quando mi davano noci o nocelle, in veder ch'io le apriva come fa una scimia, buttando via i giusci e mangiandone l'anime od il buon di dentro.
Furon di quelli che, per far prova dell'abilità mia, mi detter in un fazzoletto quantità d'insalata ch'io mangiai come se fossi stato una persona.
Era d'inverno, che in Siviglia viene in piazza il pan bianco e schiacciatine di butiro, di che mi regalavan così bene che furon impegnati più di due libri, o venduti, per darmi da far collazione.
Insomma io passava una vita da scolare senza fame né rogna, che non si può dire più, per dire ch'era buona,
perché, se la rogna e la fame non fossero tanto congionte con gli scolari, non vi sarebbe vita di maggior gusto e passatempo, imperò che in quella vanno del pari la virtù ed il gusto e si passa la gioventù imparando e solazzando.
Di quella gloria di riposo mi venne a levare una signora, la quale, se ben mi ricordo, è chiamata ragion di stato e, quando con lei si complisce, con molt'altre ragioni si scomplisce.
Occorse dunque che parve a quei precettori che quella mezza ora da lezion a lezione la spendevano gli scolari non già in farne la repetizione ma solamente a scherzar meco, per il che proibirono a' miei padroni menarmi più con loro allo studio.
Essi ubbidienti mi ritornarono a casa ed all'antica guardia della porta, ove ad una stuoruccia che v'era dietro, avendo preso il collo nella catena, diedi il corpo, più non si ricordando il padre de' figliuoli del favor ch'ei m'aveva fatto in comandare che 'l giorno e la notte mi lasciassin andare sciolto.
Ah, amico Scipione, se tu sapessi quanto sia strana e dura cosa il passare da uno stato felice ad un infelice!
Considera quanto è lungo il corso degl'infortuni, i quali o finiscono presto con la morte o si fa abito e costume in sopportarli che serve d'alligerimento nel lor più rigido rigore;
ma quando dalla sorte sventurata e calamitosa si passa impensatamente e d'improviso a goder altra sorte prospera e che contenta e di questa in poco tempo si torna a patire gli affanni ed i travagli di quell'altra primiera è un dolore sì rigoroso che, s'egli non finisca la vita, è per farle sentire maggior tormento.
Infine, ritornai al mio primo ordinario ed all'ossa che una negra che stava in casa mi gittava; ed anche queste m'erano decimate e rapite miseramente da due gatti romani, i quali, come svelti e leggieri, lor era facile rapirmi quel che cascava fuora della lunghezza e giuridizione della mia catena.
Caro fratello Scipione, io ti priego, così ti conceda il cielo ciò che desideri, che non t'incresca lasciarmi ora filosofar un poco sopra questo soggetto,
perché s'io tralasciassi di dire delle cose che allora m'occorsero, e ch'adesso mi vengono alla memoria, parmi che la mia istoria rimarrebbe imperfetta ed affatto inutile.
SCIPIONE Avvertisci, Berganza, che quella voglia che dici esserti venuta di volere filosofare non sia qualche tentazione del demonio,
però che la maledicenza non ha velo migliore, per cuoprir la sua malizia, di quello del persuadere che quanto ella dica sono sentenze dei più gravi filosofi e che 'l dir male è salutifera riprensione e lo scuoprire e biasimare gli altrui diffetti buon zelo.
E non è maldicente alcuno di cui la vita, se la consideri ed esamini bene, non la trovi piena di uffici ed insolenze. Or sapendo tu questo, filosofa adesso quanto vorrai.
BERGANZA Sii certo, Scipione, che sparlerò ancora, però che così l'ho pensato.
È dunque il caso che, come io stava tutto 'l giorno ozioso e l'ozio sia padre dei pensieri, ripassaimi per la memoria qualche latino di quelli molti ch'io aveva udito dire a' miei padroni, quando con essi fui allo studio,
e perciò mi pareva avermi alcun poco migliorato l'intendimento, e mi risolsi, come s'io avessi avuto l'uso della favella, valermi d'esso nell'occorrenze, però con differente modo di quel d'alcuni sciocchi ed ignoranti,
perché sono pedanti che nelle conversazioni lascian andare di quando in quando qualche parola di latino, ma breve e di corta lena, per dare ad intendere a quei che non l'intendono che sono gran latini, benché appena sappiano solamente declinare un nome né congiugar un verbo.
SCIPIONE Questi fan manco male rispetto a quelli che sanno la lingua latina perfettamente, i quali sono di sì poco giudizio che, parlando con un sartore o con un calzolaio, gittano via il latino come se fosse acqua.
BERGANZA Da quello possiam inferire che tanto faccia errore colui che parla latino a chi non se n'intende, quanto quel che lo vuol parlare ancorché non ne sappia.
SCIPIONE Et è anche da avvertire che di quei sottili latini alcuni son asini grossi.
BERGANZA E chi ne dubita?
Poiché si sa di certo che gli antichi romani tutti parlavano latino, com'essendo la lor lingua materna, e tuttavia chi vorrebbe asseverare che fra di essi non fossero di quelli a cui il parlare latino non toglieva l'essere sciocchi e balordi?
SCIPIONE Per sapere, Berganza, tacere nella propria lingua e parlare latino è necessario essere savio e discreto.
BERGANZA Egli è vero, perché così può uno dir una scioccheria con parlare latino come volgare.
Et ho veduti alcuni letterati goffi e de' volgari scimuniti e vergati con quelle liste della loro latinità non servir d'altro che di seccar il mondo.
SCIPIONE Lasciamo questo e comincia a dire le tue filosofie.
BERGANZA Già le ho dette.
SCIPIONE E quali?
BERGANZA Quelle di quei latinatori e de' volgari ch'ho cominciato e tu hai finito di dire.
SCIPIONE Dunque tu chiami filosofare il mormorare e dir male;
canoniza, Berganza, la maldicenza e dalle nome qual tu vorrai, perché in ogni modo ella darallo a noi di cinici, cioè di cani mormoratori e mordenti;
ma taci, per vita tua, e seguita innanzi la tua storia.
BERGANZA Come vuoi tu ch'io la seguiti tacendo?
SCIPIONE Voglio dir che la dichi schietta, senza darle tanti appiccaticci, perché non fanno caso.
BERGANZA Per crederti, dico che la mala fortuna, non contenta d'avermi tolto da quella vita così allegra e felice, per legarmi dietro ad una porta, e di avere scambiata la liberalità dei studenti con la miseria della negra, ordinò che tormentato io fossi da ciò che stimato aveva esser il mio riposo.
Devi sapere, Scipione, e questo abbilo per certo e vero, com'io l'ho per tale, che le disgrazie cercano gli sfortunati e trovanli, ancorché stessero nascosti ne' ripostigli più segreti della terra.
Questo dico perché la negra di casa nostra era innamorata d'un negro, anch'egli schiavo del mio padrone;
e questo negro dormiva nel tramezzo delle porte di strada e del cortile, dietro la quale io stava;
e perché non potevano vedersi insieme se non di notte avevano rubbate e contrafatte le chiavi d'esse porte.
Quasi tutte le notti veniva giù la negra e, turandomi la bocca con un pezzo di carne o di formaggio, apriva al negro e con lui si dava bel tempo, facilitandolo il mio silenzio e molte cose che per la negra rubbava.
Per alcuni giorni i presenti di lei mi rovinarono la coscienza, credendo io che senza quelli mi si ristrignerebban le budella e che di mastino diventerei levrieri.
Ma infine, portato da buona natura, volli corrisponder a quello ch'io doveva al mio padrone, poiché mangiava il suo pane, come lo debbon fare non solamente i cani onorati e ch'hanno fama d'esser riconoscenti ma anche tutti quelli che stanno a servire.
SCIPIONE O questa sì, Berganza, voglio che passi per filosofia, perché è ragion che consiste in verità e buon intendimento;
seguita pure e non fare inutilmente troppa lunga la tua storia.
BERGANZA Prima, vorrei pregarti dirmi, se 'l sai, che voglia dire filosofia, perché, quantunque io la nomini, non so che sia, solo mi pare che debba esser qualche cosa di buono.
SCIPIONE Tel dirò brevemente.
Quest'è voce composta d'altre due greche, philos e sophia.
Quella vuol dir amore, questa scienza: così filosofia significa amor della scienza e filosofo amatore della scienza.
BERGANZA Molto sai, Scipione, che diavolo t'ha insegnato nomi greci?
SCIPIONE Veramente, Berganza, sei semplice, poiché di questo tu fai caso, essendo cosa che sin ai putti che van a scuola tutti la sanno;
e sono anche degl'ignoranti che si presume sapere la lingua greca senza saperla, come abbiam detto della latina.
BERGANZA Quel dico io;
vorrei che si mettessero sotto il torchio ed a forza di volte e spremute fosse cavato il sugo di tutto ciò che sanno, acciò che non andassero ingannando il mondo con l'oropello delle loro bracchezze rotte e del suo falso latino, come fanno i portoghesi co' negri di Ghinea.
SCIPIONE Adesso sì, Berganza, che ti puoi mordere la lingua e forarmela io, perché quanto diciamo è mormorare.
BERGANZA Non credo esser obligato a fare ciò che ho sentito dire aver fatto uno chiamato Coronda Tirio,
il quale fece una legge che niuno entrar dovesse in alcun'adunanza nella sua città con l'arme, a pena della vita; ed essendo egli stesso entrato nel consiglio con la spada cinta allato, ricordatosi della sua legge ed avvertito della pena ch'esso aveva ordinata a chi la violerebbe all'istante sfoderò la spada e se la cacciò nel petto e, così com'ei fu il primo che ruppe la legge ch'aveva fatta, fu anche il primo a patire l'imposta pena.
Quello ch'ho detto non è stato per metter legge ma solamente ho promesso di mordermi la lingua quand'io mormorassi;
però le cose presenti non vanno come le passate né con tanto rigore:
oggi si fa una legge, domani la si disfa e forse che così deve essere.
Ora uno promette di emendare di suoi uffici e di lì ad un momento casca in altri maggiori.
Una cosa è lodar la disciplina ed il darsela un'altra; in effetto dal dir al fatto v'è un gran tratto.
Mordisi pur il diavolo, ch'io per me non voglio mordermi né far finezze dietr'una stuora, ove non è alcuno che lodar possa la risoluzione che generosamente io avessi fatta.
SCIPIONE Per quello che tu dici, Berganza, se tu fossi una persona saresti ipocrita e tutte l'opere che tu facessi non averebbon altro che l'esser apparenti, finte e false, e coperte col manto della virtù, solamente perché ne venissi lodato, come fanno gli ipocriti.
BERGANZA Non so di quello ch'io facessi allora ma so ben ciò ch'adesso voglio fare ed è non mordermi la lingua, avend'ancora tante cose da dire che non veggo come, né quando, io possa finirle ed anche stando con timore che quando spunterà il sole non restiam allo scuro per mancamento di favella.
SCIPIONE Il cielo vi provederà, seguita pure la tua storia e non ti discostare dal gran camino e così, per lungo ch'ei sia, finirai presto.
BERGANZA Dico dunque ch'avendo veduto l'insolenza, i ladronecci e la disonestà de' nostri negri, volli da buon servitor impedire con quel miglior modo che seppi, acciò non passassin innanzi, ed appunto mi riuscì com'io l'aveva pensato.
Di già ho detto ch'era venuta giù la negra a trastullarsi col suo negro, confidata che i pezzi di carne, pan e formaggio ch'ella mi dava mi farebbono ammutire.
I doni, Scipione, posson assai.
SCIPIONE Assai non traviare, passa innanzi.
BERGANZA Ricordomi che quando io andava alla scuola, sentii dire al precettore un proverbio latino, che essi chiaman adagio,
e che diceva: Habet bovem in lingua.
SCIPIONE O ch'in malora hai trovato quel tuo latino;
ti sei così presto scordato quello che poco fa dicemmo contra coloro che mescolatamente usano di latinizare, parlando il lor ordinario linguaggio?
BERGANZA Qui quadra bene questo latino, perché devi sapere che gli ateniesi, tra l'altre lor monete, usavan una ov'era impronta la figura d'un bue e, quand'un giudice, per esser stato subornato, non faceva giustizia, diceano:
"Costui ha il bue sopra la lingua".
SCIPIONE Zoppica l'applicazione.
BERGANZA Non è ben chiara, se per parecchi giorni i doni della negra mi fecero star muto ed io non voleva né ardiv'abbaiarla, quando ch'ella scendeva dal suo negro innamorato?
Perché torno a dire che i doni possono molto.
SCIPIONE Già ti ho conceduto che possono assai e, se non fosse ch'ora non voglio fare una lunga disgressione, o vogliam dire tralasciare il filo della mia narrazione, con mill'esempi proverei che posson molto i donativi ma forse che 'l dirò, se il cielo mi darà tempo, luogo e parola da raccontarti la mia vita.
BERGANZA Dio ti dia ciò che desideri e sta' attento.
Infine, il mio pensiero d'essere più fedele vinse i doni della negra, perciò che una notte buia che ella tornò da basso al solito suo trastullo l'assaltai senza abbaiare, per non isvegliar quei di casa, ed in un istante le stracciai tutta la camiscia e le portai via un pezzo della coscia, burla che fu bastevole a farla star in letto per più di otto giorni,
fingendo col padrone non so che infirmità.
Risanata poi, la ritornò un'altra notte, ed io con lei, alla pugna e senza morderla le sgraffiai tutta la vita e come panno gliel'aveva cardata.
Le nostre battagliuole erano alla sorda ed io sempre ne usciva vittorioso e la negra malconcia e peggio sodisfatta.
Ma i suoi sdegni si vedevano nel mio pelo e nella mia sanità, perciò che ella mi levò la porzion di pane e delle ossa e le mie a poco a poco m'andavano segnando nodi sopra la schiena.
Con tutto ciò, ella non mi puoté levare l'abbaiare.
Però, per finirmi in una volta, la mi presentò una spongia fritta con il butiro.
Io conobbi la malizia e ch'era peggior il mangiarla che s'ella fosse stata di vetro pesto ed intriso con del veleno, che chi ne magna se gli gonfia lo stomaco e non ne viene fuora che con la vita.
E perché mi pareva essere impossibile guardarmi dagli aguati e tradimenti di così sdegnati nemici pensai di frapor terra tra essi e me, con levarmigli dagli occhi.
Un giorno mi trovai sciolto e senza dir adio a nessuno uscii in sulla strada ed a manco di cento passi la sorte mi pose davanti lo sbirro che nel principio della mia istoria dissi esser amico grande del mio antico padrone, Nicolò dal naso schiacciato, il quale non m'ebbe veduto ch'egli mi riconobbe e chiamommi pel mio nome.
Anch'io riconobbi lui ed al suo chiamare me gli accostai, con le solite mie cerimonie e carezze.
Egli mi prese per il collo e disse a due suoi garzoni:
"È questo il famoso cane da presa, o d'aiuto, che fu d'un mio grand'amico, meniamolo a casa".
N'ebbero piacer i garzoni, dicendo ch'io sarei di profitto a tutti, poich'io era can d'aiuto, e vollero pigliarmi per menarmi via con essi; ma lor padrone disse che non era bisogno e che io lo seguiterei, perché il conosceva.
M'ho scordato dirti che 'l collaro armato di punte di acciaio che portai via meco, quand'io mi partii dal greggie, un cingaro mel tolse in una osteria ed in Siviglia più io non l'aveva; ma lo sbirro allora me ne mise un altro tutto imbullettato di ottone.
Considera adesso, Scipione, la volubile ruota della mia fortuna, ieri mi vedesti scolare, oggi mi vedi garzon di sbirro.
SCIPIONE Così va il mondo e non bisogna che tu ti metti ora in quest'intrico di voler curiosamente esaggerare gli accidenti della fortuna, come se fosse gran differenza tra l'essere garzone d'un beccaio e d'uno sbirro.
Non posso sopportare con pazienza il sentire alcuni uomini querelarsi della fortuna, con dir che la migliore ch'eglino ebbero era l'essere diventati scudieri da braccio: con che maledizioni la maledicono, con quanti disprezzi la disonorano e questo solamente acciò che quello che gli sente pensi che siano caduti da qualche alta prosperità in quella bassa e misera in che gli veggono.
BERGANZA Tu hai ragione e devi sapere che quello sbirro aveva amicizia con un notaio, col quale si accompagnava, e tutti due s'eran imbertonati in due puttanelle, di poco più, o manco no, ma ben da manco in tutto;
è vero tuttavia ch'esse aveano non so che di bel mostaccino ma pur assai d'astuzia e furberia puttanesca.
Queste lor servivan di rete, e d'amo, per pescare in seco in questo modo.
Vestivansi di sorte che al solo colore a tiro d'arcobuso scuoprivasi la figura; voglio dire che subito si conosceva ch'erano di quelle donzelle che si danno bel tempo.
Elle andavano sempre a caccia di forastieri e, quando arrivava la verdescia a Calis ed a Siviglia, arrivava insieme la folla del loro guadagno, non restando bertone con chi non investissero.
E, se 'l bisunto aveva dato nelle mani di queste damigelle, n'avvisavan la corte, ed il notaro, e della casa ove andassero e quando; et essi andativi prendevanli per puttanieri, però senza condurli alla prigione, perché in quegl'incontri sempre i forastieri se ne liberan con denari.
Successe dunque che la Colindra, ch'era l'amica del caposbirro, si pescò un bertone unto e bisunto e s'accordarono di cenar in casa di lei e dormir quella notte insieme, di che subitamente essa diede avviso all'amico, talché appena erano spogliati quando lo sbirro, il notaio e due garzoni ed io andammo a quella casa.
Turbaronsi grandemente gl'innamorati e lo sbirro, esaggerando il lor delitto, disse che presto si vestissero, se non volessero andar ignudi in prigione.
S'afflisse il bertone ed il notaio, mosso da carità, prese ad intercedere per lui ed a forza di prieghi fece moderare la pena a solamente cento reali.
Domandò il bertone i suoi calzoni, ch'erano di camoccia, ch'egli posti aveva sopra di una sedia al piè del letto, ne' quali portava denari che potrebbon pagare la sua liberazione.
Ma i calzoni non comparivan più né potevano comparire, perché quand'entrai nella camera mi venne al naso un odore di lardo che mi confortò tutto il cuore ed il trovai in una tasca delle brachezze, dico un pezzo di persciuto di quel buono, e per cavarlo e godermelo senza fare strepito portai le brache sulla strada e là me lo magnai comodamente.
E quando ritornai nella camera trovai che 'l bertone gridava, dicendo nel suo linguaggio adultero e bastardo che gli rendessero le sue brachezze, nelle quali aveva cinquanta escuti d'oro.
Allora il notaio s'imaginò che la Colindra o gli sbirri glieli avessero rubbati; il caposbirro pensò l'istesso; chiamolli in disparte ma niente confessarono né l'un né l'altro e tutti tre si dettero al diavolo.
Veggendo io ciò che passava, ritornai alla strada, ove io avevo lasciate le brachezze, per riportarle,
posciaché i denari non mi potevano servir di nulla;
ma non ce le trovai, perché qualcuno per là passato a caso se l'aveva portate via.
Disperavasi lo sbirro, veggendo che 'l bertone non aveva più soldi per pagare la condanna e, pensando cavare dalla padrona di quella casa quello che colui non aveva, ebbe a chiamarla. Ella venne mezzo spogliata ed udendo le grida ed i lamenti del bertone, veggendo la Colindra in camiscia e piangente, lo sbirro in colera, il notaio sdegnato ed i garzoni dello sbirro portar via et accomodarsi con quello che trovavano per casa, non l'ebbe a piacere.
Comandò lo sbirro ch'ella si mettesse il manto e venisse con lui alla prigione, perché ricettava in casa sua uomini e donne di malavita.
Allora sì che crebbe la confusione colle grida, perciò che quella donna così prese a dire:
"Signor caporale, e voi, signor notaio, non rase meco, perché ho il dritto ogni cucitura, non finocchierie, non biancherie; state zitti ed andate con Dio o, se non per questa croce, io butterò l'osteria giù per le finestre e farò venir in piazza tutta la rasa di quest'osteria. Conosco bene la signora Colindra e so che da molti mesi è suo amico il signor caporale.
Non fate ch'io la faccia più chiara ma rendete a questo signore i suoi denari e restiamo tutti da bene in pace. Io son donna onorata ed ho un marito ch'ha i suoi buoni privilegi di nobiltà, col perpenam rei di memoria ed i suoi sigilli pendenti di piombo, lodato sia Dio. Et io faccio quest'uffizio senza far danno ad altrui e nettamente, alla schietta.
La tariffa o lo stampato del prezzo d'ogni cosa tengo affiso in luogo dove tutti possan vederlo; non conti meco, che, per Diana stella, so spolverarmi.
L'avete ben trovata ch'io sia per far entrare donne con gli ospiti;
eglino hanno le chiavi delle lor camere ed io non sono lince che possa vedere a traverso di sette muraglie".
Rimasero i miei padroni oltramodo meravigliati dell'aver udita la renga di quella donna, nella quale dipingeva così l'istoria della lor vita.
Ma come viddero che non potevano cavar denari se non da lei, stavan duri ed ostinati in volerla menar prigione. Ella si lamentava col cielo del torto e dell'ingiustizia che le facevano, essend'assente il suo marito e sì principal gentiluomo.
Il bertone gridava e faceva grandissima rovina per la perdita delle sue brachezze e dei suoi cinquant'escuti. Gli sbirri giuravano costantemente ch'essi non avevan vedute quella brachezze e che così non volesse Iddio.
Il notaio per buon rispetto insisteva che si cercasse ne' vestiti della Colindra, perch'egli sospettava dover esser lei ch'avesse tolti li cinquanta escuti, per essere il suo solito di cercare li ripostigli e le saccocchie di quelli che con lei s'impacciavano. Ma costei contra ciò diceva ch'il berton era imbriacco e doveva mentire in ciò ch'egli diceva de' suoi denari.
Insomma tutto era confusione, grida e giuramenti, senza trovar modo di racchettarsi, se non vi foss'entrato al gran rumore un assistente che andava visitando gli alberghi.
Dimandò all'albergatrice della cagione di quel fracasso, ella gliene disse minutamente, con raguagliarlo circa la condizione della ninfa Colindra, che già era vestita, della qual publicò l'intrinsichezza con lo sbirro, scuoprì davanti a tutti in piena strada le sue furberie e modi di rubbare, giustificò sé stessa d'aver mai consentito che donna di malaffare o di cattivo nome entrasse in casa sua;
si dimostrò per buona e per uomo da bene il suo marito.
E chiamata la sua fante le comandò andar volando ad una cassa per le lettere di nobiltà di lui, acciò che le vedesse il signor assistente, dicendoli che per quelle veder potrebbe che la moglie di tal marito, e così onorato, non poteva far cosa ch'avesse del cattivo e che, s'ella faceva l'arte di locandiera, era per non poter far altro. E ch'Iddio sapeva quanto gliene pesava e se desiderava avere qualch'entrata per poter passare la vita, senza attendere a quello esercizio.
L'assistente, annoiato dal suo sì lungo parlare e dalla sua presonzione di nobiltà, le disse:
"Sorella dalle locande, voglio credere che 'l vostro marito abbia lettere di nobiltà e sia gentiluomo, purché mi confessiate ch'è gentiluomo tavernaio".
"Et anche con molto onore rispose lei; e qual lignaggio è nel mondo che non vi sia qualche cosa da dire, per buono ch'egli possa essere?"
"Quel ch'io vi dico, sorella, si è che pigliate il vostro manto, perché bisogna ch'andiate ora in prigione".
A cotal nuova la grama donna cascò in terra, si graffiò tutto 'l viso, alzò le grida. Ma con tutto ciò l'assistente, oltramodo severo, gli fece condur tutti alla prigione, cioè il bertone, la Colindra e la locandiera.
Dapoi seppi che il bertone perdé i suoi cinquant'escuti, con altri dieci per le spese ne' quali ei fu condannato. Altretanti paggonne l'albergatrice e la Colindra venne fuora senza aver pagato neanche un bagatino.
Et il medesimo giorno ch'ella fu liberata la si pescò un marinaro che pagò pel bertone, con la medesima astuzia dello sbianchiare, acciò che vedi, Scipione, quanti inconvenienti e quanto male nacquero dalla mia golosità.
SCIPIONE Meglio diresti dalla vigliaccheria del tuo padrone.
BERGANZA Ora sta' sentire, che ne facevan ben dell'altre, ancorché mi dispiaccia dir male degli sbirri e de' notai.
SCIPIONE Però, il dir mal d'uno non è dirlo di tutti, perché sono di molti notari buoni, leali e fedeli e che fanno piacere senza danno altrui. Non tutti trattengono le liti, né tradiscono le parti, né si fanno pagare più di quel che lor venga di ragione;
né tutti vanno spiando o curiosamente cercando della vita degli altri, per poi metterla in giudizio, né tutti s'accordano col giudice per dirsi l'un all'altro: "Fammi la barba, che io ti farò il ciuffo";
né tutti gli sbirri s'intendono con gli scioperoni e marioli, né hanno simili amiche a quella del tuo padrone, per fare i lor inganni.
Molti, anzi moltissimi, sono cortesi naturalmente ed hanno del nobile, senza insolenza né viltà, e non fanno come quegli altri scrocconi che vanno per l'osterie misurando le spade a' forastieri e, trovandole più lunghe quant'è largo un pelo di quel che porta lo statuto, distruggono quei che le portano.
Infin, non tutti così facilmente com'hanno preso sciolgiono e lascian andare ma sono avvocati e giudici come lor piace.
BERGANZA Il mio padrone aveva più alta la mira ed aspirava ad altro, perché se l'allacciava di valente e bravo e di far presure famose, sostentando la sua bravura, senza pericolo della sua persona, a spese della propria borsa.
Un giorno, egli solo assaltò alla porta di Scerès sei famosi ruffiani, senza ch'io potessi soccorerlo in nessuna maniera, perché io aveva le fauci prese ed intricate con una museruola di corda ch'egli mi metteva di giorno e me la levava di notte.
Rimasi stupito di veder quel suo ardire e risoluzione, perch'ei passava per mezo alle sei spade di quelli ruffiani come se solamente fossero vimini.
Era cosa di stupore il vedere con che destrezza gli assaltava, le stoccate che lor menava, il giudizio col quale si riparava dalle loro, avendo sempre l'occhio all'erta, acciò non gli dessero alle spalle.
Finalmente, egli restò nella mia opinione, e di quanti lo viddero allora e seppero di quel combattimento, per un altro Rodomonte, avendo fatto ritornare indietro i suoi contrari della porta di Scerès insin a' marmi del collegio di mastro Rodrigo, che sono più di cento passi, ove, lasciatili rinchiusi, ritornossene a raccorre i trofei della vittoria che furono tre foderi che subito egli portò all'assistente ch'era allora, s'io ben mi ricordo, il dottore Sarmiento da Vagliadarès.
Guardavan il mio padrone per le strade dove passava, mostrandolo al dito, come se volessero dire:
"È quello là il valent'uomo ch'ebbe l'ardire di assaltare e combatter lui solo col fiore dei bravi d'Andalogia".
Il resto di quel giorno si passò in andar a spasso per la città, acciò di essere veduti sin alla notte, la qual ci sopragionse in Triana in una strada vicino al mulino dalla polvere,
ov'il mio padrone, avendo balcato attorno, com'in compagnone si dice, se qualcheduno lo vedesse, entrò in una casa, ed io dietro a lui, e trovammo in quel cortile tutti i giganti della battaglia, tutto sbottonati, senza spada né cappa,
ed uno di quelli, che doveva essere il padrone di casa, teneva in una mano un gran boccal di vino e nell'altra una coppa da taverna, non manco grande, la qual ripiena di vino generoso faceva brindis a tutta quella compagnia.
Appena ebbero veduto il mio padrone che da lui andarono tutti con le braccia aperte e gli fecer un brindis ed egli a tutti fece ragione ed ancora l'avesse fatta ad altretanti, se ci fosse stato invitato, perch'era d'affabile condizione e che non voleva dar disgusto ad alcuno per poca cosa.
Il volerti raccontare adesso quello ch'ivi allora si passò, la cena loro, i combattimenti de' quali ragionarono, i ladronecci che si riferirono, le dame della cui conversazione si vantarono e quelle che furono sprezzate,
le lodi che si diedero l'un l'altro, i bravi assenti che nominarono, la destrezza delle lor astuzie ch'essi espressero coi moti del corpo, levandosi a mezza cena e schermendo colle mani per rappresentare le lor passate azioni, ed i vocaboli tanto isquisiti ch'usarono,
e finalmente la persona et il garbo dell'ospite patron di casa, a cui tutti gli altri avevano rispetto come al lor padrone o padre, sarebbe mettermi in un intricato laberinto, del quale non potrei uscire quando ch'io vorrei.
Indi conobbi che 'l padrone di casa, chiamato il Monipodio, era un ricuopritore di ladri e refugio di ruffiani e che la gran pugna del mio padrone era stata primieramente concertata tra d'essi con le circonstanze del ritirarsi e lasciare i foderi delle loro spade, i quali egli pagò allora, con tutto quello che 'l Monipodio disse avere costato la cena che durò quasi sin all'alba del giorno, con gran gusto di tutti.
E fu il fine d'essa, o la sua frutta, sbianchir al mio padrone un ruffiano forastiere, il quale, nuovo e fiammante, era arrivato allora in quella terra e, perch'egli doveva essere più valente d'essi, d'invidia lo sbianchirono.
Nella seguente notte, il mio padron lo prese ignudo in letto, perché s'ei fosse stato vestito aveva ciera di non lasciarsi prendere così facilmente.
Quella presura, succedendo dopo la pugna mentovata, accrebbe fama di valente al mio padrone che tuttavia era codardo e poltrone più che non l'è un lepre;
ma a forza di collazioni e merende si manteneva quel gran nome e quanto nel suo uffizio poteva guadagnare ed unciare con le sue intelligenze, tutto passava via per il canale di quel finto valore.
Ma abbi pazienza e senti quello che a lui succedette.
Due ladroni rubbarono in Antechera un molto buon cavallo che condussero a Siviglia e per venderlo senza pericolo usaron un inganno, od una invenzione, la qual al parer mio non è manco discreta che ingegnosa.
Andarono ad alloggiare ciascuno separatamente in una osteria.
L'uno venne a presentare una supplica in giustizia e domandava che Pietro di Losada gli dovesse pagare quattrocento reali che gli aveva prestati, come constava per cedola sottoscritta di suo pugno, la qual ei esibiva.
Il giudice ordinò che 'l Losada riconoscesse la cedola e poi, riconosciuta, fosse fatta esecuzione sopra i suoi beni o contra la sua persona mettendolo prigione.
Ebbe il notaio e 'l mio padrone a fare quella diligenza.
Gli condusse il ladrone a casa del Losada, il qual liberamente riconobbe la sua mano e confessò il debito e lor diede in pegno il suo cavallo,
il quale mio padrone, subito che l'ebbe veduto, marcò per suo, se per sorte fosse venduto.
Il termine passato fu esposto il cavallo in vendita e liberato per cinquecento reali, a terza persona supposta dal mio padrone acciò che glielo comperasse.
Valeva il cavallo la metà più di quello ch'era stato venduto.
Ma, come il profitto del venditore stava nella brevità della vendita, al primo offerente fu dato il cavallo.
Ricevé uno delli ladroni quelli denari, che non gli eran dovuti, e l'altro la ricevuta, di che non aveva bisogno, ed il mio padrone ebbe il cavallo, il quale gli fu più infausto e dannoso di quello di Seiano a' suoi padroni.
Ben presto i ladroni mutaron luogo e di lì a due giorni, avendo il mio padrone cambiato al cavallo i fornimenti, comparve sopra quello nella piazza di San Francesco, più intonato e pomposo d'un contadino ch'è vestito da festa.
Rallegraronsi con lui di quella buona compera, assicurandolo che il cavallo valeva centocinquanta ducati, come un uovo un maravedì;
et egli, voltando e rivoltando il cavallo, rappresentava la sua tragedia, come in teatro, sopra di quella piazza;
e mentre faceva i suoi volteggiamenti arrivaron due uomini d'assai buona presenza e ben vestiti, l'uno de' quali disse:
"Oh! Ecco qui Piediferro mio cavallo che poco fa mi fu rubbato in Antechera". Quei che venivano con esso lui, ch'erano quattro servitori, dissero ch'era vero quell'esser Piediferro, il cavallo che gli avevan rubbato.
Si stupì il mio padrone, quel del cavallo fece le sue prove e tanto buone ch'ebbe sentenza in suo favore e riebbe il cavallo.
Fu scoperta la burla e l'astuzia delli ladroni, i quali per le mani della medesima giustizia vendettero ciò ch'avevan rubbato; e quasi tutti si rallegrarono che 'l soperchio del mio padrone avesse rotto il coperchio.
E quivi non si fermò la sua disgrazia, perché quella medesima notte, essend'andato l'assistente a far la ronda, sopra l'avviso che gli era stato dato che verso le contrade di San Giovanni andavan in volta ladroni, al traversare per una incrociata viddero passare un uomo correndo forte
e l'assistente allora pigliandomi per il collaro m'aissava, dicendo:
"Al ladrone, Sparviere, al ladrone".
Io, che non poteva più vedere le sceleraggini del mio sbirro, per far senza mancar d'un punto ciò che mi comandava il sig. assistente, avventaimi addosso al mio proprio padrone, con tanta furia che il feci cader in terra
e, se d'innanzi non me l'avessino levato, averei fatte le vendette di più di quattro
e così mi staccarono con gran disgusto d'ambe noi dui.
Gli altri sbirretti volsero gastigarmi ed ammazzarmi a bastonate; ma l'assistente proibì che nessun mi toccasse, perch'io non aveva fatto se non quel tanto ch'egli m'aveva comandato.
Per quella via fu scoperta la malizia ed io senza licenziarmi da alcuno me ne uscii alla campagna per un buco della muraglia; e prima che spuntasse il giorno gionsi a Mairena, luogo distante sedici migli da Siviglia.
Volse la mia buona sorte che ivi trovai una man di soldati, i quali, per quel mi fu detto, andavano ad imbarcarsi a Cartagena.
Eran in quella compagnia quattro ruffianacci, amici del mio padrone, ed era un di quelli il tamburino, già garzone di sbirro e grandissimo chiaccierone, como sogliono essere la maggior parte de' tamburini.
Fui conosciuto da tutti loro e tutti parlarono a me con domandarmi del mio padrone, come s'io fossi stato capace di rispondere.
Ma quello che mostrò avermi più affezzione si fu il tamburino, per il che mi risolsi accomodarmi seco, s'egli volesse, e seguitarlo per quel giorno, benché dovesse menarmi in Italia od in Fiandra, però che parmi, ed ancor a te deve parer lo stesso, che quantunque il proverbio dica che chi è matto o sciocco nel suo paese è matto o sciocco in tutti gli altri ma, tuttavia, il caminar pel mondo e praticare con diverse persone e nazioni reca l'esperienza di molte cose e fa gli uomini discreti.
SCIPIONE È tanto vero quello ch'io mi ricordo aver udito dire ad un mio padrone di buon ingegno che 'l nome di prudente fu dato a quel famoso greco Ulisse solamente perché aveva caminato il mondo e comunicato con diversi popoli,
e così lodo la tua intenzione d'andare dove ti voleva menare.
BERGANZA Ora, quel tamburiniere, per mostrar meglio le sue buffonerie, cominciò ad insegnarmi a ballare al suono del tamburino ed a far altri giuochi, molto lontano dall'esser apparati da nessun altro cane, sì come potrai intendere quando te gli avrò racconti.
Noi marciavamo lentamente, perch'eravamo verso 'l fine di quel distretto e non vi era commissario che n'affrettasse;
il capitano era giovine, buon gentiluomo e gran cristiano; erano pochi mesi che dalla corte l'alfiere si era partito e l'aveva lasciata ed il tinello;
il sargente era trincato, sagace e gran guida di compagnie da dove si levano insin all'imbarco.
La compagnia era piena di ruffiani che usavan insolenze ne' luoghi ove passavano, le quali poi facevan maledire chi non n'aveva colpa.
Grand'infelicità è al buon principe l'essere incolpato dai suoi sudditi pel mancamento d'essi, a causa che gli uni sono carnefici degli altri e non è colpa del signore, poiché non può rimediarvi, ancorché voglia e lo procuri, perché la guerra quasi sempre porta con lei disordine e crudeltà.
Infine ed in manco di quindeci giorni, col mio buon ingegno e con la diligenza di quello ch'io m'era eletto per padrone, seppi saltare pel re di Francia e non saltare per la cattiva albergatrice.
E m'insegnò a far corbette, come fa un cavallo napolitano, ed andare in giro come mula che gira un mulino, con altre cose le quali, s'io non mi fossi astenuto in farle vedere, avrebbe dubitato il mondo ch'io non fossi qualche demonio che le facesse sotto la figura d'un cane.
M'impose nome il "cane savio";
e non sì presto eravam arrivati allo alloggiamento ch'egli andava per tutto attorno il luogo suonando il suo tamburino e facendo intendere a tutte le persone che volessin venire a veder le destrezze meravigliose del cane savio, si mostravano in tal casa a quattro od otto maravedì secondo la grandezza o picciolezza del luogo.
Con quest'anonzio non era nessun nel villagio che non venisse a vedermi e nessuno che non ne ritornasse contento e sodisfatto.
Trionfava mio padrone con quel guadagno molto e ne sostentava sei compagni da re.
La cupidigia e l'invidia destò in quelli ruffiani la voglia di rubbarmi e lor faceva cercar occasione di eseguirla, perché la brama del guadagnarsi la vita non lavorando fa venir gola a molti.
Et è per questo ch'in Ispagna vi sono tanti bagatellieri che vanno mostrando figure o bagatelle, tanti che vendono strambotti e simili versi, che 'l loro capitale, benché lo vendessero tutto, non lor potrebbe per un giorno fare la spesa, ciò nonostante gl'uni e gl'altri stanno sempre nell'osteria; dal che comprendo che quella corrente delle loro imbriacchezze proceda d'altronde che dalli lor uffizi.
Tutta quella canaglia sono vagabondi inutili, spongie di vino e tignuole del pane.
SCIPIONE Basta, Berganza, non ritorniamo più al passato, seguita nel tuo discorso, perché la notte vassene via, non vorrei che il silenzio ne sopragiugnesse col sole.
BERGANZA Sta' dunque a sentire come facile cosa sia l'aggiugnere all'inventato.
Veggendo il mio padrone quanto perfettamente io sapeva imitare il corsiere di Napoli, mi feci fare un capparassone ed una picciola sella di corame indorato, ch'egli mi pose sulla schiena, ed in quella una leggiera figurina d'uomo con la sua lancia.
Poi m'ammaestrò nel correre diritto e metter dentro ad un anello ch'ei appicava tra due bastoni.
Et il giorno ch'io dovea correrlo faceva grida che quel giorno il cane savio correva all'anello e farebbe altre nuove e non mai più vedute galanterie, le quali di mia testa io faceva per non far parere bugiardo il mio padrone.
Così giongemmo a Montiglia, terra del famoso marchese di Pliego, signore della casa d'Aguilar.
Alloggiarono il mio padrone nell'ospedale, perché il domandò; ed avendo fatta l'ordinaria grida e che s'era sparsa la fama delle destrezze del cane savio, in manco d'un'ora tutto il cortile fu ripieno di gente.
Rallegrossi il mio padrone, veggendo che la ricolta sarebbe abbondante, ed in quel giorno si mostrò più che mai gran ciarlatano.
Il primo giuoco ch'io cominciava era saltare per dentro un cerchio di setaccio, come s'egli stato fosse di una botte.
Scongiuravami con le sue ordinarie parole e, quando ch'egli abbassava una bachetta ch'avea in mano, era segno del salto; e quando la teneva alta io stava fermo.
Il primo scongiuro di quel giorno, memorando fra tutti gli altri della vita mia, fu dirmi:
"Su, Sparviere, salta per quel vecchio verde, o che par giovine, che tu conosci, che si tigneva nera la barba;
o, se non vuoi, salta per la pompa e spampanata di Pimpinella di Paflagonia che fu compagna della giovine galiziana che serviva in Valdeastiglias.
Non vuoi saltare, Sparaviere?
Salta dunque pel bacelliere Passiglia, il quale si sottoscrive dottore e non ha nessun grado.
O tu sei poltrone o pigro, perché non salti.
Orsù, t'intendo e capisco le tue furbarie, salta pel buon vino di Schivia, famoso al par di quello di San Martino e di Rivadavia".
Allora egli abbassò la bachettina ed io saltai e notai la sua malizia. Poi subito voltossi agli astanti e ad alta voce disse:
"Vi pare, grave senato, esser cosa da niente e da burla ciò che sa questo cane?
Ventiquattro destrezze gli ho insegnate, per la minima delle quali volerebbe uno sparviere; voglio dire ch'ella meriterebbe che per venire a vederla si caminasse più di cento miglia.
Ei sa ballare la zarabanda e la ciaccona meglio di quella che ne fu l'inventrice.
Beve un boccale di vino senza lasciarvi goccia ed intona un sol fa mi re così ben com'un musico.
Tutte queste cose, ed altre molte che tralascio a dire, le signorie vostre potran vederle mentre per questi pochi giorni si fermerà in questo luogo la nostra compagnia;
e per adesso un altro salto del nostro savio e poi entreremo nel grosso".
Con dire quelle sue frappe sospese tutto quell'auditorio, ch'avea chiamato senato, e lor accese il desiderio di veder ciò ch'io sapeva fare.
E poi, voltatosi verso di me, così mi disse:
"Torna, Sparaviere, e con gentil destrezza e leggierezza disfa quei salti che tu hai fatti
ma con questa condizione, che siano per quella famosa stregona che dicono stare in questo luogo".
Appena ebbe detto che una vecchia, per quel pareva, di più di settantacinque anni, ch'era la spedalinga, disse:
"Vigliacco, ciarlatano, ingannatore e figliuol di puttana, qui non è alcuna stregona;
se tu il dici per la Camaccia, già ha pagato il suo peccato e sa Iddio che cosa sia della sua pelle.
Se per me tu il dici, buffone, io non sono né mai sono stata stregona; e s'ho avuto fama d'esserlo stata, mercé a voi, a' testimoni falsi ed al giudice temerario e male informato e che s'è regolato alla legge del suo capriccio.
Di già sa tutto il mondo la vita ch'io meno in penitenza non per fatuccherie, perché mai le ho fatte, ma per altri molti peccati che come peccatrice io commisi.
Però, mascalzone tamburino, va' fuora di questo spedale, se non per vita mia te ne farò uscire più presto che di passo";
con questo ella si mise a dare tante grida ed a dir tante e tante frettolose ingiurie al mio padrone che lo fece restare scompigliato e confuso, non permettendogli che più innanzi passassino ne' nostri giuochi in modo alcuno.
Poco dispiacque al mio padrone quella bravata, perché già aveva i soldi, ed invitò, per fornire ad altro giorno, ed in altro spedale, l'incominciato spasso. Indi partironsi gli spettatori maledicendo quella vecchia ed aggiongendo al nome di strega quello di barbuta.
Nondimeno, restammo nell'ospedale quella notte ed incontrandosi la vecchia in me solo nella corte mi disse:
"Sei tu Montiello, figliuolo mio? Sei tu per avventura Montiello?"
Alzai la testa e guardaila attentamente; ed ella venne da me con le lagrime agli occhi e mi pose le braccia al collo e, se non le gli avessi impedito, m'avesse baciato in bocca ma mi venne a stomaccagine e non lo volli acconsentire.
SCIPIONE Facesti bene, perché non è gusto, anzi è tormento, il baciare o lasciarsi baciare da una vecchia.
BERGANZA Questo ch'adesso voglio raccontarti io doveva avertelo detto al principio del mio conto e così avessimo avuto manco d'ammirazione di vederne parlare.
Devi dunque sapere che la vecchia mi disse:
"Caro figliuolo Montiello, seguitami ed imparerai la mia stanza, acciò tu procuri di venir solo a visitarmici questa notte, ch'io lascierò aperta la porta e ti dirò molte cose della tua vita pel tuo profitto".
Chinai la testa per segno di ubbidienza, il che la fece certa affatto ch'io era quel cane Montiello ch'ella cercava, come poi la mi disse.
Rimasi atonito e confuso aspettando la notte, per vedere che fine avrebbe quel misterio o prodigio d'aver la vecchia parlato meco;
e sì come io l'aveva sentito nominare strega, sperava dalla sua vista e dal suo discorso cose grandi.
Infine, venne l'ora di vedermi con lei in camera sua, ch'era scura, stretta e bassa ed era alluminata con solamente il poco lume d'una lucerna di creta.
Posesi a seder la vecchia sopra una cassetta, poi me se le fe' accostare e senza dir parola tornò ad abbracciarmi ed io a stare in cervello acciò non mi baciasse.
La prima cosa ch'ella ebbe a dirmi si fu:
"Io sperava dal cielo questa grazia, che innanzi che questi occhi miei dall'ultimo sonno fossin serrati di poter rivederti, figliuolo mio;
e poiché t'ho veduto venga la morte quando la voglia e mi levi di questa penosa vita.
Hai da saper, figliuolo, che in questa terra abitava la più famosa strega che mai ebbe il mondo e si chiamava la Camaccia da Montiglia.
Ella fu sì unica nell'arte sua che l'Erittoni, le Circi, le Medee, delle quali ho sentito dire esser ripiene le istorie, non l'agguagliarono.
Ella congelava le nubi quando voleva e con quelle cuopriva ed oscurava la luminosa faccia del sole;
e quando le veniva in fantasia ritornava seren il cielo per turbato ch'egli si fosse.
Trasportava gli uomini in un istante da parti rimotissime e rimediava meravigliosamente alle donzelle ch'avevano perduta la loro virginità.
Cuopriva di modo tale le vedove ch'esse potevano onestamente essere disoneste; maritava quelle ch'a lei piaceva e smaritava le maritate.
Di dicembre aveva rose fresche nel suo giardino e di gennaio mietiva fromento. Questo del fare nascer nastruzi in un vassoio, o spartura, era il manco ch'ella facesse e far vedere i vivi ed i morti che se le domandava dentro all'ugna d'un fanciullo od in uno specchio;
ebbe fama di trasmutare gli uomini in bruti e d'essersi servita per sei anni d'un uomo in forma d'asino real e vero. Il che come si possa fare mai comprendere ho potuto, ,
perché i dotti dicono che quello che si dice di quell'antiche maghe, che trasformavano gli uomini in bestie, altro non era che gl'incanti della lor molta bellezza e de' suoi allettamenti, coi quali attraevano gli uomini ad amarle e se ne servivano di modo che parevano bestie.
Ma in te, figlio mio, l'esperienza mostra il contrario, perché so che sei persona ragionevole, ancorché sotto la figura d'un cane.
Se non sia che ciò si faccia col mezo di quella scienza chiamata tropelia che fa apparire una cosa per altra.
Or sia pur come si voglia, quello che mi dispiace si è che la tua madre ed io, che fummo discepole della buona Camaccia, non potemmo arrivare a saper tanto quanto ella sapeva, non per mancamento d'ingegno e di giudizio, perché n'avevamo d'avanzo, ma per la sua troppa malizia che mai volle ch'essa ne insegnasse le cose di maggior importanza che per lei sola riservava, acciò che sempre nella nostr'arte le fossimo inferiori.
La tua madre, figliuolo caro, era chiamata la Monticella, la quale, dopo la Camaccia, fu delle più famose.
Io mi chiamo la Cagnizara, se non così esperta com'esse, almen di disegni non manco buoni.
È vero che nell'animo che aveva la tua madre nel far entrare in un cerchio una legione di demoni e rinchiudervisi con loro non cedeva un punto all'istessa Camaccia.
In quanto a me, sempr'io sono stata un pochettino più timida e mi bastava scongiurar solamente quelli della mezzana regione.
Ma, questo sia detto col rispetto che debbo alla memoria d'ambedue, in quello del comporre e far gli unguenti co' quali ci ongevamo non la cederei mica a nessuna di esse, manco a quante oggidì guardano le regole nostre.
Perché, figliuolo, hai da sapere che, come ho veduto e veggo che 'l tempo se ne porta via sopra l'ale sue leggiere la vita mia, ho voluto lasciare tutti quei vizi della magia, ne' quali da parecchi anni sono stata immersa, ed adesso mi basta ch'io sia restata con solamente la curiosità d'essere strega, vizio difficilissimo di poterlo lasciare.
Il simile ch'ho fatto fece la tua madre, perch'ella si distolse da molti vizi ed assai opere buone fece in questa vita;
però infine la morì strega, non d'altra infirmità che da dolore quand'ella seppe che la Camaccia sua maestra, o da invidia, perché non sapeva manco di lei, o per altra non so che gelosia, che mai potetti saperne altro, era stata l'allevatrice del suo parto e le mostrò ch'aveva partorito due cagnoletti.
Non così tosto gli ebbe ricevuti ch'ella prese a dire:
Qui è furfanteria, qui è vigliaccheria;
però, sorella Monticella, ti son amica e questo tuo parto terrò coperto e secreto; e pensa a risanare e fai conto che la tua disgrazia per sempre mai starà sepolta nel medesmo silenzio.
Tu sai ch'io posso sapere se d'altra parte che da Rodrigo, il facchino tuo amico, ch'un pezzo fa che non tratti con altro, questo parto canino ti sia succeduto o, se da altro, egli contiene qualche misterio.
Io che mi trovai presente a quello strano caso rimasi con grande stupore. Se n'andò via la Camaccia, portando seco i cagnolini, ed io, per assistere e servir la tua madre, restai con essa che non manco di me poteva credere ciò ch'ella veduto aveva.
Gionse il fine della Camaccia e, venuta l'ultima ora della sua vita, chiamò la tua madre e le disse qualmente i suoi figliuoli ella avea trasmutati in cani, per un certo disgusto ch'essa con lei teneva,
però non se ne desse pena, perch'essi tornerebbono nel pristino essere loro quando che meno se lo pensassino, ma quello non potrebbe prima succedere ch'eglino coi propri occhi non vedessero adempita questa indovinazione:
Ritorneranno nella lor prima e vera forma, quando vedranno con presta diligenza e da potente mano abbassare gl'innalzati superbi ed innalzare gl'umili abbassati.
Stando la Camaccia, come t'ho detto, sul punto del morire questo disse a tua madre, che lo mise in iscritto, ed io me lo tenni nella memoria, per poter dirlo a qualcun di voialtri a suo tempo.
E perché io possa conoscervi chiamo tutti li cani che veggio del tuo colore per il nome della tua madre.
Non per pensare ch'essi sappiano il lor nome ma per vedere se rispondessero, essendo chiamati con nome sì differente da quello degli altri cani.
E questa sera veggendo io che tu facevi tante cose e sentito nominar il cane savio e veggendo ancora che alzavi la testa e mi guardasti quando ti chiamai nella corte, da quell'ora credetti che tu eri figliuolo della Montiella.
Per il che ho grandissimo gusto di darti conoscenza dell'esser tuo e del modo col quale devi ricoverare la tua prima forma, ch'io desidero esserti così facile come lo fu all'Asino dorato di Apuleo che consisteva solamente nel mangiar una rosa.
Tuttavia il tuo dall'altrui opere dipende e non da diligenza.
Quello che debbi fare, figliuolo mio, si è far animo e sperare che quest'indovinazione abbia da succedere presto, poiché la buona Camaccia la disse; e tu, col tuo fratello, s'egli sia vivo, la vederete adempita come desiderate.
Ciò ch'a me pesa è che il mio fine tanto si avvicina che da poter vedervi cotanto bene non avrò tempo.
Per molte volte ho voluto domandare al mio becco che fine debba avere il vostro successo;
ma ho mutato il parere, perché a ciò di che addimandiamo mai risponde a dritto, anzi storto e con risposte di doppio senso,
a tal che non abbiamo a domandargli niente, perché con una verità mescola sempre mille bugie.
E per quant'ho potuto comprendere delle sue risposte egli non sa dell'avvenire che per le congietture;
con tutto questo ne tiene tanto incantate che, quantunque ci faccia mille burle, non possiamo lasciarlo.
Andiamo a vederlo in un gran campo di qui molto lontano, nel qual ci raguniamo infinità di gente, stregoni e streghe, ed ivi ne dà da mangiare, ma cibi che non hanno di alcun sapore, e con noi fa dell'altre cose ch'in verità, e sopra dell'anima mia, non ho fronte da dirle, tanto son brutte e nefande, e non voglio con quelle offendere le tue caste orecchie.
Alcuni hanno questa openione, che non andiamo a quelle radunanze ed a quelli banchetti che con solo la fantasia, nella qual il demonio ci rappresenta l'imagini di tutte quelle cose che poi diciamo aver vedute.
Altri dicono ch'andiamo realmente in corpo ed anima;
io per me ho per verissime queste due openioni,
ancorché non sappiamo certo in che modo si faccia questo nostro trasportamento, perché le cose che passano per la nostra imaginazione, o fantasia, sono tanto intense ch'è difficile cosa di poter discernerle da quelle che son vere.
Alcune isperienze ne hanno fatte gl'inquisitori con alcune di noi che hanno prese; e credo ch'abbiano trovato vero ciò ch'io dico.
Vorrei, figliuolo mio, potermi liberare da sì grave peccato; e per conseguir tanta grazia faccio le mie diligenze in questo ospedale, ove mi son ridotta a servire per carità i pover'ammalati, e vi sono di quelli che quando muoiono a me danno la vita, con quello che mi lasciano per lassito di testamento o ch'io trovo cucito sotto alle rappezzature delli loro vestiti, i quali io cerco per tutto con molta diligenza.
Dico poche orazioni, ed in publico, e murmuro assai ma in secreto.
Le apparenze delle buon'opere mie presenti vanno scancellando nella memoria di quei che mi conoscono le cattive opere mie passate.
Infine, la finta santità non fa danno se non a colui che la finge.
Guarda, figliuolo Montiello, questo consiglio voglio darti: che sii buono quanto potrai e, s'hai da essere cattivo, procura di non parer tale.
Io son maliarda, non te lo niego, e l'è stata la tua madre ed anche incantatrice; ma la buon'apparenza d'ambe noi due poteva acquistarsi del credito per tutto 'l mondo.
Tre giorni avanti ch'ella morisse, eravamo state insieme in una valle de' monti Pirenei, ad uno gran banchetto delle nostr'adunanza e, nonostante ciò, quando essa moriva fu con tanta quiete e riposato animo che, se non fossero stati certi visacci e gesti che spaventosamente ella fece per un quarto di ora innanzi che spirasse, averebbe paruto ch'ella fosse in un letto fatto di rose, senza dolore.
Le trafiggeva il cuore la ricordanza delli suoi due figliuoli e mai volse, neanche nell'articolo della morte, perdonare alla Camaccia, tant'era intiera e stava dura nella sue risoluzioni;
le chiusi gli occhi e sino alla sepoltura l'accompagnai ed ivi la lasciai per sempre, bench'io non abbia ancora perduta la speranza di rivederla innanzi che mi muoia.
Perché s'è detto per questo luogo ch'ella sia stata veduta ne' cimiteri e sopra l'incrociate delle strade sotto varie forme; e potrà essere che qualche volta io venga ad incontrarmi con essa lei e le domanderò s'ella voglia ch'io faccia alcuna cosa per alligerimento della sua coscienza".
Ciascuna parola di quelle che la vecchia mi diceva in lode di quella ch'ella si pensava essere mia madre era una lanciata che mi passava il cuore e mancò poco ch'io non me le avventassi addosso e coi denti la sbranassi; e perché non lo feci fu acciò che la morte non la pigliasse in quel cattivo stato.
Finalmente ella mi disse che quella notte pensava ongersi per andar a qualcuno de' soliti congressi loro e banchetti, e che, quando colà sarebbe, pensava domandare al suo padrone di ciò che fosse per succedermi.
Volli saper da lei che unguenti od onzioni fossero quelle de' quai diceva ma parve ch'ella conoscesse il mio desiderio, poiché rispose a quello come se con parole io gliel'avessi espresso e disse:
"L'unguento con che ci ungiamo noialtre streghe il componiamo con succhi d'erbe estremamente frigide e non, come si crede il volgo, col sangue de' fanciulli che soffochiamo.
Qui mi potresti ancora domandare qual gusto o profitto possa cavare il demonio dal fare ch'ammazziamo quelle tenere creature, poich'egli sa ch'essendo battezzate ed innocenti senza peccato vanno dritto al cielo e ch'ei sente particolare pena per ciascun'anima cristiana che se gli scappa.
A ciò non ti saprei rispondere se non quel che dice il proverbio, che vi è tale che si cava i due occhi, perché 'l nemico ne perda uno,
e che sia pel gran dolore ch'egli fa sentir ai padri, facend'uccidere i lor cari figliuoli, ch'è il maggiore che si possa imaginare, non che sentire.
E quello che più gl'importa si è che commettiamo a ciascun passo quel sì crudele e nefando peccato.
Or tutto questo lo permette Iddio per i nostri peccati, perch'ho veduto per esperienza che senza sua permissione non può il diavolo offendere neanche una formica.
E questo è vero, però che una volta, avendolo io pregato che tempestasse e rovinasse una vigna d'uno mio nemico, mi rispose che solamente una foglia non vi poteva toccare, perché Iddio non glielo permetteva.
Per questo potrai intendere, quando che sarai uomo, che tutte le disgrazie che vengono a' regni, a' popoli ed alle città ed anch'alle persone particolari, le repentine morti, li naufragi e le cadute ed insomma tutti li danni vengono dalla mano e permissione di Dio.
Et i mali che sono chiamati di colpa vengono e sono cagionati da noi stessi.
Iddio non può peccare, da questo segue che noi siamo gli autori del peccato, formandolo nella nostra intenzione, nelle parole e nelle opere.
Ora tu dirai, figlio mio, se pur m'intendi, chi m'abbia fatta in questo dotta e forse ancora dirai fra di te stesso: Corpo di Bacco! Perché non lascia la puttana vecchia l'essere strega, perché sa tanto e non ritorna da Dio, poiché ancora ella sa ch'egli è più pronto a perdonare i peccati che a permettergli?
A questo io rispondo, come se domandato tu me l'avessi, che 'l costume del vizio si muta in natura, e quello dell'essere strega in sangue e carne, e perché quello è peccato di carne e dilettazione ne nasce un freddo dal mezzo il suo maggior ardore ch'agghiaccia i sensi e gl'istupidisce di modo che restan privi dei loro uffici; così, restando l'anima senza vigore, debole ed inutile, non ha facoltà d'innalzarsi alla considerazione di cosa buona; da che le viene ch'ella non si ricorda di sé medesima, né del gastigo che Iddio le minaccia, né ancor della beatitudine alla quale egli l'invita.
Una di queste anime che t'ho dipinte ho io. Il veggo pure e l'intendo; ma, sì come le dilettazioni la mia volontà tengon incatenata, sempre sono stata e sarò cattiva.
Però, lasciamo questo e ritorniamo a quello dell'unzioni; dico che sono sì frigide che ongendocene restiamo prive d'ogni sentimento e distese ignude in terra;
e dicono ch'allora facciamo con la fantasia ciò che pensiamo fare vera e realmente.
Et alle volte, avendo fornito di ongerci, ne pare che mutiamo di forma e che trasmutate in galli, guffi o corvi, andiamo dove il nostro padrone n'aspetta ed ivi ritorniamo nella prima nostra figura e godiamo quei gusti che tralascio a dirti, perché son tali che la memoria si scandaleza nel ricordargli e nel recitargli la lingua.
Ciò nonostante sono strega e cuopro l'enormità de' miei peccati col manto dell'ipocrisia.
È vero che se alcuni mi stimano avendomi per buona, e mi onorano, non mancano molt'altri che a manco due dita dell'orecchie mi dicono che un giudice adirato, il quale altre volte ebbe che vedere sopra di me e tua madre, depositando la sua giusta colora, perché non era subornato, nelle mani del boia ed usando di lui l'autorità, la fece stampare sopra le nostre spalle.
Ma quello è già passato, sì come passano tutte le cose: la memoria si perde, la vita non ritorna, le lingue si straccano ed i nuovi successi fanno scordare i passati.
Spedalingua sono e do buon'apparenze del procedere mio e mi danno i miei unguenti qualch'intervallo di bel tempo.
Non sono tanto vecchia ch'io non abbia da vivere ancor un anno, benché, per averne settantacinque, io non possa digiunare, né dire la mia corona per le vertigini, né andar in pelegrinaggio, per debolezza delle mie gambe, né dar limosina, perché son poveretta, manco pensar in bene, perché mi diletto del far male e di dir male.
E per poterlo fare innanzi si ha da pensarlo; per questo i miei pensamenti sempre saran cattivi.
Con tutto ciò, so ch'Iddio è buono e misericordioso e ch'egli sa che cosa abbia da essere di me;
e tanto basti per finire questo discorso, il qual in verità m'attrista ed affligge.
Vieni, figliuolo, e tu mi vedrai ongere; tutti i mali con pan son buoni; mettiamo in casa il buon giorno, poiché mentre si ride non si piange.
Voglio dire che, quantunque i gusti che ci dà il demonio siano apparenti e falsi, tuttavia ne paiono piacevoli e grati e sono le dilettazioni molto maggiori nella imaginazione di quello siano nella realità e nell'effetto, benché ne' veri gusti debba essere il contrario".
Doppo sì lunga diceria la si fece in piedi e pigliando la lampada se n'entrò in un altro camerino più stretto;
seguitaila, combattuto da mille vari pensieri e molto meravigliato di quello ch'io le aveva udito dire e per ciò ch'io sperava di vedere.
La Cagnizara contra il muro appiccò la lucerna, spogliossi con fretta sino alla camiscia, prese in un cantone un alberello, mise la mano dentro e, mormorando fra' denti, unsesi dai piedi sin alla testa che senza scuffia stava scoperta.
Et innanzi ch'ella finisse di ongersi mi disse che, o stando il suo corpo senz'alcun sentimento in quella camera o ch'esso ne sparisse, non mi smarrissi punto né lasciassi di aspettarla infin alla mattina, perché mi porterebbe nuova di ciò che mi succederebbe insin ch'io tornassi ad esser uomo.
Il mio abbassar la testa fu un risponderle di così fare come voleva e con questo ella fornì la sua onzione e quasi morta stava distesa in terra;
accostai la mia bocca alla sua e non sentii che respirasse né poco né assai.
Voglio, amico Scipione, confessarti il vero ed è che ebbi gran paura dal vedermi rinchiuso in una cameretta cotanto stretta con quella figura davanti, la qual procurerò rappresentarti al meglio che potrò.
Era più lunga di sette piedi, tutto il corpo suo altro non era che una notomia d'ossa, coperta d'una pelle nera e pelosa e concia, con la panza, che pareva di aluta, eran coperte le parti vergognose ed anco gliene pendeva la mezza parte sulle coscie.
Rassomigliavan le mammelle due vessiche di vacca secche e grinzose; le labbra nere o livide, i denti stretti, il naso innarcato, gli occhi in fuora, i capegli scompigliati, le guancie magre e secche, la gola stretta ed affondato lo stomaco.
Insomma era tutt'arida ed indiavolata.
Stetti a guardarla attentamente ed il terrore di subito m'entrò nell'animo, considerando l'orrenda visione del suo corpo e dell'anima sua la peggior occupazione.
Volli morderla per vedere s'ella ritornerebbe in sé ma non vi trovai parte da affissar il dente che non fosse stomacosa.
Ciò nonostante, afferraila per un calcagno ed al cortile la strascinai; ma né per questo dette segno di sentimento.
Ivi, guardando il cielo e veggendomi in un luogo alquanto più aperto, mi lasciò il timore o per lo manco temperosi di modo tale che feci cuore per aspettare e vedere il fine ed in che si terminerebbe l'andata e tornata di quella mala femina e ciò che mi raccontarebbe de' miei successi.
In quel mentre io domandavo a me medesimo: chi ha mai fatta quella vecchia così sagace e cattiva?
Dove ha imparato chi siano mali di colpa e mali di pena?
Come sa tanto dir di Dio e tanto far del diavolo?
Come ha tanto di malizia, avendo poca ignoranza?
Stando io in queste considerazioni passò la notte e venne il giorno che ne trovò amendui nel mezzo di quel cortile, ella ancor distesa e non tornata in sé ed io presso a lei stando coccolone e guardando attentamente quel suo spaventoso volto.
Ivi accorsero quelli dell'ospedale e veggendo quel sì orrendo spettacolo dicevan l'un all'altro:
"Dunque è morta quella Cagnizara? Guardate come la penitenza l'ha sfigurata e deformata".
Alcuni più considerati le toccaron il polso e sentiron ch'esso batteva, da che pensarono ch'ella fosse andata in estasi.
Altri dicevano:
"Questa vecchia puttana senza dubbio è strega e deve essersi onta, perché i santi mai sono trasportati da rapimenti sì disonesti;
e sin adesso, fra di noi che la conosciamo, ha più fama di strega che di santa".
Et altri più curiosi le cacciarono spilli dentro le carni, dalla punta al pomoletto;
ma né per quello si svegliava la dormigliona né ritornò in sé che non fosse quella mattina già di due ore.
E quando ella si sentì pungere dalle spille, morduta da' miei denti ne' calcagni ed infranta dallo strascinare fuor di camera sua a vista di tanti occhi che la stavan guardando, credette, e credette il vero, che fosse stato io quello ch'era l'autore delle sue onte e della sua infamia.
Per il che, tutta forsennata s'avventò addosso a me e con ambe le mani alla gola si sforzava di strangolarmi, dicendo:
"Villan ingrato, ignorante malizioso, è questa la ricompensa che meritano i servizi e buon'uffizi ch'ho fatti alla tua madre e che anch'io pensava di far a te?"
Io, che in quel pericolo mi viddi di lasciare la vita tra l'ugna di sì fiera arpia, mi scossi ed acchiappandola per quelle lunghe pelli che le pendevano dal ventre la strascinai per tutto quel cortile. Ella gridava che la liberassero presto dalli denti di quel maligno spirito.
Le grida della falsa vecchia fecero credere a molti ch'io doveva esser qualche demonio di quei che tengono odio continovo alli buoni cristiani; gli uni vennero a gittarmi addosso dell'acqua santa, gli altri non ardivano accostarsi a levarmi la presa e gli altri gridavano ch'io fossi scongiurato.
La vecchia brontolava ed io strigneva i denti; cresceva la confusione ed il mio padrone, ch'era concorso al romore, si disperava, udendo dire ch'io era demonio.
Altri, che non sapevano di esorcismi, allora dettero de piglio a tre o quattro grossi bastoni, co' quali cominciarono ad iscongiurarmi la schiena.
Non mi piacque la burla, lasciai la vecchia e con tre salti mi posi sulla strada e con altri pochi di più alla campagna, seguitato da infinità di ragazzi che tutti gridavano: "A voi, a voi, il cane savio è arrabbiato";
gli altri dicevano: "Non è già rabbia ma è un diavolo sotto forma di cane".
Con quel pestarmi dunque a campana martello scampai dalla terra, seguitato da molti, i quali credevan per certo che altro io non fossi che un demonio, tanto per quello che m'aveano veduto fare, quanto per le parole che disse la vecchia, quando fu svegliata dal suo maladetto sono.
Presi a fuggire con tanta prestezza, ed a tormi dagli occhi loro, ch'ebbero da credere ch'io era sparito com'uno spirito maligno. In manco di sei ore ebbi andato quarantaotto miglia ed arrivai ad una compagnia di cingani vicino a Granata.
Ivi mi rifeci un poco, perché alcuni di quelli cingari mi riconobbero pel savio cane e con non poco d'allegrezza mi ricettarono e m'ascosero dentro una caverna, perch'io non fossi trovato, se qualcheduno venisse a cercarmi; ed era loro intenzione, com'io seppi poi, di guadagnare meco come faceva il tamburino mio padrone.
Per vinti giorni stetti con loro ed in quello spazio di tempo seppi e notai suoi costumi, i quali, perché sono notabili, bisogna che te li racconti.
SCIPIONE Innanzi che dichi più oltre, Berganza, starà bene che ci fermiamo sopra di ciò che ti disse la strega ed investighiamo se possa esser vero quello,
perché sarebbe gran pazzia il credere che la Camaccia mutasse gl'uomini in bestie e che quell'uomo in forma d'asino la servisse due anni, com'ella disse.
Tutte quelle e così fatte cose sono stravedimenti, illusioni e false apparenze del demonio. E se ne pare ch'adesso abbiamo qualche discorso di ragione, poiché parliamo essendo realmente cani, già abbiam detto essere caso portentoso, prodigioso e sin ad ora mai veduto. Et ancorché lo tocchiamo con mano, però crederlo non dobbiamo, mentre che 'l fine non ci mostra se 'l debba esser creduto.
Vuoi tu vederlo più chiaro?
Considera in quante cose vane ed in che punti senza fondamento disse la Camaccia che consisteva la nostra restaurazione;
e quello che ti par indovinazione altro non è che favola e frottole da vecchie, come quelle del cavallo senza testa o della verga delle virtù, con le quali si sta d'inverno trattenendosi presso al fuoco,
perché, se fosse cosa certa, sarebbe di già adempita, se non sia che le sue parole si debbano intendere in un senso che ho sentito chiamare alegoria, il qual non vuol significare quel che contien il litterale ma altra cosa che, ancorché differente, non è però contraria. Così dire:
Ritorneranno nella lor prima e vera forma, quando vedranno con presta diligenza e da potente mano abbassare gl'innalzati superbi ed innalzare gl'umili abbassati
pigliandolo in quel sentimento ch'ho detto, a me pare che voglia dire che ritorneremo nella nostra forma, quando vederemo che quelli ch'ieri stavano in cima alla ruota della fortuna oggi stan al di sotto calpestati ed abbassati e tenuti in poco da coloro che più gli stimarono,
e similmente quando vedremo degli altri, che solamente due ore fa non servivan in questo mondo se non di numero, esser adesso sì altamente innalzati che noi gli perdiamo di vista.
E se il ritornare nella nostra primiera forma consistesse in veder questo, già l'abbiamo veduto ed il veggiamo ad ogni passo;
da ciò comprendo che non in senso alegorico ma sì nel literale s'abbiano da intendere le parole od i versi della Camaccia né che manco in questo consista il nostro rimedio, poiché sì spesse volte l'abbiam veduto e tuttavia sempre siamo cani.
A tal che la Camaccia fu una falsa, la Cagnizara una ingannatrice e la Montiella una matta, maliziosa e gran vigliacca e sia detto questo con sopportazione, s'egli è vero ch'ella fu nostra madre, o pur la tua, perché in quant'a me non l'ho per tale.
Dico dunque che 'l vero senso delle sue parole è un giuoco di zoni o rulli, che vogliamo chiamarli, nel quale con presta diligenza si vede abbattere quelli che stanno dritti in piede ed alzar quelli che son caduti, e tutto quello da una mano che lo può fare.
Or guarda ora se nel corso de' nostri anni abbiam veduto giuocar a zoni e se perciò siamo ritornati uomini, se pure sia vero che 'l siamo stati.
BERGANZA Trovo che hai ragione, caro fratello, e che sei più discreto che non m'era pensato;
e da quello che hai detto considero e credo che tutto ciò che sino a quest'ora abbiam passato sia stato insogno e che non siamo altro che cani.
Ma però, non lasciamo di goder questo benefizio della favella che noi abbiamo e l'eccellenza del discorso umano quanto potremo;
e così non t'incresca udirmi raccontare quel che m'occorse co' cingari ch'io t'ho detto m'avevano ascoso nella caverna.
SCIPIONE Volentieri t'ascolterò, per obligarti ad ascoltarmi poi, se vorrà Dio che i successi della mia vita io ti possa raccontare.
BERGANZA Quella ch'io passai co' cingari fu nel considerare le malizie, le furbarie e tanti ladronecci ne' quali s'esercitano i cingari e cingare insino quasi dall'uscir dalle fascie e che cominciarono a saper caminare.
Non vedi tu in che gran moltitudine vanno sparsi per tutta Spagna?
Sappi che tutti si conoscon l'un l'altro e tramutano e trasportano i furti da questi a quelli e da quelli a questi.
Ubbidiscono meglio che al re ad uno che chiamano conte, al quale, ed a tutti coloro che gli succedono, dan il cognome di Maldonato,
non già perché discenda da quel nobile legnaggio ma perché un paggio d'un cavaliere di quel nome s'innamorò d'una cingara, la quale mai volse amarlo, se non con condizione che la sposasse e si facesse cingaro.
Così fece il paggio e diventò sì grato agli altri cingari ch'ebbero da crearlo per loro capo e gli giurarono ubbidienza;
dapoi, per segno di soggezione e vassallaggio, tutti gli presentano parte delle più importanti cose ch'eglino abbiano rubbate.
Per dar qualche colore all'ozio loro, s'occupano in far istromenti di ferro con che facilitano i loro ladronecci;
e così li vedrai sempre portar a vendere per le strade delle tenaglie, trivelli e martelli, e le lor donne trepiedi e palette di ferro.
Tutte le cingare sono allevatrici ed in quello uffizio avanzano le nostre donne, perché si vede che partoriscono senza niun aiuto; e le lor creature, subito nate, le lavano con acqua fredda.
Insino dalle fascie s'avezzano per sempre a sofferire l'inclemenza dell'aria et i rigori;
però tu vedi che tutti sono animosi, saltatori, corridori e ballatori.
Sempre infra di loro usano maritarsi, acciò i pessimi suoi costumi non vengano ad esser conosciuti da altra gente. Le donne guardan sempre la fede a' mariti e sono poche che gli offendino con altri che non siano della lor generazione.
Quando domandano l'elemosina, elle la cavano più con le loro invenzioni ciarlatane che con devozione e, perché nessuno se ne fida, elle non servono alcuno ma sono scioperate.
E poche, o nessuna volta, mai ho veduta, se bene mi ricordo, alcuna cingara al piede d'un altare comunicandosi, ancorché moltissime fiate io sia entrato nelle chiese.
I lor pensieri sono l'imaginarsi come e dove potran rubbare ed ingannare questo e quello.
Conferiscono insieme delli lor latrocini e del modo ch'usarono in eseguirli.
Così un giorno un cingaro raccontò in presenza mia ad altri suoi compagni un inganno ch'ei fece per rubbar ad un contadino; e fu in questo modo.
Aveva il cingaro un asino scodato ed in quel pochetto di coda che gli era restato senza peli attaccò, anzi innestò un'altra pur assai pelosa che pareva, più che si guardava, esser la sua naturale.
Lo condusse al mercato e per dieci ducati il vendé ad un contadino e, avutone li denari, gli disse che se volesse comprar un altro simile, e non men buono di quello che già era suo, glielo venderebbe per manco ed a miglior mercato.
Gli rispose il contadino ch'ei andasse per esso e che lo comprerebbe e che, fra tanto che tornasse, condurrebbe a casa sua il di già comperato.
Vassene il villano e, seguitandolo il cingaro, trovò l'astuzia di rubbargli quel medesimo asino che gli aveva venduto; ed in un istante gli spicca la coda posticcia,
gli scambia il basto e così lo presenta al contadino, il quale in poche parole se l'ebbe comperato, innanzi che accorto si fosse che quell'era il primo ch'egli aveva già pagato. Ma quando che per dar i denari fu tornato a casa, trovò mancargli la sua bestia, per esser lui stato più bestia. Con tutto ciò ebbe da sospettare, anzi da credere, che 'l cingaro gliel'avesse rubbato e però non voleva pagarglielo.
Allora il cingaro andò per testimoni e furon quelli a cui s'era pagato il dazio della vendita del primo asino, i quali facilmente giurarono che 'l cingaro avea venduto al contadino un asino con una coda molto lunga e molto differente da quel secondo.
A tutto ciò ancora si trovò presente uno sbirro che fe' la prova del cingaro sì chiara e certa che 'l bestione contadino altro non puoté fare se non pagare per la seconda volta il suo asino.
Raccontaron quei cingari molti altri suoi furti, tutti, o la più parte, d'ogni sorte di bestie, ne' quali, sopra gli altri, s'esercitano grandemente e sono destri.
Infin è mala gente quella canaglia; e benché molti giudici, non men severi che prudenti, abbiano procurato di migliorarla con castighi, mai ha voluto emendarsi.
In capo a venti giorni vollero condurmi a Murcia;
passammo per Granata, ove già era gionto il capitano di cui era il tamburino mio padrone.
Quando che 'l seppero i cingari, mi serrarono dentro una stanza dell'osteria ov'alloggiavano;
lor sentii dire per che fare ma non mi parve bene andar quel viaggio. Così determinai di scampare com'io feci et all'uscire di Granata entrai nell'orto d'un moresco, il qual volentieri con esso lui mi tenne e ci restai anco più volentieri, parendomi che altro non averei da fare che di guardare quel suo giardino, officio, al parer mio, d'assai manco fatica che 'l guardar gregge.
A tal che, non v'essendo meco difficoltà in quanto al salario, facile cosa fu a lui ritenersi un servidore a cui potesse comandare ed a me trovar un padrone a cui dovesse ubbidir e servirlo.
Per più d'un mese io stetti con lui, non per gusto ch'avessi nel passar quella vita ma per quel che mi dava il veder quella del mio padrone, ed in essa di tutti li moreschi di Spagna;
o Scipione, quante e quali cose potrei dirti di quella pessima canaglia, se non temessi che non potrei finir in due settimane! E se io volessi raccontarle a parte a parte, non averei finito in capo di due mesi.
Però lasciar non voglio di dirne qualche cosa, per che sta' a sentire in generale ciò ch'io viddi e notai in particolar in questa gente.
Fra tanti quanti sono, sarebbe meraviglia trovarne uno che schiettamente creda nella fede cristiana.
Tutti i lor pensieri sono voltati ad accumulare denari ed a guardarlo quando l'hanno accumulato; e per conseguir questo lavorano e quasi niente mangiano.
Venendo un reale nelle lor mani, pur che passi da semplice, lo condannano a prigione perpetua ed a oscurità eterna.
Di modo che, guadagnando sempre e mai spendendo, metton insieme la maggior quantità di soldi che sia in Ispagna.
Sono a sé stessi ghiandaie, gazzere, donnole e tignuole, perché accumulano sempre, tutto ascondono ed inghiottiscon tutto.
Considerisi ch'essi son in gran numero, guadagnano ed avanzano ogni giorno e ch'una febre lenta a poco a poco finisce la vita, come la finisce la violenta o le petecchie, e che, come vanno crescendo, crescono anche le loro facoltà quasi all'infinito, come si vede per esperienza.
Tra essi nessuna castità di voto, perché né uomini né donne mai entrano a monacarsi;
si maritano tutti, moltiplicano tutti, però che la sobrietà augumenta le cause della generazione.
La guerra non gli consuma né altro esercizio, o fatica, che li travagli oltramodo.
Ci rubban a piè fermo ed alla sorda e coi frutti delli nostri poderi, che ne rivendono, si fanno ricchi.
Non hanno servitori, perché tutti son servidori di lor medesimi, né spendono a fare studiare i suoi figliuoli perché altra scienza che quella del rubbarci non voglion imparare.
SCIPIONE S'è trovato rimedio a tutti i mali ch'hai accennati come in ombra, perché so bene che quelli che lasci a dire sono più grandi di quelli che hai detti e sino a quest'ora non s'è fatto in questo come si conveniva;
però la nostra republica ha uomini molto prudenti e che le sono affezionati, i quali consideranno che Spagna, nutrendo i moreschi, si tiene tante biscie in seno ed aiutati da Dio la purgheranno sicura e prestamente da quegli umori peccanti.
Seguita pur, Berganza.
BERGANZA Essendo il mio padrone un meschino, come l'eran ancora tutti di casa, altro pan non mi dava se non di miglio ed alcuni pochi avanzi di polenta, ordinario suo sostento.
Tuttavia, quella miseria m'aiutò a sostener il mio peso con un modo molto strano, come ora intenderai.
Ogni mattina all'apparire dell'aurora, veniva a sedere al piè d'un melagrano, di molti che quell'orto avea, un giovine, per quel pareva, scolare, vestito di rovescia, non tanto nera che non paresse esser di color bigio scuro né tanto cotonata che da frusta e spelata non mostrasse la corda.
Attento egli stava a scrivere in uno scartafaccio e di quando in quando si dava nella fronte delle palmate e mirando il cielo si mordeva le ugna;
poi alle volte stava sommerso in sì profonda imaginazione che non moveva né piè né mano, neanche le palpebre, tant'era il suo rapimento.
Una volta, essendomi accostato a lui, senza ch'egli se n'accorgesse, udii che susurrava qualche cosa fra' denti, poi di lì ad un pezzo dette una gran voce, così dicendo:
"Al corpo di me, che questa è la migliore ottava ch'io mai abbia fatta in giorno di mia vita".
Et affrettandosi di scriverla nel suo scartafaccio dava segno di gran contento; il che mi fece intendere che quel povero sgraziato era poeta.
Con fargli attorno le mie solite carezze, l'assicurai d'essere io mansueto, prosternaimi ai suoi piedi ed ei con questa sicurezza continovò i suoi pensieri, tornò a grattarsi la testa e ad iscrivere quel ch'aveva pensato.
Stando in questo, ecco entrare nel giardino un altro giovine, galante e ben vestito, con in mano certe scritture che talvolta egli leggeva, ed accostatosi a quell'altro gli disse:
"Avete ancora finita la primiera giornata od atto?"
"Or ora l'ho fornita rispose il poeta con quella maggior eleganza che imaginar si possa".
"In che maniera?" replicò il secondo.
"In questa rispose il primo:
se n'uscì sua eccellenza rivestita pomposamente, avendosi in compagnia dodeci tutti vestiti di pavonazzo, perché quando succedette la cosa che racconta la storia della mia comedia era in tempo di mutazione, nel quale quei signori non vestono il nero ma 'l pavonazzo,
e così in ogni modo, per guardar la proprietà, bisogna che questi miei compariscano vestiti di pavonazzo;
e questo è un punto essenziale della comedia e per non errare in quello, come con mill'impertinenze hanno fatto degli altri ad ogni passo, circa questo particolare ho letto tutto il comento".
"Ma di dove volete voi replicò l'altro che l'autor abbia quelli dodici abbiti di pavonazzo per i dodeci personaggi?"
"Se solamente ve ne mancasse uno rispose il poeta così egli averà la mia comedia com'io sono per volare.
O corpo del mondo! Sì bella e maestosa apparenza avrà da perdersi?
Insin d'adesso imaginatevi che bel comparir nel teatro un conte accompagnato da quei dodeci e da altri che necessariamente gli debbono accompagnare e far lor corte.
Cape! Egli sarà uno dei maggiori e più rilevati spettacoli che sia mai stato veduto in comedia".
Da ciò potetti comprendere a pieno che l'un era poeta, l'altro comediante.
Costui consigliò a colui di levare qualcuno di quelli dodici, se non volesse rendere impossibile quella comedia.
A che rispose il poeta: "Anzi dovereste ringraziarmi che non vi abbia messo tutta la sua famiglia che si trovò presente all'atto memorando della comedia che pretendo comporvi".
Ebbe da ridere il comediante ed il lasciò in quella sua occupazione, per attendere alla propria ch'era di studiare una nuova comedia che seco ei portava scritta.
Dopo che ebbe il poeta fatti alcuni versi della sua, con gran riposo e tranquillità, si cavò dalla tasca alcuni tozzi di pane e da venti grani di uva passa, perché mi pare che così li contai, benché non sia troppo certo s'erano tanti, perciò che v'eran mescolate alcune briciole di pane ch'egli soffiò ed appartò, e poi ad uno ad uno se gli mangiò col grappolo insieme, però che non gli viddi buttarne via niente, aiutandoli co' suoi tozzi di pane, i quali, per essere stati un pezzo con la borra della saccoccia, parevan muffi et erano sì duri che, quantunque procurasse intenerirli passandoli e ripassando molte volte per bocca, non fu possibile ch'egli potesse mai vincere quella lor durezza,
il che tornò al mio vantaggio, perché infine me gli gittò, dicendo:
"To', to', piglia e buon pro ti faccia".
"Vedete diceva io fra me stesso che nettare od ambrosia mi dà questo poeta, di quelle ch'essi dicono che i dei et il lor Apolline si cibano in cielo".
Infine, la miseria de' poeti, almanco per la maggior parte, è grande ma l'era più la mia necessità poich'ella m'obligò a mangiar quello ch'egli buttava via.
Mentre durò la composizione della comedia, non mancò di venire a quel giardino ed a me non mancarono i tozzi di pane, perché gli scompartiva meco con molta liberalità;
e subito andavamo al fonte, ov'io a boccone ed egli con un boccale ci cavavamo la sete da monarchi.
Ma il poeta venn'a mancarmi e tanta fame restò meco ch'io determinai di lasciar il morisco ed entrare nella città a cercare miglior ventura, perché la trova chi si muta.
All'entrar nella terra viddi che dal palaggio d'un signore usciva il mio poeta, il qual non m'ebbe sì tosto veduto ch'egli venne da me le braccia aperte; e similmente io andai da lui, con dimostrazione di nuova allegrezza per averlo trovato.
Allora egli cominciò a cavar fuora pezzi di pane più teneri di quelli che soleva portare al giardino ed a mettermegli in bocca, senza passarli per la sua, grazia e beneficio che con un nuovo gusto contentò la mia fame.
Quei teneri tozzi di pane ed il vederlo uscir da quel palazzo mi fece poco men che credere le sue muse, come quelle di molti altri, essere vergognose.
Inviossi verso la terra ed io il seguitai con risoluzione di farmelo padrone, s'egli volesse, imaginandomi che potrei sostentarmi co' suoi avanzi, perché non è miglior né maggior borsa di quella della carità, le cui liberali mani mai sono povere.
Per questo non mi quadra bene quel proverbio che dice: Più dà il duro che il nudo, come se 'l duro ed avaro desse qualcosa come la dà il liberale, ancorché nudo, il quale dà almeno la buona volontà, quando non può dar altra cosa.
A passo a passo noi andammo a casa d'un autor di comedie che si chiamava Angolo il Malo, figliuolo d'un altr'Angolo, non autor ma rappresentante, il miglior e più grazioso che allora avessero ed abbiano adesso le comedie.
Ragunossi tutta la compagnia, per sentir la comedia del mio padrone, che già per tale io l'aveva; et alla mezza parte del primo atto, ad uno ad uno ed a due a due usciron tutti, dall'autore ed io in poi che servivamo d'auditori.
Era tale quella comedia che, quantunque io sia un asino in poesia, tuttavia mi parve che 'l medesimo Satanasso l'avesse satanicamente così composta, ad onta e confusione di quel poeta, il qual andava già ingiottendo la sua saliva veggendo la solitudine nella qual i suoi auditori l'avevano lasciato;
e non era gran fatto se l'animo gli presagiva la disgrazia che 'l minacciava e fu che rientrarono tutti li recitanti, ch'erano più di dodici, e senza dir parola pigliarono il mio poeta e, se non fosse stata l'autorità ed il rispetto dell'autore che colle grida et i prieghi vi s'interpose, senz'altro allor allora l'averebbono sbalzato.
Restai meravigliato di quel caso, disgustato l'autore, allegri li comedianti et il poeta sdegnato, il quale con gran pazienza, ancorché con ciglio turbato, prese la sua comedia e mettendosela in seno disse come fra' denti:
"Non è ben di butare le margarite davanti a' porci" e ciò dicendo andò via con molta flemma e freddamente.
Non potetti né volsi seguitarlo, da gran vergogna ch'io aveva; e questo molto a proposito, perché l'autore mi fece tante carezze che m'obligarono a restarmi con lui.
Mi posero per museruola uno vivagno o diciamo cinto di panno e m'insegnarono a correr nel teatro contro coloro ch'essi mi additavano,
di modo che, sì come quasi tutti gl'intermedi solevano finirsi con le botte e bastonate, in questa compagnia del mio padrone finivano in aissarmi contra qualcuno ed io gli faceva cader a terra, con che dava da ridere agli sciocchi ed ignoranti e del profitto al mio padrone; e così in manco d'un mese diventai grand'intermediante e gran rappresentante in cose mute.
O Scipione, chi ti potesse raccontare ciò ch'io viddi in quella compagnia ed in altre due di comedianti nelle quali io stetti?
Ma per non essere possibile di ridurlo ad una breve e succinta narrazione voglio rimetterlo ad altro giorno, se mai ne verrà uno che possiamo ancora parlar insieme.
Vedi quanto è stato lungo il mio ragionamento, quanto vari li miei successi;
considera i miei camini ed i tanti miei padroni.
Ma tutto ciò è niente, rispetto a quello che potrei raccontarti aver notato io e con esperienza verificato in questa gente: il lor procedere, la loro vita, loro costumi ed esercizi, le lor fatiche, lor ozio, la lor ignoranza ed industria, con infinità d'altre cose, alcune da dir all'orecchia, altre da palesarle e tutte da tenerle nella memoria, perché vaglia per disinganno a molti che credono a cose finte e quasi idolatrano le mentite bellezze e che non hanno altro che l'apparenza vana dell'artificio.
SCIPIONE Veggo benissimo, Berganza, il largo campo che tu hai da poter più distesamente tirar innanzi questo discorso ma è mio parere che tu il lasci per racconto particolare e per quando non avrem tema d'essere sopragionti.
BERGANZA Fia come tu dici ma sta' pur a sentire;
con una compagnia arrivai a questa città, ove in uno intermedio mi diedero una ferita che mi condusse, a poco manco, all'estremità della vita.
Non potei vendicarmi, perché, come ho detto, io aveva la museruola e dapoi non mi parve doverlo fare a sangue freddo e riposato, perciò che la vendetta premeditata è segno di cattivo e crudel animo.
Stufommi quell'esercizio, non già per la fatica ma perch'io vedeva far delle cose in esso che meritavano correzione e castigo;
e, come più facile m'era il risentirle che di rimediarvi, risolsimi di non vederle più e così ritiraimi, come fanno coloro che si rimovono da' vizi quando non posson più esercitarli; ma meglio è tarde che mai.
Dico dunque che, veggendoti una sera portare la lanterna col buon cristiano Mahudès, considerai ch'eri contento ed onoratamente occupato, per che mi venne in animo lodevol voglia di seguitare i tuoi passi;
e con sì buona intenzione presentaimi davanti a Mahudès, il qualle allor mi ritenne per tuo compagno e mi condusse a questo ospedale.
Quello che mi sia succeduto non è sì poca cosa ch'ella non meriti più spazioso tempo per raccontartela; e specialmente quel ch'io sentii dire a quattro ammalati che la sorte contraria e la necessità condotti avea a questo ospedale, in quattro letti vicini l'un all'altro.
Abbi pazienza, il conto non è lungo e non dev'esser differito, perché qui egli vien a taglio.
SCIPIONE Avrò pazienza ma di' presto, perciò che a me pare poco lontano esser il giorno.
BERGANZA In uno dei quattro letti che stanno in capo di questa infermeria stava un alchimista, nell'altro un poeta, nell'altr'un matematico e nell'altro uno di quelli che son chiamati avvisatori.
SCIPIONE Ricordomi aver veduta quella buona gente.
BERGANZA Questa state passata ed un giorno di festa, essendo tutte le finestre serrate ed io pigliando aria sotto uno di quelli letti, cominciò il poeta a lamentarsi amaramente della sua fortuna;
ed addimandandolo il matematico di che ei si doleva rispose della sua cattiva sorte e seguitò a dire:
"Come non ho io ragione di lamentarmi? Ho strettamente osservato ciò ch'Orazio comanda nella sua Poetica, che l'opera non venga alla luce se non dieci anni dopo di fatta, perché n'ho una che in comporla ci ho spesi vent'anni di occupazione continova e dodici d'intervalli dismessi e rimessi: è grande il soggetto, l'ho fatta con una nuova e mirabil invenzione, grave nel verso, inimitabile nelle digressioni, e trattenuta e meravigliosa in tutta la sua divisione, perché il principio risponde al mezzo ed al fine, di modo che il tutto costituisce e fa riuscir il poema alto, sonoro, eroico, gustoso e sostanzioso; e con tutto ciò non posso trovar un prencipe a chi donarla, dico un prencipe che sia intelligente, magnanimo e liberale.
Misera età e depravato secolo il nostro!"
"Di che tratta quell'opera?" disse l'alchimista.
"Tratta rispose il poeta di ciò che Turpino ha lasciato a scrivere del re Arturo d'Inghilterra, con altro supplimento che contiene la storia della domanda di Brialle; ed il tutto in verso eroico, parte in ottava rima e parte in verso sciolto, però sdrucciolosamente, dico in isdruccioli di nomi sostantivi, senza ammettervi verbo alcuno". ".
"Io per me rispose l'alchimista poco m'intendo di poesia e però non posso giudicare della disgrazia onde v. s. si lamenta,
con tutto che, s'ella sia ancor maggiore di quel che dice, non anderebbe del pari con la mia; et è che, per mancarmi ordegni ed istromenti o prencipe che mi sostenga e mi dia i requisiti che sono necessari alla scienza dell'alchimia, io adesso non colo in oro; e se così m'avesser aiutato a quest'ora ch'io dico averei assai più ricchezze di quel n'abbiano mai avuto i Mida, i Crassi, i Cresi".
"Ha fatto v. s., signor alchimista disse il matematico, l'esperienza del cavar l'oro dagli altri metalli?"
"Insin ad ora non l'ho ancor cavato rispose l'alchimista; ma so che realmente si può cavare ed a me non mancano più di due mesi per trovare la pietra filosofale con che si può far oro ed argento delle pietre istesse".
"Benissimo le signorie vostre hanno esaggerate le lor disgrazie disse il matematico ed infine l'uno ha un libro da dedicare e l'altro ha in procinto la potenza di far la pietra filosofale.
Ma io che dirò della mia ch'è tanto sola che non ha a chi appoggiarsi?
Sono ventidue anni ch'io vo dietro per trovare il punto fisso e sicuro e dove lo trovo, ivi lo perdo;
voglio dire che, quando mi pare che già io l'abbia trovato e che in nessuna maniera egli non possa scapparmi dalle mani, allora che manco ci penso me ne trovo tanto lontano che m'è gran meraviglia.
Occorremi l'istesso con la quadratura del cerchio, perché sono stato così vicino all'averla trovata che non so né posso pensare come si possa fare ch'io adesso non la tenga nella saccoccia.
In questo modo è la mia pena simil a quella di Tantalo che si muore da fame e con la punta delle dita tocca i frutti, e con l'acqua sin alle labbra pere da sete.
E son altro nuovo Sisifo, perch'anch'io saglio e scendo il monte col mio sasso addosso e mai posso finire quella fatica".
Fin qui l'avvisatore avea guardato silenzio e qui lo ruppe e disse:
"La povertà ora ha ragunati in questo ospedale quattro lamentanti tali quali possono esser quelli che si lamentano sotto la tirannide del gran turco. Vadano in malora gli offizi ed esercizi che non possono trattenere né mantenere i lor padroni.
Io, signori, sono avvisatore ed ho dati a sua maestà in vari tempi molti e diversi avvisi, tutti ad util suo e senza danno del suo regno.
Et ora ho da presentarle un memorial d'importanza, col quale la supplico commetter a qualcuno che possa intender da me un nuovo avviso ch'io voglio comunicarle, il qual solo può essere il vero mezo di pagare tutt'i suoi debiti.
Tuttavia, dal succeduto negli altri memoriali, credo che quest'ancora non abbia da passarla meglio.
Ma perché le signorie vostre non m'abbiano per un uomo di poco cervello, benché l'avviso mio sia già publico, non mi par se non bene che glielor dica.
Penso di proporre al re che tutti i vassalli di sua maestà, ed i suoi sudditi, dall'età di quatordici sino a sessant'anni, siamo obbligati a digiunare una volta per ciascun mese a pan ed acqua, il tal giorno che si vorrà eleggere ed assegnare, e che tutta la spesa che si farebbe in carne, pesce, vino, uova, legumi e frutti, insomma di tutto il companatico di quel giorno, sia ridotta in denari e data alla maestà, senza levarne un quattrino;
per questa via in vent'anni rimarrà libera e da' debiti rinfrancata.
Perché, se si farà il conto così come l'ho fatto io, son in Ispagna più di tre millioni di persone di quell'età, oltra agli ammalati ed infermi più vecchi o più giovani, e nessuno di questi non spende manco d'un real e mezzo al giorno, o sia solo un reale, che non può spender manco, se bene non mangiasse che fenugreco.
E vi par poco per ogni mese tre millioni di reali?
E questo anzi sarebbe di profitto che di danno ai suoi sudditi, perché con quel digiuno sarebbon più grati a Dio e servirebbono il re e tale potria digiunare che gli sarebbe necessario per la sua salute.
È molto facile l'eseguir quest'avviso e ci vuole poca fatica, perché si potrebbe riscuotere quelli denari digiunati a parrocchia a parrocchia, senza spesa di commessari che sogliono distrugger la republica".
Ebbero tutti da ridere di quell'avviso e di quel che lo dava ed egli ancora ridde della sua pazzia ed io ebbi da farmi meraviglia di avergli uditi e che la maggior parte di quegli umori venivano a morire negli ospedali.
SCIPIONE Hai ragione, Berganza, guarda se ti resta ancora qualche cosa da dire.
BERGANZA Due cose sole con le quali voglio finire il mio discorso, perché mi pare che già spunti il giorno.
Andando una sera il mio maggior Mahudès a domandar limosina a casa del governatore di questa terra, il qual è un buon gentiluomo e gran cristiano, lo trovammo: stava solo
e mi parve dover pigliare l'occasione di quella solitudine per dirgli certi avvertimenti ch'io aveva sentito dire ad un vecchio infermo di questo ospedale circa il modo di potere rimediare all'evidente perdizione delle zambracche vagabonde, le quali, per non voler servire onestamente e per attendere a quella lor nefanda vita, empiono ogni state gli ospedali di quelli rompicolli che le seguitano, piaga intolerabile e ch'avea bisogno di pronto e non meno efficace rimedio.
Questo volendo dirgli io, alzai la voce, pensando di poter parlare, ed invece di pronunciare ragioni concertate presi ad abbaiare con tanta fretta e tono cotanto alto che annoiatone s'adirò il governatore e gridò a' suoi servidori che mi dessero bastonate e mi scacciassero fuora di quella sala.
A quella voce del padrone venne correndo uno staffiere (avrei voluto ch'allora egli fosse stato sordo) e subito, dato di piglio ad un fiasco di rame ch'egli trovò a mano, me n'ebbe a dar tanti colpi che sino a quest'ora ne porto le reliquie stampate nelle coste.
SCIPIONE E ti dogli di ciò, Berganza?
BERGANZA E perché non me ne dorrei, se ancora mi duole, come t'ho detto, e se mi pare che la mia buon'intenzione non meritava quel castigo?
SCIPIONE Sappi, Berganza, che nessuno deve andare ove non è chiamato né impacciarsi in fatti d'altri;
ed anco devi considerare che 'l consiglio del povero, per buono ch'egli sia, mai è ammesso, massimamente dai grandi e da quelli che pensano sapere ogni cosa.
La sapienza del povero si sta nascosta e la necessità e la miseria sono l'ombre e le nubi che la tengono scura;
e, se per sorte od altrimenti ella si scuopre, l'hanno per balordaggine ed è trattata con disprezzo.
BERGANZA Tu dici 'l vero, Scipione, e perché in me stesso io ne faccio l'esperienza da qui innanzi seguirò il tuo consiglio.
Ancor un'altra sera entrai in casa d'una gran gentildonna, la qual si teneva in braccio una cagnolina sì picciola che facilmente se l'avrebbe potuto nascondere in seno. Di subito ch'ella mi vidde, saltò fuor dalle braccia della sua padrona et abbaiando se ne corse contra di me con tanta furia e bravura che mai la si fermò che non m'avesse morduta una gamba.
Voltaimi da lei e miraila con rispetto e sdegno e dissi fra di me:
"Meschin animaletto, o non farei conto di voi, se fuora di qui vi trovassi, o coi miei denti vi sbranerei".
Considerai in quella che i codardi e poltroni son i più insolenti e temerari, quando si veggon favoriti, e si fanno innanzi ad offendere quelli che più di loro vagliono.
SCIPIONE E se per sorte la morte, od altro accidente, abbatte l'albero a cui s'appoggiano subito si discuopre e manifesta il poco lor valore, perché infatti essi non vagliono se non quel che i lor padroni e protettori gli fan valere.
La virtù è sempre una ed uno il buon intendimento e simil a sé stesso spogliato o vestito, solo over accompagnato.
Tuttavia è vero che non l'è sempre nell'openion delle genti ma non per quello è superata la verità reale del suo merito.
E con questo finiamo il nostro discorso, perché la luce ch'entra per questi buchi e per queste fessure mostra che 'l giorno è già alto.
E la prossima notte, se non avrem perduto questo gran benefizio della favella, toccherà a me raccontarti la mia vita.
BERGANZA Così sia ma avvertisci di ritrovarti nel medesimo luogo.
L'aver finito di legger il dottore ed isvegliarsi il Campuzano fu tutto ad un tempo ed il dottor gli disse:
Benché questo colloquio sia d'invenzion e finto e non sia mai stato, mi pare tuttavia ben composto e tanto bene che potete, signor alfiere, passare al secondo.
Per quel vostro parere rispose il Campuzano farò animo e mi disporrò a scriverlo, senza più disputare contra v. s. se parlaron o no i cani.
A che replicò il dottore:
Capitan Campuzano, non ritorniamo più a quella disputa; basta, intendo e lodo l'invenzione e l'artificio del colloquio; andiamo verso lo sperone a recrear gli occhi del corpo, poiché di già abbiamo ricreati quei dello spirito.
Andiamo disse il Campuzano e così se n'andarono.