Rinconette e Cortadiglio (F)


RINCONETTE E CORTADIGLIO
Novella terza

Argomento

Due garzonetti spensierati, l'uno giuocatore d'avantaggio e l'altro tagliatore di borse, divenuti compagni pervengono in Siviglia. Quivi esercitando il ladro il suo mestiero è cagione che ambidue sono introdotti da Monipodio, prencipe de' guidoni, dal quale, conforme comandano i loro statuti essaminati ed abili ritrovati, iscusandoli l'anno del noviziato sono fatti ufficiali dell'accademia, nella quale per qualche tempo dimorando veggono cose di grandissimo stupore e maraviglia; alla fine pentiti si emendano.

Nell'osteria del Molinello, che ne' confini delle famose campagne di Alcudia, quando si va da Castiglia all'Andalogia, è posta, un giorno de' più caldi dell'estate si ritrovarono a caso due garzonetti di età di quattordeci in quindeci anni, ambidue di buona grazia, però malamente sdruciti e rovinati. Non avevano cappa, li calzoni erano di tela e le calzette di carne; ben è vero ch'emendavano quest'errore le scarpe, avendole l'uno di corda tanto rotte quanto portate e l'altro senza suola, che più tosto li servivano d'impaccio che d'altro. Aveva l'uno un berettino verde da cacciatore e l'altro un capello basso, senza cordone e largo di falda. Sopra le spalle ed allacciata sul petto aveva l'uno una camicia del colore di camozza, chiusa e raccolta tutta in una manica, venendone l'altro senza, franco e libero, come anco lo era di bisacce, benché nel seno li paresse un non so che di rilevato che per quanto poi si vide era un collare tutto rotto, inamidato con sudicciume. Aveva in esso involto e governato un paio di carte da giocare di figura ovata, così divenute per lo tanto adoperarle, e perché più durassero le aveva tosate le punte e lasciate di quella maniera. Erano ambidue abbrugiati dal sole, co' l'unghie cairelate e le mani sporchissime. Portava l'uno per arma una mezza spada e l'altro un coltellaccio grande da biffolco; così, postisi a sedere l'uno riscontro all'altro sotto un portico all'ombra di detta osteria, incominciò quello che pareva di più età al minore dicendo:

—Di donde siete, signor cavaliere, o dove è il vostro camino?

Al quale subito rispose lo interrogato:

—Di dond'io mi sia non lo so, come anco non so dove io sia indrizzato; ben è vero che colà mi fermerei e direi patria donde ritrovassi chi mi dasse lo necessario per sostentare questa miserabile vita.

—Per vita mia —soggiunse l'altro—, che v. s. non pare del cielo, né men questo giudico luogo per farvi stanza, onde penso sia di mestieri passarsene avanti.

—Dice il vero, v. s. —rispose il secondo—, ma per questo non li ho detto bugia, poiché il luogo di dond'io sono non è mio, non avendo in esso altro che un padre che non mi tiene per figlio ed una matrigna che mi tratta come figliastro, essendo di più il camino ch'io fo alla ventura.

—Sa v. s. alcun mestiere? —addimandò il grande.

—Io non so altro —rispose il piccolo— che correre come una lepre, saltare come un caprio e tagliare benissimo.

—Tutto è buono, utile e di giovamento —disse il grande—, perché vi sarà sacristano che darà a v. s. l'offerta di tutti li santi, acciò che per il giovedì ultimo di quaresima li taglia carta per ornamento del sepolcro.

—Non è il mio tagliare di questa maniera —rispose il minore—; ma è che per Iddio grazia, essendo mio padre sarto e calcetero(1), mi ha insegnato tagliare le sottocalzette così bene che in verità potrei essaminarmi di maestro, se non che la trista mia sorte mi ha posto in un cantone né si ricorda di me.

—Di peggio sempre accade a' buoni —soggiunse l'altro— ed ho sentito dire che le persone meglio inclinate ed abili sono le più sventurate; però, non essendo v. s. vecchio, potrà rimediare al tempo e cangiare fortuna; ma se l'occhio non m'inganna, od il giudizio non mi mente, ha v. s. ancora altre qualità rare che non vuole manifestare.

—Perché non sono —rispose il minore.

—Oh in questo della segretezza —replicò il grande—, li so dire ch'io mi sono uno de' più segreti garzoni del mondo; et affine che v. s. mi scopra l'animo suo e si riposi sopra di me scoprirò prima ch'io sia, imaginandomi che non senza gran misterio ci abbia quivi condotti la sorte e che leali amici dobbiamo essere fino alla morte. Io, signor mio, fui naturale di Fuenfrida, luogo conosciuto e noto per l'abbondanza de' passeggieri che giornalmente vi si fermano. Mi chiamo Pietro Rincone, figlio di persona qualificata, per essere uno delli ufficiali della crociata, cioè di quelli che dispensano le bolle. Alcun tempo accompagnai mio padre nel mestiere e lo appresi di modo che non cederei ad altro che più di me si presumesse; però, come che un giorno più mi affezionassi verso li dinari delle bolle che alle stesse bolle, mi abbracciai con un sacchetto e servendomi delle calcagna pervenni in Madrid, dove con le commodità che ivi sono ordinarie fra poco tempo cavai le interiora affato al sacchetto e lo lasciai più crespo di un fazzoletto da sposo. Mi seguì chi aveva la cura de' dinari, fui fatto prigione; ed ebbi poco favore, benché invero avendo que' signori risguardo alla mia poca età si accontentarono che mi favorisse la campanella e mi cacciassero per una volta le mosche dalle spalle, dandomi bando per quattro anni dalla corte. Ebbi pazienza, restrinsi le spalle, soffersi il castigo e subito me n'uscii per dar compimento all'impostomi con tanta prestezza che pur non ebbi tempo a provedermi di cavalcature. Tolsi(2) dalle mie massorizie quanto puote' e quanto mi parve necessario, fra le quali furno queste carte —scoprendo le già dette— con le quali mi ho guadagnata la vita giuocando al vintiuno per le bettole e per le osterie che sono da Madrid fino a qui. Et benché v. s. le veda di questa maniera spuntate e guaste, sappia però che, sapendole adoperare, sono mirabilissime, non alzando mai carta che non resti sotto alla prima un as(3) che li può servire e di uno e di undici; consideri dunquo(4) v. s. quanto avantaggiose siano per quello che le sa adoperare. Appresi poi oltre questo da un cuoco di un certo ambasciatore altre furberie nel giuoco di primiera che sono assai garbati(5), dimodoché, se v. s. può essaminarsi di maestro nel tagliare le sottocalzette, così io lo posso fare nello spilare, andando con questo sicuro di non morire di fame, perché, ancora ch'io arriva ad una casuccia in villa, pure vi è chi giuocando per un poco vuole trattenersi e di questo abbiamo adesso da farne la sperienza. Tendiamo la rete e veggiamo se cade alcun passaro di questi mulatieri quivi alloggiati. Giuocheremo al ventiuno come che da vero e se alcuno vorrà essere terzo lo faremo primo in lasciare la pecunia.

—Sia in buonora —rispose l'altro—, molto devo a v. s. in avermi fatto degno di sentire la sua vita, con che mi ha obligato a non tacerli la mia, che succintamente è questa. Nacqui in un certo luogo fra Salamanca e Medina del Campo; ebbi per padre un sarto, il quale, come ho detto, mi insegnò tagliare le sottocalzette, benché io col mio giudizio poi sono divenuto perfetto tagliatore di borse. Vennemi a noia la villa e li mali trattamenti di mia madre, sì che lasciati li parenti pervenni a Toleto a professare il già detto mestiere, nel quale ho fatto meraviglie, perché non pende reliquiario a donna alcuna né vi è saccoccia tanto custodita che le mie mani non visitano e che le mie forbici non tagliano, benché il tutto fosse custodito da Argo. Et in quattro mesi ch'io sono stato in quella città mai fui colto in fragranti(6), né divenni bianco per la paura, né mi fece correre bracco, ned ebbi timore del manico; ben è vero, avrà otto giorni che una spia doppia diede notizia della mia abilità al governatore, il quale, sopramodo affezionato alle mie buone condizioni, bramava vedermi; e ciò avrebbe conseguito, se non che io, essendo di natura umile, nemico di trattare co' grandi, procurai di non veder lui. Così uscii della città con tanta fretta che fui sforzato venirmene della maniera che sono, a piedi.

—Tralasciamo questo —disse Rincone—, che conoscendosi non bisognano fra noi quest'altezze o bassezze; confessiamo pure che non avevamo quattrini da spendere né scarpe da portare.

—Così sia —disse Diego Cortado, che tale facevasi dire il minore—; e poiché la nostra amicizia, come detto avete, deve essere longa e perfetta, incominciamola con sante e lodevoli cerimonie.

Così levatosi di assentare, abbracciò Rincone e Rincone lui strettamente. Fatto questo si posero a giuocare con le già dette carte, nette bensì di polve e di paglia ma non già di sudicciume e di malizia; né fecero molte mani che sì bene alzava per lo as Cortado come Rincone suo maestro. Uscì d'indi a poco per cagione di rinfrescarsi uno di que' mulattieri e, richiedendo di essere terzo, lo accettarono più che volontieri, levandoli in meno di mezz'ora dodeci reali e non so che altra moneta, che tanto fu come darli dodeci lanciate nell'anima ed un cumulo di pensieri nel corpo. Credé da prima che per essere due garzonetti facilmente li averebbe ritolti li dinari e si mise per farne l'effetto, il che vedendo li due, posto mano l'uno alla mezza spada e l'altro al coltellaccio, lo fecero ravvedere dell'errore e li diedero da fare in guisa che ben conobbe quanto si fosse ingannato. Molte genti intanto, passando ad un'altra osteria mezza lega indi lontana, vedendo il romore si posero di mezzo e li rapacificarono, dicendo alli due compagni che, se a caso andavano a Siviglia, andassero con loro, che gli sarebbero stato(7) scorta e ve li averebbero condotti.

—A Siviglia appunto è indrizzato il nostro camino —rispose Rincone— ed offerendosi v. s. accettarci per servitori verremo più che volontieri e li serviremo in quanto ci sapranno comandare.

Appena ebbe ciò detto che, postisi amidue(8) davanti le cavalcature, lasciarono il nemico beffato e la moglie dell'oste, che senza essere veduta il tutto aveva sentito, confusa della loro picaresca creanza; et dicendo al mulattiere avere di lor propria bocca detto le carte essere avantaggiose si pelava la barba e si graffiava le gote. Avrebbe per ogni modo voluto seguirli, dicendo non essere cosa da sopportare che due fanciulli avessero burlato un uomo grande e grosso della sua qualità, se non che gli altri suoi compagni li levarono di pensiero il farlo, mettendoli avanti gli occhi ch'egli sarebbe la causa di publicare la propria goffagine. Rincone intanto e Cortado, seguendo il loro viaggio, si misero a servire li loro presupposti padroni con tanta puntualità che il più del camino li avevano in groppa; e, benché se li appressentassero molte occasioni di tentare le loro valigie, pure non lo fecero mai, per non perdere congiuntura di andare in Siviglia ch'essi tanto bramavano vedere. Pure non puoté far di meno Cortado ch'una sera nell'entrare della città, con l'occasione della gabella, non toccasse quella di un francese della camerata, per che posto mano al suo coltellaccio li diede sì terribile ferita che ben potevansi per essa vedere le interiora tutte; così con garbatezza li cavò due sotilissime camicie, un piccolo libretto di memoria ed un orologio da sole, cose che quando le videro non li piacquero molto ed avrebbero voluto ritoccarla di nuovo, pensando che simile valigia non doveva il francese per così poca cosa aver occupata; ma pure considerando meglio che, ritrovate meno le camicie, avrebbe posto in sicuro il restante si ritennero di farlo. Tolsero congedo da quelli che nel viaggio li avevano sostentati e così il seguente giorno fecero fine delle camicie, cavandone(9) ventidue reali. Andarono poi a vedere la città e restarono molto maravigliati della grandezza della chiesa principale, del concorso delle genti, per essere in tempo che si caricava la flotta ed erano in porto sei galere, la cui vista li fece sospirare, pensando a quel giorno che li loro peccati ve li avessero condotti. Videro vari garzoni con sportelle, affacendati in portare varie cose e, richiedendo ad uno di essi ch'era asturiano di quanto utile si fosse quel(10) mestiero, li rispose che utilissimo, poiché non occorrevano sicurtà, essendo sforzati quelli che li facevano lavorare fidarsi per essere serviti, e che di più alla sera si ritrovava aver guadagnato cinque o sei reali, co' quali mangiava e beveva da principe, senza esser sottoposto a padrone indiscreto che gli commandasse. Parve buono alli due questo mestiere, considerando quanto li venisse commodo servirsi del loro sotto coperta, per la libera introduzione in tutte le case; però senza molto pensarvi proposero di comprare gli utensili per essercitarlo, che furno tre sportelle di palma per cadauno e due sacchi nuovi, servendo le sportelle per la carne, per il pesce e per li frutti, e li due sacchi per il pane. Spesero in comprare queste cose de' dinari della furbaria fatta al francese e lo stesso garzone asturiano condusseli al luogo donde si vendevano, avvertendoli che li giorni di grasso si metessero in posto la mattina alle beccherie nella piazza di San Salvatore, li giorni magri alla pescheria in piazza picciola, ogni dopo desinare al fiume e li giovedì al mercato, dicendoli di più che quando portassero cose minute, come pesci o simili, ben ne potevano prender parte, però cautamente, che li servirebbe per risparmiare la spesa di quel giorno.

Appresero benissimo a memoria questa lezione, essercitandosi di maniera fra loro che in termine di due ore avrebbono potuto graduarsi in quel mestiere, e così la seguente mattina per tempo si piantarono in piazza di San Salvatore, dove, e per gli sacchi fiammeggianti e per le sportelle non più adoperate, furno circondati in un subito da una moltitudine d'altri garzoni che di varie cose li interrogarono, a' quali essi risposero pesatamente e con gravità furbesca per non inciampare. Vennero in questo mentre in piazza due, l'uno vestito come studiante e l'altro era soldato, li quali, invitati della bellezza delli utensili, richiese lo studiante Cortado ed il soldato Rincone, il quale da lui fattosi disse:

—Sia col nome di Dio; cominciamo in buonora ambidue questo mestiere; però v. s. mi dia buona la mancia per augurio del felice seguito.

—Ella non sarà mala —rispose il soldato—, poiché io sono vincitore nel giuoco ed innamorato, che la spesa appunto ch'io sono per fare non è per altro che per fare un banchetto ad alcune compagne della mia donna.

—Mi carichi adunque v. s. —soggiunse Rincone—, che mi dà l'animo di portare tutta questa piazza e di cucinarla di più se ne facesse il bisogno.

Restò il soldato della garbatezza di Rincone assai gustato e li disse che, se l'avesse voluto servire, l'avrebbe levato da quella meschinità. Al che soggiunse Rincone che, per esser il primo giorno quello che in tal mestiere incominciava affatticarsi, non li pareva bene col lasciarlo farli simile affronto, fin che almeno non sapesse qual di buono o qual di tristo in sé avesse, che ben li dava parola, pensando fare altrimenti, che più tosto lui che altro servito avrebbe. Rise il soldato e lo caricò molto bene, insegnandoli la casa della sua dama, acciò che senza guida solo avesse saputo ritornarvi, ed egli promettendoli fedeltà ricevé tre soldi che li diede per mancia. Non andò, volò Rincone, poiché in meno di un quarto di ora ritornò in piazza per non perdere congiuntura di altro guadagno. Ma per sollecito ch'egli si fosse ritrovò che prima di lui era venuto Cortado, il quale veggendolo li corse all'incontro, dicendo:

—Bene, come passa l'utile?

Ed egli aprendo la mano dimostrò li tre soldi avuti dal soldato, perloché ridendo Cortado si pose una mano nel seno, dal quale cavò una picciola borsa, ed appressatosili all'orecchio li disse:

—Con questa e con due soldi mi pagò sua riverenza dello studiante, però prendete e governate voi per quello che potesse occorrere.

Appena l'ebbe presa Rincone che, ritornando lo studiante anelando e trasudando, disse a Cortado se a caso avesse veduta la tale borsa, con tali e tali contrasegni, la quale aveva dentro quindeci scudi d'oro, tre reali ed altra poca moneta picciola, o se pure egli per ischerzo gliela avesse tolta mentre andava comprando. Cortado allora, senza punto alterarsi o mutarsi di colore, li rispose di questa maniera:

—Quello che io so dirli di questa borsa è ch'ella non sarà persa, se pure v. s. non l'ha mal governata.

—Senza dubio —disse lo studiante—, misero me, che la devo male aver governata, poiché mi è stata tolta.

—Lo stesso dich'io —soggiunse Cortado—, però quello che v. s. potrà fare la prima cosa sia aver pazienza, e questo è un dono de' principali che Dio facesse all'uomo, potendo da sua posta consolarsi nelle proprie passioni, essendo che un giorno va e l'altro viene, ritornando bene spesso l'inganno sopra lo ingannatore. Voglio dire che con il tempo potrebbe quello che gliel'ha tolta pentirsi e restituirla profumata, tanto più che vi è la scommunica in tenere la robba d'altri; però pazienza, come ho detto, che è la madre della buona ventura. Io non vorrei per tutto l'oro del mondo esser stato quello che gliel'ha tolta, che se è, come credo, v. s. ordinato parebbemi di aver commesso qualche incesto o sacrilegio.

—E come —disse lo addolorato studiante—, che, posto che io non sia sacerdote ma solamente sacristano di una chiesa di monache, li dinari erano il salario di quattro mesi di una capellania che ho riscosso per un sacerdote mio amico ed è dinaro sacro e benedetto.

—Buon pro li faccia, buon pro li faccia —disse Rincone—, il cielo mi guardi da simili(11) guadagni. A rivedersi il giorno del giudizio, che poi si parleremo e vederemo chi fu questo temerario, questo sciagurato che mise le mani nelle cose sacre, rubando un terzo di salario di messe; e quanta entrata, per vita di v. s. signor sacristano, rende questa capella?

—Entrata, la puttana che mi diede al mondo! E sono io adesso per render conto quanta entrata si renda o quanta uscita? Vorrei sapere alcuna cosa della mia borsa, altrimenti restatevi con Dio, ch'io vo per farne fare una publica grida.

—Non mi pare tristo questo pensiero —disse Cortado—, però v. s. averta non smenticarsi alcuno de' contrasegni o della giusta quantità de dinari, poiché un sol quattrino di errore li so dire sarà causa di lasciarliela mai più rivedere; e si tenghi sicuro quanto li dico.

—Non ho dubbio di questo —disse il sacristano—, ch'io l'ho più fissa nella memoria del sonare delle campane.

Ciò dicendo si cavò dalla saccoccia un fazzoletto sottilmente lavorato per asciugarsi il sudore del volto, che appena lo vide Cortado che subito lo marcò per suo(12) e seguendolo di lontano lo raggiunse alquanto discosto dalla piazza, dove facendolo fermare e ritiratisi da parte incominciò dirli tante chiachiare e tanti spropositi che non intendendoli glieli faceva ripetere due e tre volte, in maniera che confuso dalle sue parole lo stava rimirando come stupido. Non finì Cortado di parlare prima che, conosciuto il tempo, con destrezza li levò il fazzoletto dalla saccoccia, poi prendendo commiato conchiuse il suo discorso con raccordarli non mancasse di venire nello stesso luogo, poiché, dubitando di un tal garzonetto tristarello e furbo del suo mestiero, pensava con astuzia cavarne il marcio e mettere in chiaro alcuna cosa. Con questo si consolò il sacristano e si partì, lasciando Cortado, il quale ritornò da Rincone, che il tutto aveva veduto, e li diede anco il fazzoletto. Un tale garzonetto era stato osservando il tutto, dimodoché chiaritosi della professione di ambidue se li appressò e li disse:

—Signori, per vita vostra, ditemi, sete carpioni?

—Non intendiamo, signor mio —rispose Rincone.

—Come che non m'intendete? Dico se siete pescatori —soggiunse il primo.

—Non siamo né pesce né pescatore —rispose Cortado— e se volete altra cosa fattevi intendere, se non, andatevi in buonora.

—Non m'intendono? —disse fra sé il garzone— Glielo farò bene intendere, ancorché non vogliano, dandogliela da bevere in un cucchiaro d'argento, perché meglio possano ingiottirla. Dico, signori, se siete ladri. Ma non so perché li chieda questo, stando che io so purtroppo bene che son tali. Dicanmi adunque, come essercitando questo mestiere non sono andati alla dogana del sig. Monipodio?

—Pagano dazio i ladri in questa città? —rispose Rincone.

—Se non pagano dazio —soggiunse il garzone—, almeno si registrano davanti il sig. Monipodio ch'è loro padre, loro maestro e loro protettore. Pertanto li consiglio venir meco a prestarli obedienza ned altrimenti ardiscano rubare senza il suo segnale, perché la passeranno male et li costerà caro.

—Io pensai sempre —disse Cortado— che il rubbare fosse mestiere libero, fatto d'animo volontario, senza averne da render conto ad alcuno, e che se pure si pagasse, fosse per giunta dando la gola e le spalle, per mallevadori o sicurtà; però se così è come dite, ed ogni luogo ha la sua usanza, serviamo noi quella di questa città, che essendo una delle principali del mondo sarà senza dubbio usanza utile e considerata. V. s. dunque ci guida da questo sig. cavaliere che deve per quanto mi imagino essere persona di qualità, generoso e più che perfetto in questo mestiere.

—E come s'egli è qualificato, generoso e sufficiente! —rispose il garzone— Egli è tanto che, in quattro anni ch'egli essercita questo ufficio di nostro padre e protettore, quattro solamente sono stati smanegati ed a trenta li han fatto il marchesco.

—Invero —disse Rincone— che tanto intendiamo questo parlare, quanto s'intendiamo di volare.

—Andiamo pure —seguì il garzone—, che per istrada glielo anderò dichiarando con altre molte parole gerghe, tanto necessarie saperle quanto il pane giornalmente per mangiare.

E così fu che li ne disse molte, concedendoli il farlo la lunghezza della strada. Richiese similmente Rincone chi egli si fosse e se era ladro, al quale egli prontamente rispose di questa maniera:

—Sono grazia del cielo per servire Dio e la buona gente, benché non di quelli perfetti, stando che ancora sono nell'anno del noviziato.

—Per certo che mi è novo —disse Cortado— e parmi maraviglia che nel mondo siano ladri servi di Dio e delle buone genti.

—Signore —disse il garzone—, io non mi metto in teologia né sono per disputare, ben li dico che tutti nel loro mestiere possono lodare Dio e molto più cogli ordini dati a' suoi allievi dal signor Monipodio.

—Se non buoni e santi devono essere —disse Rincone—, poiché fanno li ladri servi di Dio.

—Sono tanto buoni e santi —replicò il garzone— ch'io non credo sia possibile il migliorarli. Ha ordinato che di tutto quello si rubba si dia alcuna cosa per elemosina, affine di mantenere una lampada accesa davanti una imagine molto divota in questa città; et invero che per questo abbiamo veduto miracoli, poiché li giorni passati diede il maggiorengo della tortosa due tocchi di malgherita ad un camusto di due mizzi e benché debole ed ammalato sofferse il tutto senza mai cantare, come che fosse niente. Questo da noi tutti è stato attribuito alla sua gran divozione, non avendo egli forze bastanti a sostenere la prima alzata de' bracchi. Ma perché so mi avete a chiedere quanto ho detto, voglio anticipare il tempo e dirvi ciò che ho detto in buona lingua. Dovete dunque sapere che costui aveva rubati due asini ed il podestà li fece dare due ore di corda, perché confessasse; ma egli mai parlò, soffrendo constantemente il tutto, benché infermo. Recitiamo di più il rosario, compartito per la settimana, alcuni di noi non rubbano il venerdì e molti non conversano il sabbato con donna che si chiami Maria.

—Il tutto mi pare di perla —disse Rincone— ma ditemi, per vita vostra, si fa poi altra restituzione del maltolto od altra penitenza?

—O circa questo non occorre parlarne —rispose il garzone—, essendo tante le parti in che si divide il rubbato che impossibile è il farlo, restandone il ladro quasi senza, aggiungendosi che nissuno ci comanda il restituire, perché non si confessiamo; e se mandano fuori bolle di scomunica non entrando noi in chiesa mai pervengono alle nostre orecchie. Solo si approfitiamo de' giubilei, non già per le indulgenze ma sì bene per il concorso delle genti in esse.

—Et con solo questo —disse Cortado— pensano questi signori di fare opere sante e buone?

—Ma che hanno di male —replicò il garzone—, non è peggio essere eretico, rinegato, patricida o solomica?

—Sodomita vuol dire v. s. —rispose Rincone.

—Questo dico —soggiunse il garzone.

—Tutto è male —replicò Cortado—; però, volendo la nostra sorte ch'entriamo in questa compagnia, allunga v. s. un poco più li passi morendomi di voglia di vedermi davanti questo signor Monipodio, del quale avete raccontate tante meraviglie.

—Presto si appagherà il suo desio, signore, poiché di già siamo pervenuti alla casa dond'egli abita. Mi aspettino per un poco quivi in istrada, tanto ch'io veda s'egli è disoccupato per essere questa l'ora dell'audienza.

Aspettarono li due, rimirando la casa che più tosto casamata che altro potevasi dire, fin tanto ch'egli uscì fuori a dirli che entrassero. Entrarono ambidue e si fermarono in un picciolo cortile mattonato di nuovo in maniera che il suolo pareva non che d'altro di cinapro schietto. Aveva da una parte un banco manco d'un piede, dall'altra un vaso da acqua sboccato ed un boccaletto sopravi non men vago del vaso. Da un'altra parte vedevasi una stuoia stesa e nel mezzo del cortile in un vasetto una pianta di basilico. Risguardavano ambidue queste maserizie intanto che scendeva il signor Monipodio, il quale tardando diede occasione a Rincone di arrischiarsi a entrare in una picciola saletta delle due ch'erano nel cortile, dove vide due spade da schermo e due brocchieri di sughero, appesi con quattro chiodi al muro, una cassa grande senza coperchio e senza serratura, con altre tre stuoie stese per terra. Era da una parte il muro riscontro all'uscio tapezzato con una imagine di nostra signora, però di quelle da buon mercato, sotto la quale pendeva da un chiodo una sportella di palma da un canto ed un picciolo catino bianco dall'altro, dal che venne in cognizione dovesse servire la sportella per la elemosina ed il catino per l'acqua benedetta. Entrarono poi due giovanetti di età di vent'anni incirca vestiti come studianti, seguiti fra poco da due altri garzonetti sportaiuoli dell'età loro; entrò un cieco e non molto dopo due vecchi di venerabile presenza vestiti di cotone, con rosari in mano dall'avemaria grosse ed occhialoni al naso che li rendevano più che degni di rispetto, li quali senza dire parola incominciarono cogli altri a passeggiare nel cortile; venne una vecchia falduta, la quale senza far moto di sorte alcuna entrò nella saletta e, presa dell'acqua benedetta, si ginocchiò davanti la imagine standovi buona pezza; alla fine dopo di aver bacciata tre volte la terra ed altretanto alzate le mani al cielo, fatta la elemosina nella sportella uscì fuori cogli altri in compagnia; in risoluzione in meno di un quarto d'ora si congregarono da quatordeci in quindeci persone di differente abito e professione. Gli ultimi a comparire furno due sgerri con li mostacci lunghi, capello di gran falda, collare alla vallona, calzette colorate e ligacci similmente di colore, spada di più di marca ed invece di pugnale due pistolle ed un brocchiere appeso ciascuno alla cintura; questi risguardando li due di traverso li richiesero se erano della confraternita, a' quali rispose Rincone che sì, per servirli. Scese intanto il signor Monipodio, tanto aspettato quanto benveduto da tutta quella virtuosa compagnia. Era di età, per quanto dimostrava l'aspetto, di quarantacinque in quarantasei anni, alto di corpo, di volto bruno e ciglia congiunte, occhi concavi, con barba nera e molto spessa; venne in camicia, sì che per l'apertura davanti di essa vedevasi un foltissimo bosco, tal era la moltitudine de peli che nel petto aveva. Portava una cappa di cotone lunga fino a terra ed in piedi aveva un paio di scarpe con li calcagni schiacciati. Le gambe erano coperte da sottocalze di tela larghe e lunghe, il capello che aveva in testa era da tagliacantone, alto e largo di falda(13). Attraversavali una cintura le spalle ed il petto, dalla quale pendeva una spada larga e curta a modo di pistolese; le mani erano curte e pelose, le dita grosse e le unghie ritorte; le gambe, come abbiamo detto, non si vedevano ma li piedi erano disuguali, grandi e nodosi; in effetto egli rappresentava il più vituperoso e difforme barbaro del mondo. Scese con lui la guida, la quale prendendo li due per mano glieli condusse davanti, dicendo:

—Questi sono, sig. Monipodio, quelli due valorosi giovani che ho detto a v. s., se così li pare potrà essaminarli; e vedrà quanto sono degni d'entrare nella nostra confraternita.

—Lo farò volontieri —disse Monipodio.

Smenticavami il dire come nello stesso punto ch'egli venne a basso, quanti erano nel cortile li fecero una larga e profonda riverenza, fuorché li due smargiassi, li quali alzando così a mezzo il capello si ritornarono a passeggiare da un canto, lasciando Monipodio dall'altro, il quale interrogando li due dell'essercizio, della patria e de' parenti, Rincone di questa maniera li rispose:

—L'essercizio, essendoci condotti davanti la signoria vostra, già si sa quale egli si sia, la patria non occorre il dirla e li parenti non fanno a proposito, non dovendosi da noi prendere adesso qualche carico onorato, perloché sia necessaria questa informazione.

Ciò sentendo Monipodio li disse:

—Voi, figliuol mio, parlate bene ed è buona cosa servare quanto avete detto, poiché correndoci la fortuna contraria non è bene sia dipinto sul libro del notaro: "Il tale, figlio del tale, di tal luogo, il tal giorno fu impiccato o frustato", conforme siamo sottoposti, suonando male queste parole all'orecchie de' galantuomini. Pertanto ritorno a dire essere cosa molto utile il tacere la patria, li parenti e 'l proprio nome, benché fra noi debbia ogni cosa essere manifesta; e solo per adesso bramo sapere il vostro nome.

Glielo dissero ambidue e Monipodio soggiunse:

—È di mia volontà, e così comando, che di qui avanti voi, Rincone, vi chiamiate Rinconette e voi, Cortado, Cortadiglio, essendo nomi che più che bene quadrano ed alla vostra età ed alle nostre ordinazioni, per le quali è necessario si sappia il nome de' confratelli, essendo costume di fare celebrare ogn'anno per l'anime de' nostri defonti e benefattori certe messe, cavando lo stipendio per elemosina di chi le dice delle cose che si carpiscono; e queste messe così dette come pagate dicono far giovamento a dette anime per via di naufragio(14). Et sotto il nome di benefattore s'intende il procuratore che ci diffende, la spia che ci avisa, il boia che ci ha compassione e quello che quando uno di noi fugge per le strade seguito da molti, gridando: "Al ladro, al ladro, prendete il ladro", si pone di mezzo, dicendo: "Lasciate, lasciate quel furbo, poiché da sé stesso ne farà purtroppo la penitenza". Sono similmente nostre benefatrici alcune femine di mondo che con la loro fatica ci vanno aiutando e mantenendo sì per li spasi come per le spie; lo stesso sono ancora li nostri genitori ed il notaro, il quale essendoci amico non è delitto che sia colpa né colpa che meriti molta pena, dimodoché per tutto questo fa la nostra confraternita celebrare ogn'anno un adversario(15) con la maggior solennità che sia possibile.

—Per certo —disse Rinconette, già confirmato in questo nome— che questa è opera degna dell'altissimo e profondissimo giudizio, del quale abbiamo inteso essere v. s. dotato; però li nostri genitori ancora vivono, che piacendo a Dio di chiamarli a sé ne daremo subito aviso alla compagnia, acciò se li faccino all'anime loro questo naufragio o procella, o questo adversario che v. s. dice, con la solennità e pompa costumata.

—Tanto si farà o che di me non resterà pezzo —disse Monipodio.

E chiamando la guida li disse:

—Vieni qua, Ganchuelo(16) —che tale era il suo nome—, sono distribuite le sentinelle?

—Signor sì —rispose la guida—; tre ne vanno attorno, dimodoché non occorre temere siamo colti all'improviso.

—In buonora sia —soggiunse Monipodio.

E, rivoltosi alli due, li disse:

—Figliuoli, vorrei sapere ciò che sapete, per darvi l'uffizio conforme alla vostra inclinazione ed abilità.

—Io, signore —rispose Rincone—, so non so che fioreti di spinto(17), so chiudere il canzonamento nel barleffio, ho balchi perfetti per la santa, so comprare il porco quando bisogna e ganezzare un vasco quanto un gonzo.

—Questi sono principi —disse Monipodio—, e tanto usati che non vi è principiante che non li sappia né ad altri ponno servire che ad un gentiluomo tanto bianco che si lasci sbasire dalla morsa per ignoranza; ma non passerà molto che fabricando quattro o sei lezioni sopra questi fondamenti spero nel cielo siate per riuscire uffiziale maggiore, e —chi sa?— forsi anco maestro.

—E voi, Cortadiglio, che sapete? —richiese Monipodio.

—Io —disse lui— so benissimo quel giuoco del mettere due e cavare cinque con tanta destrezza, e mi escusino della molto(18) prosunzione, che non cedo ad altro; e poi toccare il polso ad una santa meglio di un medico.

—Sapete altro? —disse Monipodio.

—No per li miei peccati —rispose Cortadiglio.

—Non vi affligete, figlio —replicò Monipodio—, perché sete arrivati in porto e sete entrati in una scuola dove non vi annegarete né lasciarete di riuscire più che perfetto in tutto quello che sarà di bisogno. Circa l'animo poi come la passate, figliuoli?

—E come abbiamo da passarla —disse Rinconette— se non molto bene, avendo noi animo di sottentrare ad ogni impresa per ardua ch'ella sia, pur che sia in beneficio di questo nostro essercizio?

—Bene —replicò Monipodio—, però vorrei ancora che lo aveste per soffrire, se bisognasse, due o tre tocchi di malgherita, senza pure schiudere le labbia dicendo: "Questa bocca è mia".

—Già sappiamo che siano tocchi di malgherita —disse Cortadiglio— né siamo tanto ignoranti che similmente non sappiamo pagarsi con la gola quello che dice la lingua; però abbiamo animo per tutto, essendo stato all'uomo ardito, per non dirlo altrimenti, tanto favorevole il cielo che li ha lasciato e la vita e la morte nella propria lingua facendoli tanto facile un no quanto un sì.

—Alto —disse Monipodio—, non più, che questa ragione mi convince, mi obliga, mi persuade e mi sforza ad accettarvi in questo punto per confratelli maggiori perdonandovi l'anno del noviziato.

—Di questo parere sono anch'io —disse uno delli due sgherri.

E lo approvarono gli altri tutti che ogni cosa intesa avevano, supplicando di più Monipodio li facesse partecipi delle immunità della compagnia, meritandolo la loro grata presenza e giudizioso discorso. Disse che si accontentava di farlo per darli gusto e contento, dicendo alli due che in poco non istimassero tanto favore, poiché risparmiavano l'onoranza del primo furto che facessero, non erano sogetti a fare offizi minori in tutto quell'anno, come portare li ricapiti di alcun confratello maggiore alle carceri, stibiare il chiaro puro, banchettare quanto più li piacesse senza chiederne licenza al maggiorengo, essere a parte di tutto quello che li confratelli maggiori carpissero ed altre simili cose che da essi furno stimati favori segnalati e li ne resero infinite grazie. Stando in questo, correndo entrò un tal garzonetto tutto sbigotito e disse:

—Il bargello de' vagabondi viene verso questa casa, però solo, senza ciurma.

—Nissuno tema —disse Monipodio—, che è nostro amico né mai viene per farci danno; acquetatevi tutti, ch'io uscirò fuori a parlarli.

Tutti si riposarono su la sua parola, essendo a questa novella impauriti, ed egli uscì, dove ritrovò alla porta il bargello, col quale fece non so che poche parole e poi ritornò in casa, richiedendo a chi fosse toccata in sorte la piazza di San Salvatore. La guida delli due novi confratelli si fece avanti e disse che a lui.

—E come dunque —soggiunse Monipodio— non mi si ha manifestata una borsa con dentro quindeci scudi d'oro, due reali da due con altra piccola moneta?

—Vero è —disse la guida— che la borsa è stata rubata ma io non l'ho già tolta, né meno so imaginarmi chi la possa aver tolta.

—Non facciamo alzate —replicò Manipodio—, poiché la borsa in ogni modo ha da comparire, richiedendola il bargello che ci è amico e che ci fa più di mille servigi l'anno.

Tornò a giurare il garzone di non averla veduta, cosa che maggiormente fece instizzare Monipodio, il quale per rabbia pareva gettasse fuoco dagli occhi e disse:

—Nissuno si burli pensando di rompere una minima delle nostre ordinazioni, perché li costerà la vita; et se a sorte lo fai per non dare il dritto che agli altri viene sodisfarò io del mio, dovendo in ogni maniera partirsi contento il bargello.

Ritornò di nuovo a giurare maledicendo e sé stesso e la borsa, dicendo che non solo non l'aveva tolta ma che neanco per imaginazione egli ne sapeva cosa alcuna. Monipodio, maggiormente alterandosi, conturbò gli altri confrati, vedendo in quel punto andare a terra li loro statuti e le loro ordinazioni. Rinconette vedendo questa confusione pensò fosse bene il quietarli e, consigliatosi con l'amico suo Cortadiglio, cavò fuori dal seno la borsa del sacristano, dicendo:

—Abbia fine questa lite, signori, poiché questa è la borsa chiesta del bargello, senza che pure vi manchi un sol quattrino; ed il mio compagno oggi l'ha carpita ad un sacristano con un fazzoletto per gionta.

Cavò fuori Cortadiglio il fazzoletto e lo pose in palese; ma prendendolo Monipodio glielo diede dicendo:

—Resta il signor Cortadiglio il Buono, che tale deve chiamarsi, con il fazzoletto, che io resterò con l'obligo di questo servigio, rimanendo da noi sodisfatto il bargello, affine di compire quel proverbio che dice: A chi ti dà una gallina non è molto se li dai una gamba di essa. Più dissimula questo buon bargello in un giorno che non li doniamo noi in un anno.

Comunemente fu lodata la gentilezza delli due moderni ed approvata la sentenza del loro maggiorengo, il quale subito se ne uscì a restituire la borsa al bargello, restando Cortadiglio col cognome di Buono, come che fosse un altro don Alfonso Perez de Gusmano il Buono che impugnò il coltello contro il proprio figlio a Tarifa, a fine di ucciderlo. Nel ritornare che fece Monipodio entrarono seco due giovanotte, con il volto lisciato, le labra colorate ed il petto imbiaccato, coperte con mezzi manti di saia scotta, tutte allegre et ardite, segni manifesti alli due novi confratelli ch'erano della casa publica; né si ingannarono punto. Apena furno entrate che corse l'una ad abbracciare Gichiznache e l'altra Maniferro, così detto per avere una mano di ferro invece della sua, tagliatali dalla giustizia; fecero lo stesso con loro li due sgherri richiedendo se alcuna cosa avevano con che bagnassero il canale maestro.

—E doveva mancare questo? —disse la Gananciosa, tale era il nome di una di esse— Non tarderà molto a venire Silvatello tuo garzone, carico di quello che ha piacciuto a Dio.

E così fu il vero, perché in quello istante entrò un fanciullo con una cesta coperta di un lenzuolo. Rallegraronsi tutti; e Monipodio fece stendere nel cortile una delle stuoie della saletta, ordinando che tutti vi si assentassero attorno, affine di amorzare le colere e di discorrere intorno a' bisogni della compagnia. La buona vecchia che davanti l'imagine aveva fatta orazione, levatasi in piedi, disse:

—Figliuol mio Monipodio, io non sono per feste, poiché un dolore di capo due giorni sono mi fa andare pazza; e molto più che, dovendo andare prima che sia mezzogiorno a fare le mie divozioni, non mi posso trattenere un poco, abenché nevicasse o che il cielo si disciogliesse in pioggia. Ho per uso di accendere le mie candelette alla madonna dell'Acqua ed al crocifisso di Sant'Agostino, che fa tanti miracoli, né vorrei in nissuna maniera lasciare di farlo e, se finora mi sono trattenuta quivi, non è stato per altro che per dirti qualmente questa notte il Rinegato e 'l Centopiedi portarono a casa mia una cesta più grande della presente, ripiena di panni lini con la cenerata sopra, che, per quanto credo, non ebbero tempo li poveretti di levargliela; et venivano sudando goccie tanto grosse ch'era una compassione il vederli entrare di quella maniera anelando e disfarsi in acqua li loro volti, che parevano due angeletti. Mi dissero poi che andavano in traccia di un pastore il quale aveva di non so che castrati venduti al macello ripiena una borsa di reali, affine di vedere se gliel'avessero potuta salutare. Non levarono li panni di dond'erano né li contarono, fidatisi della integrità di mia conscienza; et così mi favorisca Dio ne' miei desiri e ci liberi tutti dalle forze della giustizia, come io non ho toccata alcuna cosa e la cesta si sta ancora nella interezza che me la portarono in casa.

—Il tutto vi si crede, signora madre —rispose Monipodio—; resta pure la cesta come dite, poiché io non mancherò di fare la diligenza delle interiora e dividerò giustamente le parti, com'è di mio costume.

—Sia come volete voi, figlio; et perché mi si va facendo tardi datemi, se ne avete, ch'io beva un sorsetto di vino, per consolare questo mio stomaco di continovo tanto afflitto.

—O che tale lo beverete —disse allora la Escalanta, compagna della Gananciosa— che migliore non potete bramarlo.

Così discoprendo la cesta manifestò una boraccia di cuoio grande e, cavando fuori una tazza di legno che senza spanderlo capiva più di un boccale, gliela empì e l'offerse alla devotissima vecchia, la quale, prendendola con ambedue le mani e soffiandoli un poco di schiuma, disse:

—Troppo la empisti, figlia, però il signore darà forza al tutto.

Ed appressandola alla bocca d'un sol tiro, senza prender fiato, la trangugiò, finendo di vuotarla con dire:

—Di Guadalcanale(19) è questo vino; forsi che sì, forsi che no, prego il ciel mi faccia pro. Iddio ti consoli, figlia, che di questa maniera hai consolata me, temo solo che per essere digiuna mi faccia male.

—Non dubitate, madre —disse Monipodio—, che è vin vecchio né vi può far danno.

—Così spero nella vergine —rispose la vecchia—; ma vedete un poco, fanciulle, se aveste a caso un soldo per comperare le mie candelette, stando che per il desio di venire a manifestare la cesta ho smenticata in casa la scarsella.

—L'ho io, signora Pipota —(tale era il nome della vecchia) disse la Gananciosa—; eccovelo, prendete ed insieme prendete anco quest'altro, del quale vorrei mi comperaste una candelina e l'accendeste davanti l'imagine del sig. San Michele; e, se due per lo stesso soldo ne poteste comprare, vorrei accendeste l'altra al signor San Biaggio, poiché sono ambidue miei avvocati; vorrei ancora che ne accendeste un'altra alla signora Santa Lucia, della quale per il male degli occhi sono molto divota, ma non avendo per adesso altra moneta scusi senza, poiché non mancherà tempo di farlo.

—Da saggia e prudente fai, o figlia —rispose la vecchia—; ed avverti a non essere misera ed avara, essendo di molto giovamento lo accendersi le candele in vita ned aspettare che altri dopo morte lo faccia.

—Dice bene la signora Pipota —soggiunse la Escalanta.

E ponendo mano alla sua borsa li diede un altro soldo incaricandoli che li comprasse due candele e le accendesse a due santi di suo gusto, però de' più utili e migliori. Promise di fare il tutto la vecchia, lasciandoli con dire:

—Datevi buon tempo, figliuole, tanto che ne avete la commodità, poi che verrà tempo che piangerete li gusti persi nella gioventù in quella guisa ch'io faccio adesso; raccomandatemi nelle vostre orazioni a Dio, ch'io vo a fare lo stesso per me e per voi tutti, acciò ci libera e diffenda da forza di giustizia in questa nostra vita sì ripiena di perigli; e conservatevi in pace. Andata che fu la vecchia, stese la Gananciosa il lenzuolo in vece di tovaglia, assentandosi tutti d'intorno la stuoia. La prima cosa che cavò fuori dalla cesta fu un gran fasciume di ravani e da due dozine fra melarancie e limoni, con un gran piatto di pezzi di merluzzo fritto. Scoperse poi una mezza forma di formaggio di Fiandra ed un vaso di famose olive, con un piatto di gambari ed un altro di capari grossi, affogati nel pepe, e due focaccie bianchissime di Gandul. Erano da quatordeci quelli della colazione e nissuno fuorché Rinconette lasciò di cavar fuori il coltello, perché pose mano alla sua mezza spada. Alli due vecchi di venerabile presenza ed alla guida toccò in sorte riffondere il chiaro agli altri. Ma apena avevano incominciato a dare un assalto a' melaranci che per il battere terribile che si fece alla porta si spaventarono tutti. Monipodio, di questo accortosi, comandò che ciascuno si quietasse; ed entrando nella saletta de' brocchieri, staccatone uno dal muro ed impugnata la spada, si fece alla porta, dicendo con voce spaventosa ed orribile:

—Chi chiama?

—Son io, signor Monipodio —rispose uno di fuori—; non dubitate di male, che sono Tagarete, sentinella di questa mattina, e vengo per dire qualmente Giuliana la Cariharta viene tutta rabuffata e piangente, come che li sia accaduto qualche male.

Entrò in questo la detta Giuliana e Monipodio comandò alla sentinella che per lo avvenire avisasse con meno strepito e romore, e che si ritornasse al suo posto. Era questa Cariharta della ciurma dell'altre, tutta scapigliata, con il volto gonfio; et appena pose li piedi nel cortile quando che svenuta lasciò cadersi a terra. Corsero in suo agiuto la Gananciosa e la Escalanta, le quali slacciandole il petto la ritrovarono tutta pesta e flagellata, poi, gettandoli acqua nel volto, fecero sì ch'ella ritornò in sé stessa, dicendo con un sospiro queste parole:

—La giustizia del cielo e del re discenda sopra quel ladrone, taglia mostacci, sopra quel codardo, sopra quel picaro pidocchioso, che più volte l'ho levato dalla forca che non ha peli in barba. Sventurata me, guardate per chi ho persa, per chi ho spesa la mia gioventù, per un vigliacco disanimato, per un scelerato incorregibile.

—Acquietati, Giuliana —disse allora Monipodio—, che quivi sono io per farti giustizia; racconta pure quale fu l'offesa, che tanto starai tu in farla palese quant'io in vendicarti; di' pure se brami qualche sodisfazione circa l'averti poco rispettata né ti dubitare di un punto.

—Che rispetto? —rispose allora la Giuliana— Possa io più tosto vedermi rispettata nell'inferno che da questo pusillanimo cogli uomini e sgherrone con le femine; devo io più mangiare pane attossicato di questa maniera? Più tosto mi venga la schinanzia che che egli abbia più a godere queste carni acconcie come vedrete.

Ed alzando la gonella fino al ginocchio ed anco più suso le dimostrò tutte inlividite, soggiungendo:

—Di questa maniera mi ha acconcia quel ingrato(20) del Repolito, il quale più dovrebbe essermi obligato che alla madre che lo partorì. Et perché pensate che egli abbia fatto questo? Forsi perché da me n'avesse la cagione? No certo, ma solo perché, nel giuoco perdendo, mandommi a chiedere da Caprino suo garzone trenta reali ned inviandogliene io più di ventiquattro, che l'affanno con che li aveva acquistati vada in discolpa de' miei peccati, pensando egli che del restante volesse farli un agresto, in pagamento di sì buon'opera questa mattina in un canto dietro li giardini del re, fra certe olive alzatimi li panni, con il centurino senza levare li ferri, che in tanti ceppi e catene li si convertano, mi diede tante sferzate che mi lasciò per morta, della qual vera istoria ne sono buonissimi testimoni questi segni neri che sopra le carni si vedono.

Quivi ritornò di nuovo a chiedere giustizia, a domandare vendetta e Monipodio, con gli altri tutti, a promettergliela. Mise mano la Gananciosa a consolarla dicendo:

—Pagherei io una bella cosa che altretanto mi fosse accaduto con il mio bene, dovendo tu sapere, sorella mia, se pure non lo sai, che chi bene ama, bene castiga e, quando questi vigliacconi ci battono e ci castigano, allora ci adorano. Ma tu, confessami una verità per vita tua, Giuliana: dopo di averti il Repolito battuta, non ti fece alcuna carezza?

—Come se me ne fece? —rispose la Giuliana— Avrebbe dato un dito della sua mano, perché andassi con lui alla sua stanza e quasi che li vennero le lagrime agli occhi doppo di avermi battuta.

—Non v'ha dubbio —soggiunse la Gananciosa— ch'egli avrà pianto ed invero che in simile caso, succedendone il pentimento, può dirsi che l'uomo sia senza colpa; e credimi che prima si partiamo di questo luogo lo vedrai venire a chiederti perdono di quanto ha fatto, umile come una pecora.

—A fé —disse Monipodio— che il vituperoso non entrerà in questa casa prima di fare una manifesta penitenza del delitto. Aveva egli da mettere le mani nel viso della Giuliana e sopra le sue carni, essendo persona che in pulitezza e grazia può competere con la stessa Gananciosa, qui presente, che non posso dir più?

—Ah per vita di v. s., signor Monipodio —disse allora la Giuliana—, non dite più male di quel scelerato, che ancor che egli sia tristo e rinegato pure lo amo tanto quanto me stessa; le parole che in sua diffesa la Gananciosa amica mia ha dette m'hanno ritornata l'anima nel corpo; e quasi sarei di parere di andarlo a cercare.

—Questo non farai tu già per mio consiglio —soggiunse la Gananciosa—, essendo che per lo avvenire farebbe peggio, dimostrandosi stuffo e renitente e facendo di te giuochi come di un corpo morto. Sta' pure salda, che non passerà molto lo vedrai venire della guisa che ti ho detto; caso che poi la cosa andasse al contrario li scriveremo una prosa in rima che lo inamarirà(21) tutto.

—Oh questo sì —disse la Giuliana—, che ho mille cose da dirli.

—Et io sarò il segretario —soggiunse Monipodio—, quando ne farà bisogno, perché, se bene io non so un iota di poesia, ad ogni modo se mi ci metto mi dà l'animo di fare due migliaia di rime in un santiamen; et quando che non riuscissero a tutta perfezione ho un amico barbiere gran poeta che d'avantaggio ci empirà le misure, ogni volta che vorremo; ma per adesso finiamo la colazione, che dopo si farà il tutto.

Si accontentò Giuliana di ciò che volse il suo priore; e così tutti di accordo si posero a dar fine all'incominciato gaudeamus, tanto che in poco spazio videro il fondo della cesta e la feccia della borraccia. Li vecchi bevetero sine fine, li giovani alla pariglia e le signore quando le piacque. Concesse licenza Monipodio alli due vecchi, che gliela chiesero, di andarsene, raccomandandoli sopra ogni cosa di osservare ed avvisare quanto giudicassero ispediente ed utile della compagnia. Appena furno partiti quando Rinconette, di natura curioso, chiesto prima perdono e licenza addimandò a Monipodio di che servissero quelli due vecchi alla compagnia, sì canuti, sì venerandi e gravi. Al quale egli rispose che quelli due fra loro si addimandavano vesponi e che servivano con l'andare di giorno per tutta la città spiando in qual parte si potevano salutare le case di chi riscuoteva dinari ne' banchi, overo in ceca, osservando dove li mettevano e toccando(22) la grossezza del muro per sapere quali stromenti dovevano portare la notte per fare le rotture. In risoluzione disse che quella gente era di tanto utile quanto altra alla compagnia e che di quanto si gramignava n'avevano il quinto, come s. m. de' tesori, però ch'erano uomini di molta verità, onorati, di buona vita e fama, timorati di Dio e della loro conscienza, sentendo messa ogni giorno con molta divozione, e che erano più che ben creati, poiché di quanto delli utili delle cose gramignate in loro parte toccava si accontentavano alle volte di poco.

—Altri due(23) —seguì— sono fachini che, mutando tutto il giorno case, sanno quali siano d'utile e quali no, quante le entrate e quante le uscite di ciascuna d'esse in questa città; di modo puoi pensare quanto sia il benefizio che da questi riceve la compagnia.

—Parmi il tutto di perla —disse Rinconette— ed anch'io bramerei essere di alcun giovamento a questa compagnia.

—Sempre il cielo favorisce li buoni desiri —soggiunse Monipodio—, sì che, figliuol mio, non dubitare.

Mentre di questa maniera discorrevano, sentirono battere alla porta, alla quale fattosi Monipodio richiese chi fosse e li fu risposto:

—Apra, v. s. signore, ch'io sono il Repolito.

Giuliana, che ciò sentì, conoscendolo alla voce incominciò gridare:

—Non lo apra il signore Monipodio, non lo apra; non lasci entrare in nessuna maniera questo rinegato, questo marinaro di Tarpea, questa tigre di Ocagna(24).

Non lasciò per questo di aprire Monipodio, il che vedendo lei, levatasi di donde era, correndo entrò nella picciola saletta de' brocchieri, dove, serrando di dentro l'uscio, incominciò a dar voci dicendo:

—Levamisi davanti questo uomo da niente, questo boia dell'innocenti e questo spaventatore delle colombe domestiche.

Maniferro e Gichiznache tenevano a forza il Repolito, che per ogni modo voleva entrare, però, vedendo essere ogni fatica invano, diceva di fuori:

—Non più, non più, vita mia, acquietati né ti attristare, che ti possa io vedere maritata.

—Maritata io, traditore —rispose la Giuliana—, io maritata? Ben lo vorresti, e che io ti fossi moglie, ma più tosto io sarei della morte che tua.

—Orsù, stolta —replicò Repolito—, finiamola né fare la schizzignosa, perch'io parla teco tanto umilmente che, per vita di chi non so dire, se mi fai montare la colera sarà peggio la ricaduta della caduta; renditi umile ed umiliamosi ambidue né diamo da mangiare al diavolo.

—Et anco da bevere —disse la Giuliana— li darei io, perché ti portasse in parte donde mai più ti vedessi.

—Non dich'io —disse il Repolito— che col volere fare delle tue sarai causa ch'io farò delle mie? Che sì, s'io mi ti metto attorno, che le sferzate del centurino si convertiranno in bastonate!

Monipodio, ciò sentendo, vedendo che la cosa doveva parare in brutta maniera pensò di rimediarvi; così con la solita sua gravità disse:

—Olà, non più, finiscasi per adesso questa lite ned alla mia presenza per lo avvenire si porti così poco rispetto. Uscirà la Giuliana ma non già per le minaccie, quanto lo farà per amor mio; e di questa maniera il tutto passerà bene, poiché le differenze degli amanti sono causa nelle riconciliazioni di maggior contento. Ah Giuliana, ah gioia, ah Giuliana, esci per amor mio, ch'io farò che il Repolito ti chieda perdono umile e genuflesso.

—Com'egli faccia questo —disse la Escalanta—, tutte saremo in suo favore e la pregaremo a venir fuori ed a volerli bene.

—Non si intendiamo —rispose il Repolito—, perché se questo si ha da fare con umiliarmi, dimodoché vi vada dell'onor mio, dicovi che non mi umilierei ad uno essercito di svizzeri; ma se per lo contrario di questo gode la crudele non solo me li inginocchierò davanti ma mi ficcherò un chiodo nella fronte per suo servigio.

Risero di questo li due Maniferro e Gichiznache, cagione che, pensando il Repolito di lui facessero la burla, tutto alterato li disse:

—Chiunque si riderà o penserà di ridere, per quello che fra la Giuliana e me è passato, dico che se ne mente e mentirà tutte le volte che riderà o pensarà di ridere, come ho detto.

Si risguardarono li due come stupidi per la impertinenza del Repolito; e cangiandosi in un subito di colore fecero sì che Monipodio, accorgendosi di ciò che poteva accadere, vi si pose di mezzo dicendo:

—Abbia qui fine, o(25) cavalieri, la differenza né seguano altre parole più gravi ma si disfacciano fra' denti; e poiché le dette finora non arrivano alla cintura nissuno le prenda per sé.

—Ben sappiamo noi —rispose Gichiznache— simili parole non esser dette per noi, che se fosse il contrario di già avressimo dato di mano al cembalo, che ben sapete se vi è chi lo saprà sonare.

—Ancor noi abbiamo cembalo —replicò il Repolito— ed ancora se farà bisogno sapremo toccare la sonagliera; et se ho detto che chi si ride o riderà de' fatti nostri se ne mente torno a dirlo di novo e chi pensasse il contrario mi segua, che con un palmo di spada farò vedere ch'io sia.

Dicendo questo si andava ritirando alla porta, quando la Giuliana, che il tutto aveva sentito, vedendolo di quella maniera andarsi, disse:

—Tenetelo, tenetelo, che non vada, perché farà delle sue, essendo un Giuda Macarello nelle forze; ritorna qua, valentone del mondo, luce degli occhi miei.

Così prendendolo per la cappa, con l'aiuto di Monipodio lo ritenne. Gichiznache(26) e Maniferro, senza punto moversi, osservavano in che doveva parare la cosa, quando il Repolito, pregato da Monipodio e dalla Giuliana, ritornò indietro, dicendo:

—Mai gli amici devono sturbare gli amici, né meno burlarsi delli amici, tanto più quando che essendo amici veggono che si alterano gli amici.

—Non vi è qui amico —disse Maniferro— che voglia burlare altro amico e poiché tutti siamo amici toccamosi la mano da amico.

A questo soggiunse Monipodio, dicendo:

—Le signorie vostre hanno parlato come buoni amici et come tali è di dovere si diano la mano da amico.

Allora tutti spogliandosi d'odio e di rancore si presero per le mani e la Escalanta, cavatasi di piede una pianella, incominciò con quella a contrafare il cembalo, di modo che, invitata da questo, la Gananciosa prese una scopa nova di palma, che ritrovò in un cantone, e grattandola leggiermente fece un suono che, abenché rauco, si concertava tuttavia con quello della pianella. Monipodio, come prencipe e quasi che mediatore di quella pace, per non istare ozioso ruppe un piatto, del quale fattone due piastrelle se le pose fra le dita e toccandole leggiadramente faceva il contrapunto alla pianella ed alla scopa. Stupironsi Rinconette e Cortadiglio della non più intesa invenzione della scopa, di che accortosi Maniferro gli disse:

—Forsi vi meravigliate del suonare che si fa con questa scopa? Per certo che è cosa di meraviglia, stando che già mai altro simile suono più facile, più pronto puossi ritrovare di questo; ed invero che l'altro giorno sentii dire da uno studiante mio amico che né il Negrofeo(27) che tolse dall'inferno Eravice, né Marione che cavalcava il delfino come una mula da vettura, né quell'altro gran musico che fabricò la città con le cento porte maestre ed altre tante porticciuole mai inventarono migliore stromento, tanto facile da adoprarsi, da sonarsi, senza tasto, senza corde, onde ne succeda la necessità di incordarlo, che è una bellezza. Giuro a tale che dicono lo inventò un certo vago, un certo zerbinetto di questa città che nella musica si pica di essere un altro Ettore.

—Tanto cred'io —rispose Rinconette—, però stiamo a sentire che sono per dire questi nostri musici, poiché, avendo sputato la Gananciosa, mi dà segno di voler cantare.

Et così era, perché, avendola pregata Monipodio cantasse alcuna frottola delle più correnti, la Escalanta volle prevenirla, dicendo con voce sottile e spezzata:

Per un sivigliano crudo e senza amore(28)

porto abrugiato questo misero core.

Seguì la Gananciosa cantando:

Per un morettino di color verde,

qual è la foiosa che non si perde?

Monipodio allora, dandosi maggior fretta nel dimenare le sue piastrelle, disse:

Garito han gli amanti, facciasi la pace

e per l'avvenire godano la pace.

Non volle la Giuliana passarsela in silenzio ma prendendo un'altra pianella si pose in danza, accompagnando gli altri, e disse:

Non mi dar, crudele, che se ben vedrai

mentre che mi batti a te stesso dai.

—Non si tocchino istorie passate —disse allora il Repolito—, non essendovene la cagione; ciò che è andato sia andato e non ne parliamo più, mettendo a mano alcun'altra cosa di nuovo.

Davano segno di non dar fine sì presto all'incominciato cantico, se alla porta non sentivano battere, alla quale fattosi Monipodio per vedere che fosse, disse la sentinella qualmente il capitano di giustizia si era lasciato vedere in capo la via e che davanti li andavano il Stornello ed il Fottivento(29), birri neutrali. Sentironlo quelli di dentro e si impaurirono di modo che la Giuliana e la Escalanta si posero al roverscio le pianelle in piedi, lasciando cadersi dalle mani Monipodio le piastrelle e la Gananciosa la scopa, rimanendo in turbato(30) silenzio la musica tutta. Gichiznache divenne muto, contristossi il Repolito e si suspese Maniferro, perloché tutti, qual per una parte e qual per l'altra, scomparvero, nascondendosi sopra i terrazzi della casa, affine di fuggirsene in altre. Mai fu scaricato arcobugio fuor di tempo che tanto spaventasse una banda di semplici colombe, quanto la voce della sentinella pose iscompiglio(31) tutta quell'onorata genia e nobile razza. Li due novizi Rinconette e Cortadiglio non sapevano che farsi e così stettero queti aspettando in che dovesse parare la cosa, che non fu altro che il ritornare la sentinella e dire come il capitano era passato(32) avanti senza pure dar segno di sospizione alcuna. Mentre che Monipodio tutto allegro stava ascoltando la novella felice, venne alla porta un cavaliere giovane vestito bizzaramente, il quale introdotto in casa fece subito Monipodio scendere li tre(33) Maniferro, Gichiznache ed il Repolito, comandando che gli altri si stessero di sopra. Rinconette e Cortadiglio, come che erano restati nel cortile, non sapendo dove fuggirsi poterono sentire quanto passò fra li sgherri e detto cavaliere, il quale disse a Monipodio perché tanto malamente si era esseguito lo imposto. E gli rispose che neanco sapeva ciò che ne fosse seguito ma che alla presenza stava chi ne aveva il carico e che di sé averebbe dato buon conto; e così richiese a Gichiznache che avesse fatto con quel freggio di quatordeci punti.

—E quale? —rispose Gichiznache— Quello di quel mercante dell'Incrociata?

—Sì —disse il cavaliere.

—Oh quello che circa questo passa —rispose Gichiznache— è che iersera lo aspettai alla porta della sua casa, dov'egli venne poco prima dell'orazione; così me li appressai, li misurai con la vista il volto e vidi esser tanto piccolo che difficile era lo improntarvi freggio da quatordeci punti, né sapendo come esseguire la destruzione.

—Instruzione volete dire —disse il cavaliere.

—Questo dich'io —soggiunse Gichiznache—, per non mancare del debito(34) mio diedi un man roverso sì terribile ad un suo staffiere che di sicuro passa il segno delli quattordeci punti.

—Più bramerei un freggio di sette punti sul volto al padrone che di quattordeci allo staffiere; in effetto non sono sodisfatto, però poco importa, facendomi poca guerra li trenta ducati lasciati per memoria dell'effetto; bacio le mani alle signorie vostre ed arivederci.

Ciò dicendo si levò il capello di testa, facendo segnale di andarsi; ma lo prese per la cappa Monipodio dicendo:

—Si trattenga v. s. e compisca la data parola, poiché dal canto nostro si ha compito il tutto. Venti ducati mancano e bisogna sborsarli prima che di quivi si parta od almeno, e questo riceva dalla nostra cortesia, lascia un pegno che li vaglia.

—E come dite —disse il cavaliere— di aver compito il convenuto se invece di freggiare il padrone avete freggiato il servo?

—O come fa il balordo —soggiunse Gichiznache—, quasi che non sappia quello che dice l'antico proverbio: Chi ama Giovanni, ama il suo cane.

—Ma a che serve questo proverbio? —disse il cavaliere.

—Serve —rispose Gichiznache— che, essendo lo stesso, chi odia Giovanni, odia il suo cane: Giovanni è il mercante, v. s. li vuol male, il suo staffiere è il suo cane; così dando al cane si dà a Giovanni; per questo il debito resta liquido, venendo dal canto nostro ad essersi effettuata la promessa; ed a v. s. tocca effettuare la sua.

—Di bocca mi levasti quanto hai detto —disse Monipodio—, sì che, signore, non si metta in questi puntigli per non sodisfare li suoi servitori ma si mostra liberale, pagando quanto è di dovere; et se poi bramerà si dia altro freggio al padrone di quanti punti può capire il suo volto, faccia conto che già sia nelle mani del cirugico, in cura.

—Quando ciò sia vero —rispose il cavaliere—, molto volontieri pagarò e l'uno e l'altro debito integralmente(35).

—Non dubiti di questo —disse Monipodio—, che Gichiznache glielo farà di modo che sarà stimato naturale, non fattoli a forza.

—Assicurato di questo —rispose il cavaliere—, prendasi questa colanna in pegno delli venti ducati del debito passato et d'altri quaranta che offerisco per il novo. Vale ottanta scudi; e vo pensando li abbia da restare nelle mani, perché credo mi bisognerà fra poco un altro simile freggio di quattordeci punti.

Presela Monipodio e ben conobbe, e per il peso e per il colore, non essere di alchimia; feceli molte essibizioni, procurando iscusarsi della impertinenza del pegno, essendo nel restante più che ben creato. Si partì il cavaliere contento ed a Gichiznache rimase il carico di freggiare il mercante, che per farne l'effetto non tolse più termine di quella notte. Addimandò poi Monipodio tutti gli accademici, li quali, scesi dall'alto donde si erano fuggiti, lo circondarono; ed egli cavandosi un picciolo libretto di memoria, che nel capuccio della cappa aveva, lo diede da leggere a Rinconette, non sapendo lui lettere; così apertolo nella primiera facciata vide che diceva:

Memoria de' fregi che si hanno da dare questa settimana.

Il primo al mercante dell'Incrocciata, vale cinquanta scudi, avutone trenta a buon conto; essecutore Gichiznache.

—Non credo che ve ne sia d'altro —disse Monipodio—, passa avanti e vedi dove dice: Memoria di bastonate.

Passò quel foglio Rinconette e vide che nell'altro era scritto:

Memoria di bastonate.

All'oste dell'insegna del Trifoglio dodeci bastonate delle più pesanti, d'accordo un scudo l'una; ricevutone otto a buon conto. Il termine sei giorni. Essecutore Maniferro.

—Ben si può anullare questa partita —disse Maniferro—, che questa notte li darò senza fallo effetto.

—Evvi altro? —disse Monipodio.

—Sì —rispose Rinconette.

Al sarto gobo, sovranominato il Silguero, sei bastonate di tutta perfezione a requisizione della dama che lasciò la gargantiglia. Essecutore il Desmochado.

—Meravigliomi —disse Monipodio— come tuttavia questa partita resti aperta. Senza dubio che deve star male il Desmochado, poiché due giorni sono passati del termine, né pure ha effettuato cosa alcuna.

—Io —disse Maniferro— lo ritrovai ieri e mi disse che per essere stato infermo il gobo non aveva potuto compire il debito.

—Questo cred'io —soggiunse Monipodio—, perché, essendo sì galantuomo il Desmochado, non avrebbe tralasciato di farlo se non trattenuto da più che giusto impedimento. Evvi altro, figliuol mio?

—No signore —rispose Rinconette.

—Passa dunque avanti —replicò Monipodio— e vedi dove dice: Memoria di ingiurie communi.

Voltò il foglio Rinconette e nell'altro ritrovò scritto:

Memoria d'ingiurie communi, cioè caraffate sul volto, insolenze con merda, attaccamenti di sambeniti(36) e corna, burle, spaventi, fracassi, coltellate finte, libelli infamatori, etc.

—Che dice più basso? —disse Monipodio.

—Dice —rispose Rinconette—: Insolenza con merda alla casa.

—Non si legga la casa —disse Monipodio—, che io so troppo bene dov'ella è e sono il tuautem ed essecutore di questa fanciullezza. Il pagamento è d'otto scudi e n'abbiamo quattro a buon conto.

—È il vero —rispose Rinconette—, che il tutto è quivi scritto; ed un poco più a basso dice: Ataccamento de' corni.

—Non più —disse Monipodio—, bastando farli la ingiuria, senza che si sappia la casa ed a chi deve farsi, essendo carico di conscienza il publicare simili cose; e più tosto vorrei avere d'attaccare cento corni, e fare mill'altre indignità, che già mai dirlo neanco alla stessa madre che mi partorì.

—Essecutore di questo —seguì Rinconette— il Narigueta.

—Già si ha esseguito —disse Monipodio— ed è stato pagato. Vedi più a basso, che se ben mi raccordo deve esservi uno spavento di venti scudi; la metà n'abbiamo avuta a buon conto ed è essecutore di questo la compagnia tutta. Il termine dell'effetto è tutto il presente mese e se li darà compimento puntualmente, senza che vi manchi un iota; e sarà una delle più stupende cose che finora siano successe in questa città. Dammi il libro, figliuolo, poiché so non esservi altro scritto, andando molto freddo l'uffizio nostro. Ma non importa, perché col tempo ci verrà da fare più di quello che vorremo, non movendosi mai foglia senza la volontà di Dio, né noi potiamo fare che alcuno si vendica per forza, tanto più che in causa propria ciascuno sa essere valoroso né vuole spendere in pagare manifatura di cose che da sé stesso può fare.

—Così è —rispose il Repolito—, però la signoria vostra veda se ci comanda alcuna cosa, perché si fa tardi ed il caldo entra più che di passo.

—Altro non comando —disse Monipodio—, se non che tutti si vadino alli loro posti; né si muti alcuno fino a domenica che viene, che in questo medesimo luogo convenendoci tutti si partirà ugualmente il gramignato. A Rinconette il Buono ed a Cortadiglio se li dà per distretto, fino al giorno che abbiamo detto, dalla torre dell'Oro per di fuori della città fino al portello del palazzo, donde potranno commodamente affaticarsi con le sfoiose, stando che io n'ho veduti molti di meno abilità, con una sola ciurma imperfetta di quattro foglie, ritornare la sera a casa con venti e ventidue reali il giorno di moneta, oltre l'argento. Questo vostro distretto vi insegnerà Ganchuelo; et benché vi estendeste fino a San Sebastiano, o più oltre, importa poco, benché sia giustizia mera e mista il non entrare nelle pertinenze degli altri.

Li resero grazie li due per così segnalato favore; ed egli cavandosi dal capuccio donde teneva il libro delle memorie una carta piegata la diede a Rinconette, perché vi ponesse il proprio nome con quello del compagno, essendo quella la nota delli confratelli; ma per non esservi calamaio nella casa lasciò detta carta al giovane, con che gli scrivesse nella prima bottega di speziale, dandoli la instruzione di questa maniera: "Rinconette e Cortadiglio, confrati, noviziato nessuno, Rinconette spillatore, Cortadiglio carpione, giorno tale, del tal mese, che fu dell'anno etc.", tacendo però li parenti e la patria. Mentre Monipodio stava parlando con li due giovani entrò nella casa uno de' vecchi chiamati vesponi e disse:

—Vengo a far noto alle signorie vostre qualmente adesso adesso ho ritrovato Lupino di Malaga e mi ha detto essersi molto avanzato nell'arte, dimodoché con foglie nette è bastante levare li dinari allo stesso diavolo, ma che per esser male all'ordine non viene a registrarsi ed a rendere l'obedienza solita, pure che dominica prossima verrà senza fallo alcuno.

—Sempre tenni per fermo —disse Monipodio— che questo Lupino doveva col tempo riuscire nella sua professione unico, avendo le migliori e più accomodate mani a questo effetto che desiderare si possano, essendo che per esser buono ufficiale sono tanto necessari nel mestiere li stromenti perfetti per essercitarlo, quanto l'ingegno per apprenderlo.

—Rittrovai ancora —seguì il vecchio— in istrada de' Tintori in una camera locanda il Giudeo vestito da prete, qual mi disse essere andato ad alloggiare colà per aver notizia che due del Perù, assai doviziosi de dinari, similmente vi albergavano, affine di tirarli in qualche maniera a giuocare, che, se bene fosse di poco, pure che dietro al poco sperava dovesse venire l'assai. Dissemi di più che dominica non mancarà di venire e darà conto di sua persona.

—Questo Giudeo —disse Monipodio— è un gran ciurmante ed è di molto giudizio. Sono alcuni giorni che non l'ho veduto ed a fé che la pensa male, perché se mi fa alterare e mi ci metto attorno li disfarò la chierica, non avendo più ordini che 'l Turco e sapendo manco latino di mia madre. Evvi altro di novo?

—No signore —rispose il vecchio—, almeno ch'io sappia.

—Bene, sia in buonora —disse Monipodio—; prendete, signori confratelli, questa miseria —e compartì fra loro da quaranta reali— né manchi alcuno di venire dominica come li ho comandato, perché del succeduto non mancarà da spartire e da far ordini.

Tutti li resero grazie e si tornarono ad abbracciare il Repolito e la Giuliana, la Escalanta con Maniferro e la Gananciosa con Gichiznache, concertando di ritrovarsi in casa della Pipota quella stessa notte, dopo di aver dato opera a quello che per l'utile comune più importava; disse di venire anco Monipodio al registro de' panni lini e che poi voleva subito andare ad anullare la partita dell'insolenza con merda; abbracciò li due Rinconette e Cortadiglio, li quali dandoli la sua benedizione licenziò, incaricandoli sopra ogni cosa che non avessero mai alloggiamento fermo, e questo per la sicurezza di loro propria quanto per quella della compagnia. Andò seco Ganchuelo a insegnarli il posto assignato, ricordandoli che in nissuna maniera tralasciassero il venire all'accademia la dominica, dovendo, per quanto si imaginava, dare Monipodio lezione spettante all'arte loro. Con questo si partì lasciando li due compagni molto admirati di quanto avevano veduto e sentito. Era Rinconette, benché fanciullo, di buon giudizio e, come che fosse andato con suo padre a dispensare le bolle, sapeva qualche poco di parlare furbesco, di maniera che davali molto da ridere quando pensava a' vocaboli detti da Monipodio e dagli altri di quella benedetta confraternita, e più quando si ricordò che per dire Monipodio, parlando del giovamento all'anime del purgatorio, per modum suffragii, aveva detto per modo di naufragio e che cavavano lo stupendo invece dello stipendio di quello che si gramignava; e quando la Giuliana aveva detto che il Repolito era come una tigre di Occagna invece di Ircania con altre mille impertinenze; e specialmente li cadde in grazia quando disse che del travaglio avuto in guadagnare li vintiquattro reali andasse in discolpa de' suoi peccati. Li dava molto più meraviglia il pensare ancora come credevano e tenevano per fermo di andare in cielo, non mancando di fare le loro divozioni, essendo così pieni di furti, d'omicidi e d'offese di Dio. Rise molto della buona vecchia della Pipota che, avendo in sua casa i panni lini rubati, andava con tanta ipocrisia ad accendere le candelette alle imagini e con questo pensava andare in paradiso vestita e calciata. Non meno lo tenne suspeso il considerare la obedienza ed il rispetto che tutti portavano a Monipodio, essendo un barbaro, rustico e senza anima. Considerava quanto nel libretto di memoria aveva letto e li essercizi in che tutti si occupavano. Finalmente essagerò sino alle stelle della spensierata giustizia di quella città tanto famosa, poiché si comportava che in essa vivessero genti tanto perniziose e contrarie a' buoni costumi, e così propose di consigliare il suo compagno a non seguire più in simil vita, tanto vituperosa, tanto indegna e tanto dissoluta, benché, trasportato dalla giovanezza, che in sé stessa è lieve, e dalla poca esperienza, passò avanti alcuni mesi, nel qual tempo li accaderono cose che per narrarle richieggono una istoria intiera. Però si lascia per altra occasione a raccontare li suoi gesti e li suoi miracoli, con quelli del maestro Monipodio, ed altri successi degli altri confratelli dell'infame ridotto, tutte cose di molta considerazione e che di non poco essempio e giovamento saranno a quelli che leggeranno.

Il fine della novella terza